Rafting: responsabilità dell'organizzatore e cautele necessarie ad evitare il danno
12 Ottobre 2017
Massima
L'organizzatore di una attività sportiva (nella specie, rafting) che abbia caratteristiche intrinseche di pericolosità o che presenti passaggi di particolare difficoltà, nei quali il rischio di procurarsi danni alla persona per i partecipanti dotati di normali capacità sportive sia più elevato della media, deve, nell'ambito della diligenza dovuta per l'esecuzione della propria obbligazione contrattuale, illustrare la difficoltà dell'attività o del relativo passaggio e predisporre cautele adeguate affinché l'attività sportiva possa svolgersi in condizioni di sicurezza (nella specie, la Corte ha ritenuto la parziale responsabilità dell'organizzatore per i danni occorsi ad una ragazza che si era lanciata da un ponte in un torrente riportando la frattura di un piede). Il caso
L'attrice agiva in giudizio nei confronti di un club sportivo al fine di ottenere il risarcimento dei danni, sostanziatisi nella frattura del piede, subiti in conseguenza di un lancio da un ponte in un torrente, a seguito dell'invito rivolto dall'organizzatore. Il giudice di prime cure, riconosciuta la concorrente responsabilità dell'attrice ex art. 1227 c.c. in misura del 30%, condannava la convenuta al risarcimento dei danni. La pronuncia era confermata in appello, sul rilievo che il club sportivo non aveva adottato tutte le cautele necessarie ad evitare che i partecipanti alla escursione in rafting potessero subire un danno. I giudici di legittimità, con la pronuncia in commento, confermano la sentenza di appello La questione
La questione in esame è la seguente: quali sono le cautele che deve adottare l'esercente di una attività pericolosa per andare esente da responsabilità?
Le soluzioni giuridiche
L'orientamento giurisprudenziale prevalente prevede che devono essere ritenute pericolose le attività previste dagli artt. 46 ss. r.d. n. 773/1931, le attività considerate in materia di prevenzione degli infortuni e per la tutela dell'incolumità pubblica, oltre che a tutte quelle altre attività che, anche se non specificate o disciplinate, abbiano comunque una pericolosità intrinseca od in ogni caso connessa alle modalità di esercizio o dai mezzi di lavoro impiegati (Cass. civ., n. 8069/1993). Per delimitare i confini della applicabilità dell'art. 2050 c.c., si devono prendere in considerazione solo quelle di per sé potenzialmente dannose in ragione della pericolosità ad esse connaturata ed insita nel loro esercizio, a prescindere dal fatto dell'uomo. In via di principio si osserva, in conformità a una giurisprudenza assolutamente pacifica, che costituiscono attività pericolose ai sensi dell'art. 2050 c.c., non solo le attività che tali sono qualificate dalla legge di pubblica sicurezza o da altre leggi speciali, ma anche le diverse attività che comportino la rilevante probabilità del verificarsi del danno, per la loro stessa natura e per le caratteristiche dei mezzi usati; ciò vale allorché il danno sia conseguenza di un'azione, ma anche nell'ipotesi di danno derivato da omissione di cautele che in concreto sarebbe stato necessario adottare in relazione alla natura dell'attività esercitata alla stregua delle norme di comune diligenza e prudenza. In altri termini, agli effetti dell'art. 2050 c.c., è da reputarsi «pericolosa» l'attività che venga cosi qualificata dalla legge di pubblica sicurezza o da altre leggi speciali (attività pericolosa «tipica»), nonché quella che (attività pericolosa «atipica»), per sua stessa natura o per le caratteristiche dei mezzi adoperati o per la sua spiccata potenzialità offensiva, comporti la rilevante possibilità di un danno (Cass. civ., n. 22822/2010). Dalle attività pericolose devono essere tenute distinte quelle normalmente innocue, che possono diventare pericolose per la condotta di chi la esercita o organizza, o per errori o colpe nell'uso dei mezzi adoperati, e che comportano una (eventuale) responsabilità secondo la regola generale dell'art. 2043 c.c. (Cass. civ., n. 7916/2004). In altri termini, nel caso di una condotta pericolosa si tratta di verificare il grado di diligenza o di perizia dell'operatore: diversamente, nel caso di attività pericolosa, dovrà aversi riguardo alla natura della medesima o al grado di efficienza dei mezzi utilizzati (Cass. civ., n. 20357/2005). Inoltre ai fini dell'applicazione della norma di cui all'art. 2050 c.c. il giudizio di pericolosità eventuale dell'attività deve essere dato secondo una prognosi postuma sulla base dell'esame delle circostanze di fatto che si presentavano al momento dell'esercizio dell'attività (Cass. civ., n. 3471/1999; Cass. civ., n. 9205/1995). In tema di responsabilità per esercizio di attività pericolosa la presunzione di colpa a carico del danneggiante, posta dall'art. 2050 c.c., presuppone il previo accertamento dell'esistenza del nesso eziologico — la prova del quale incombe al danneggiato — tra l'esercizio dell'attività e l'evento dannoso, non potendo il soggetto agente essere investito da una presunzione di responsabilità rispetto ad un evento che non è ad esso riconducibile in alcun modo (Cass. civ., n. 10383/2002). Deve in sostanza esistere una relazione diretta tra danno e rischio specifico dell'attività pericolosa o dei mezzi adoperati (Trib. Perugia 7 giugno 2000, a mente del quale deve sussistere la relazione tra il danno e lo svolgimento della attività pericolosa, non tra il fatto specifico imputabile all'agente e l'evento dannoso, essendo sufficiente che il rapporto di causa efficiente sussista con l'attività pericolosa in senso generico), giacché, diversamente, il danno cagionato può essere riconosciuto solo in base al criterio generale dell'art. 2043, sempre ne ricorrano i presupposti di applicazione. Il nesso di causalità deve essere “adeguato”, ovvero è necessario che tra l'antecedente (esercizio dell'attività pericolosa) e le conseguenze (danno) vi sia un rapporto di sequenza “costante”, secondo un calcolo di regolarità statistica per cui l'evento appaia come una conseguenza normale dell'antecedente (Cass. civ., n. 20359/2005). Deve inoltre accertarsi che l'antecedente medesimo non sia neutralizzato, sul piano eziologico, dalla sopravvenienza di un fatto di per sé tale da determinare l'evento: in tal caso, anche nell'ipotesi in cui l'esercente dell'attività pericolosa non abbia adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno, realizzando quindi una situazione astrattamente idonea a fondare una sua responsabilità, la causa efficiente sopravvenuta che abbia i requisiti del caso fortuito — cioè la eccezionalità e l'oggettiva imprevedibilità — e sia idonea, da sola, a causare l'evento, recide il nesso eziologico tra quest'ultimo e l'attività pericolosa, producendo effetti liberatori (Cass. civ., n. 5254/2006; Cass. civ., n. 20359/2005; App. Bologna 19 giugno 2005). Il nesso causale può venire a mancare per il fatto del terzo, quando la condotta di quest'ultimo sia la causa esclusiva e determinante del danno (Cass. civ., n. 4777/1998), come dello stesso danneggiato, qualora per la sua incidenza e rilevanza sia tale da escludere, in modo certo, il nesso causale tra attività pericolosa e l'evento (Cass. civ., n. 8457/2004, ha escluso la sussistenza di un nesso di causalità immediata e diretta tra la circostanza che un palo di alta tensione dell'Enel, pur posto senza la piena osservanza delle norme di sicurezza, e il danno subito da un uomo arrampicatosi su di esso e raggiunto da una scarica elettrica, atteso che il comportamento “sconsiderato e acrobatico” del danneggiato dimostrava che questi, pur di mettere in opera il proprio proposito, avrebbe superato anche eventuali altre cautele predisposte dall'ente; App. Milano, 23 luglio 1999, ha osservato che anche il comportamento “incauto” del danneggiato interrompe il nesso causale tra l'attività pericolosa ed il danno subito); il nesso causale è altresì interrotto qualora emerga che il danneggiato si sia posto in una non corretta relazione con la situazione di pericolo, creando egli stesso le condizioni per non avvedersene o non poterla, in seguito, evitare. L'effetto liberatorio non si verificherà quando il fatto del terzo o del danneggiato costituisce (solo) elemento concorrente nella produzione del danno, inserendosi in una situazione di pericolo che ne abbia reso possibile l'insorgenza a causa della inidoneità delle misure preventive adottate (Cass. civ., n. 17851/2003; Cass. civ., n. 11454/2003). Inoltre, nell'ipotesi in cui sia ignota la causa dell'evento dannoso, la responsabilità va esclusa ove sussista incertezza sul fattore causale e sulla riconducibilità del fatto all'esercente (Cass. civ., n. 19872/2014; Cass. civ., n. 13397/2012; Cass. civ., n. 1032/2002). L'onere di allegare e provare gli elementi necessari a consentire il giudizio sulla pericolosità incombe su chi la invoca, non essendo sufficiente indicare il tipo di attività. La prova deve fornirsi secondo una prognosi postuma ex ante, ossia sulla base delle circostanze di fatto — conoscibili con la normale diligenza, o, comunque, che dovevano essere note dall'agente in considerazione del tipo di attività esercitata — esistenti al momento dell'evento. Accertato il nesso causale, e dunque attribuito l'evento dannoso all'esercente dell'attività pericolosa, il quale — come detto — risponde del danno indipendentemente da ogni sua colpa, è pur sempre possibile per quest'ultimo fornire la c.d. prova liberatoria, relativa alle modalità organizzative dell'attività, che devono essere idonee per prevenire l'eventualità di eventi dannosi, ovvero la prova di «avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno» (Trib. Gallarate 27 maggio 2005). Il danneggiante deve fornire una prova non solo “negativa” — non aver commesso alcuna violazione delle norme di legge, regolamentari o di comune diligenza o prudenza — ma anche “positiva” — aver impiegato ogni cura o misura (ivi compreso il rispetto delle più avanzate tecniche note ed anche solo astrattamente possibili all'epoca: Cass. civ., n. 5484/1998; Trib. Milano 15 giugno 2000) atta ad impedire l'evento dannoso (Cass. civ., n. 11454/2003; Cass. civ., n. 3022/2001). È poi irrilevante, ai fini dell'esclusione della responsabilità, che il danneggiato non abbia sopperito, con autonome iniziative, alle omissioni imputabili al gestore dell'attività medesima; l'art. 2050 c.c., infatti, non pone obblighi di diligenza a carico dei terzi estranei alla gestione dell'impresa pericolosa, né limita il proprio ambito operativo alle ipotesi in cui la responsabilità sia occulta, non avvertibile secondo un metro di ordinaria diligenza e quindi tale da tradursi in una insidia nascosta (Cass. civ., n. 2584/1989). L'attività pericolosa, in altri termini, deve essere svolta nelle condizioni di massima sicurezza, con l'adozione di ogni accorgimento che la tecnica offre. In particolare, se la tecnica ancora non offre, in rapporto alla attività pericolosa esercitata, misure adeguate a prevenire danni a persone o cose, il soggetto intraprende l'attività a proprio rischio, senza possibilità di prova liberatoria), quale ne sia il costo: se, nonostante ciò, l'evento dannoso si è verificato ugualmente, esso apparirà inevitabile, e pertanto non in rapporto causale con essa. Pertanto, chi pone in essere un'attività pericolosa è tenuto ad organizzarla in forme tali che risulti scongiurata l'eventualità che la pericolosità si sostanzi in un danno concreto.
Osservazioni
La responsabilità di cui all'art. 2050 c.c. si è sviluppata nell'ambito dell'attività d'impresa. La maggior parte delle attività imprenditoriali, infatti, comporta rischi che gravano su un numero potenzialmente indeterminato di soggetti. L'alternativa che si prospetta è, pertanto, la seguente: rimuovere i suddetti rischi, impedendo l'esercizio delle attività da cui originano, o consentirne lo svolgimento, prevedendo che i danni eventualmente prodotti vengano sopportati da chi le esercita. La ratio della responsabilità del produttore è riassunta dal brocardo latino cuius commoda eius et incommoda, principio in base al quale chiunque trae un utile da qualcosa (un'attività o un bene) deve rispondere dei danni da ciò causati alla società. Pertanto, l'alta probabilità di cagionare danni connessa all'attività “pericolosa” giustifica il particolare regime di imputazione della responsabilità previsto dall'art. 2050 c.c. La fattispecie normativa, infatti, si discosta dai generali canoni della responsabilità aquiliana e viene considerata “aggravata per colpa presunta” o, in base agli orientamenti attualmente prevalenti, una responsabilità “per colpa lievissima” o “oggettiva”, in ragione della unica (e onerosa) prova liberatoria che l'art. 2050 c.c. consente di offrire, consistente nella dimostrazione di avere adottato «tutte le misure idonee a evitare il danno». Non è così mancato chi abbia intravisto nell'art. 2050 c.c. una norma fondata sulla culpa laevissima. Secondo tale impostazione esisterebbe una differenza essenziale tra il criterio di colpevolezza enunciato dall'art. 2043 c.c., ed il grado di diligenza richiesto dall'art. 2050 c.c. Tale grado di diligenza sarebbe ricavabile dal contenuto della prova liberatoria, giacché il legislatore non avrebbe richiesto al convenuto di dimostrare di aver predisposto cautele atte ad evitare il danno, ma di aver adottato tutte le misure idonee ad evitarlo. Si tratterebbe quindi dell'inasprimento del normale obbligo di diligenza. Tutto ciò comporta che l'esercente dovrà rapportarsi non al comportamento di un individuo di normale prudenza, ma a quello di un soggetto spiccatamente meticoloso ed esperto. Una tale impostazione ha ricevuto critiche varie. In contrappunto con le tesi ora citate si è naturalmente sviluppato il filone di coloro che considerano l'art. 2050 c.c. come un'ipotesi netta di responsabilità oggettiva. Tale filone fa perno su due punti essenziali. La condotta dell'esercente l'attività pericolosa costituisce un semplice antecedente dell'evento dannoso, che gli viene ascritto indipendentemente da ogni riguardo per le sue condizioni psico-fisiche, talché l'esercente è chiamato a rispondere del danno ancorché minore o incapace naturale. Inoltre il contenuto della prova liberatoria esula dalla dimostrazione di una assenza di colpa. L'esercente deve dimostrare l'esistenza di una organizzazione preventiva in cui siano presenti tutti gli accorgimenti tecnici idonei ad evitare il danno. Ovviamente chi deve predisporre una organizzazione preventiva, idonea ad evitare il danno, è soggetto a doveri di diligenza, ma alla valutazione giudiziale della sua condotta non si applica il reasonable man standard, il parametro del pater diligens, per ciò l'insieme di doveri che su di lui incombono non sono rapportabili all'operatività del principio di colpevolezza. |