Il condominio non risponde se il portiere é oltremodo manesco
04 Agosto 2017
Massima
Il condominio non è responsabile, ex art. 2049 c.c., per le lesioni personali dolose causate da un pugno sferrato dal portiere dell'edificio condominiale ad un condomino (o ad un inquilino) in occasione dell'accesso del primo nell'appartamento del soggetto leso, al fine di ispezionare tubature ed escludere guasti ai beni comuni o limitare i danni da essi producibili, difettando il nesso di occasionalità necessaria tra la condotta causativa del danno e le mansioni esercitate, posto che, in queste, non rientra alcuna ipotesi di coazione fisica sulle persone presenti nell'edificio condominiale, né tali condotte corrispondono, neanche sotto forma di degenerazione ed eccesso, al normale sviluppo di sequenze di eventi connesse al loro ordinario espletamento. Il caso
La fattispecie esaminata, di recente, dai magistrati di Piazza Cavour prendeva le mosse da una pretesa risarcitoria, avanzata da un condomino, relativa ai danni causatigli dalle gravissime lesioni seguite ad un violento colpo al viso infertogli dal custode dello stabile condominiale mentre controllava le tubature nell'appartamento ove egli viveva: a tale scopo, l'attore conveniva in giudizio il suddetto aggressore e, invocandone la responsabilità ai sensi dell'art. 2049 c.c., anche il condominio. L'adìto Tribunale, all'esito di una complessa istruttoria (orale e tecnica), aveva accolto la domanda nei confronti del solo custode e limitatamente alle modeste lesioni ritenute direttamente legate da nesso causale con il violento colpo al viso sferrato dal convenuto, ma - per quel che interessa in questa sede - aveva escluso il nesso di occasionalità necessaria sulla cui base fondare la responsabilità anche del condominio. Tale sentenza, appellata dal condomino danneggiato, anche a seguito di un'ulteriore consulenza tecnica medica d'ufficio, veniva sostanzialmente riformata in suo favore dalla Corte d'Appello, in particolare, riconoscendo tanto il nesso causale tra l'invalidità permanente totale residuata per la perdita del visus ad un occhio, sebbene già in condizioni non ottimali, quanto il nesso di occasionalità necessaria tra la condotta dell'aggressore e le mansioni di portiere, condannando in solido quest'ultimo ed il condominio al pagamento di una determinata somma. La questione
Si trattava di verificare se, al caso di specie, fosse stato correttamente applicato l'art. 2049 c.c., secondo cui «i padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell'esercizio delle incombenze a cui sono adibiti», ovviamente calando tale disposto normativo al rapporto tra il committente/condominio e il dipendente/portiere. In particolare, occorreva accertare, sempre il portiere si trovava nell'appartamento del condomino su incarico dell'amministratore del condominio, se vi fosse un collegamento tra l'esercizio delle mansioni di portiere e l'aggressione de qua, contestandosila sufficienza della circostanza della qualità di portiere per la sussistenza della responsabilità del condominio ai sensi del citato art. 2049, in quanto era necessario o lo svolgimento della condotta dannosa pur sempre sotto il controllo del delegante, o la concreta agevolazione di tale condotta in dipendenza delle mansioni svolte o consentite nell'organizzazione del datore di lavoro. Nello specifico, si sosteneva la tesi volta ad escludere la suddetta responsabilità allorquando il preposto perseguiva finalità proprie alle quali il committente non fosse neppure mediatamente partecipe o interessato, oppure quando la condotta lesiva risultava commessa al di fuori dell'espletamento delle mansioni o dell'àmbito dell'incarico, sottolineando l'imputabilità del fatto a pregressi rancori personali tra le parti. Le soluzioni giuridiche
Gli Ermellini hanno ritenuto le doglianze del condominio meritevoli di accoglimento. In punto di fatto, è stato acclarato che il portiere aveva aggredito il condomino nell'appartamento dove quest'ultimo viveva e dove il primo si era recato per verificare il funzionamento di tubature e, quindi, nell'espletamento di «mansioni generalmente riconducibili a quelle di un portiere» di un edificio condominiale. Invero, corrisponde a nozioni di comune esperienza che, salvo improbabili espresse disposizioni contrarie, il portiere usualmente sia chiamato ad un primo sopralluogo nell'immediatezza della segnalazione di guasti ad impianti che potrebbero coinvolgere le strutture condominiali, beninteso con l'obbligo di avvertire sollecitamente l'amministratore per l'attivazione di ogni opportuno intervento sulle medesime, specie se urgente (art. 1135, comma 2, c.c.) o se relativo a potenziali pericoli per l'incolumità o la fruibilità quotidiana dell'immobile in proprietà esclusiva (come nella specie, trattandosi di tubature idriche). In punto di diritto, il Supremo Collegio ha osservato che tale fattispecie, però, non può ricondursi entro l'art. 2049 c.c., per avere il carattere esclusivamente personale dello scopo perseguito dal danneggiante «reciso ogni collegamento» con la sfera giuridica patrimoniale del padrone o committente. Il fatto che la responsabilità del preponente possa sussistere anche se il preposto abbia operato oltrepassando i limiti delle proprie mansioni o abbia agito all'insaputa del primo non consente di ritenere operativa la previsione del citato art. 2049 quando il fatto illecito sia avvenuto senza il benché minimo collegamento funzionale con l'attività lavorativa oppure quando la condotta abbia risposto ad esigenze meramente personali dell'agente (Cass. civ., sez. III, 22 agosto 2007, n. 17836). Insomma, impedisce la configurabilità della responsabilità in esame l'assoluta estraneità della condotta del preposto alle sue mansioni, quand'anche deviate o distorte, esigendosi, in ogni caso, almeno la possibilità di ricollegare, anche solo indirettamente, la condotta dannosa del preposto alle attribuzioni proprie dell'agente o all'àmbito dell'incarico affidatogli (Cass. civ., sez. III, 10 ottobre 2014, n. 21408; Cass. civ., sez. III, 29 dicembre 2011, n. 29727; Cass. civ., sez. III, 24 gennaio 2007, n. 1516). Osservazioni
Al riguardo, può dirsi consolidata la giurisprudenza - v., tra le altre, Cass. civ., sez. III, 11 febbraio 2010, n. 3095; Cass. civ., sez. III, 22 giugno 2007, n. 14578 - secondo la quale la responsabilità del preponente sorge «per il solo fatto dell'inserimento di colui che ha posto in essere la condotta dannosa nell'organizzazione del preponente» medesimo, senza che assumano rilievo né la continuità dell'incarico affidatogli, né l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato: basta che il comportamento illecito del preposto sia stato «agevolato o reso possibile dalle incombenze a lui demandate» dal preponente e che il preposto abbia «svolto la sua attività sotto il controllo» del primo, atteso che colui che, nell'adempimento delle proprie obbligazioni, si avvale dell'opera di terzi, ancorché non alle sue dipendenze, risponde anche dei fatti dolosi o colposi dei medesimi. In altri termini, ai fini dell'applicabilità dell'art. 2049 c.c., non è richiesto l'accertamento del nesso di causalità tra l'opera del preposto e l'obbligo del preponente, nonché della sussistenza di un rapporto di subordinazione tra l'autore dell'illecito ed il preponente medesimo e del collegamento dell'illecito stesso con le mansioni svolte dal preposto, essendo sufficiente, per il detto fine, un «rapporto di occasionalità necessaria», nel senso che l'incombenza disimpegnata abbia determinato una situazione tale da agevolare o rendere possibile il fatto illecito e l'evento dannoso, anche se il dipendente (o, comunque, il collaboratore dell'imprenditore) abbia operato oltre i limiti delle sue incombenze, purché sempre nell'àmbito dell'incarico affidatogli, così da non configurare una «condotta del tutto estranea al rapporto di lavoro». Si riconosce, altresì, che non esclude la responsabilità neppure la condotta criminosa e nemmeno quando l'agente abbia «ecceduto dai limiti delle proprie attribuzioni o all'insaputa» del datore di lavoro o del preponente (Cass. civ., sez. III, 22 settembre 2015, n. 18691; Cass. civ., sez. III, 4 aprile 2013, n. 8210; Cass. civ., sez. III, 25 marzo 2013, n. 7403; Cass. civ., sez. III, 12 marzo 2008, n. 6632). Tuttavia, tale concetto, proprio nell'ottica dell'elaborazione dell'istituto, deve essere adeguatamente inteso. Infatti, già in sede penale ed ai fini dell'affermazione della responsabilità civile da reato, la giurisprudenza di legittimità rimarca da tempo la necessità di riferirsi allo «scopo ultimo perseguito dal preposto» con la sua condotta, venendo ribadito in quella sede che la responsabilità civile per il reato sussiste quando l'agente abbia commesso l'illecito sfruttando comunque i compiti svolti, anche se oltre i limiti delle sue incombenze e persino se ha violato gli obblighi a lui imposti, ma escludendosi detto rapporto quando il dipendente, nello svolgimento delle mansioni affidategli, commette un illecito penale per «finalità di carattere esclusivamente personale», di fatto sostituite a quelle del preponente e, anzi, in contrasto con queste ultime (v., tra le più recenti, Cass. pen., sez. III, 5 giugno 2013, n. 40613; Cass. pen., sez. VI, 27 marzo 2013, n. 26285). Anche in sede civile, per affermare le responsabilità di cui sopra, occorre che il preposto abbia perseguito finalità «coerenti» con quelle in vista delle quali le mansioni gli furono affidate e non finalità proprie alle quali il committente non sia neppure mediatamente interessato o compartecipe (v., tra le meno recenti, Cass. civ., sez. III, 10 dicembre 1998, n. 12417). In effetti, quanto sopra rilevato risponde alla ratio stessa del secolare istituto - ricostruito, dalla migliore dottrina, come ipotesi di vera e propria responsabilità oggettiva indiretta - in quanto la legge non consente alcun tipo di prova liberatoria a carico di padroni e committenti o preponenti, al contrario di quanto previsto, ad esempio, dagli artt. 2048 e 2051 c.c. (disciplinanti la responsabilità, rispettivamente, dei genitori, tutori, precettori e maestri d'arte, nonché dei custodi). In effetti, la natura oggettiva della responsabilità de qua si evince chiaramente dal fatto che l'art. 2049 c.c. non prevede alcuna prova liberatoria a favore del datore di lavoro, perché se si registrasse, invece, una responsabilità qualificata da un punto di vista soggettivo, dovrebbe essere accolta una prova liberatoria basata sull'assenza di colpa nella scelta o nella vigilanza del preposto da parte del preponente, tanto che, ai fini dell'affermazione di responsabilità del preponente, si considera anche irrilevante che la scelta del preposto non sia stata libera, ma imposta da leggi o da regolamenti. In quest'ottica, la responsabilità in esame prescinde del tutto da una culpa in eligendo o in vigilando del datore di lavoro o preponente, e si rivela, quindi, insensibile all'eventuale dimostrazione dell'assenza di colpa, e tanto in estrinsecazione del principio cuius commoda eius et incommoda, secondo il quale del danno causato dal dipendente deve rispondere colui che normalmente trae vantaggio dal rapporto con il preposto (Cass. civ., sez. III, 16 marzo 2010, n. 6325). Il suesposto criterio viene giustificato con la capacità dell'impresa di assorbire i costi e di distribuirli nella collettività: l'imprenditore, infatti, è il soggetto meglio di altri in grado di valutare i rischi connessi alla sua attività, è meglio di altri in grado di prevederli e di controllarli, ma soprattutto è meglio di altri in grado di ripartirli secondo la formula della socializzazione del rischio che porta all'assicurazione della responsabilità civile. Orbene, se questa è la giustificazione di una simile responsabilità, è evidente - ad avviso del collegio - che le condotte del preposto, le cui conseguenze possa sopportare il preponente, debbono essere in qualche modo collegate alle ragioni, anche economiche, della preposizione e ricondursi al novero delle normali potenzialità di sviluppo di queste, se del caso considerate alla stregua dell'ordinaria responsabilità per colpa collegata alla violazione dell'altrui affidamento. Ed allora di una condotta posta in essere senza alcun nesso funzionale, nemmeno potenziale e quand'anche deviato rispetto a quello lecito, con le mansioni e, quindi, con le ragioni, anche economiche, della preposizione, non può essere chiamato a rispondere il preponente, quando appunto quella, se rispondente a fini esclusivamente personali dell'agente, non possa ricondursi al novero delle potenziali condotte normalmente estrinsecabili nell'esercizio delle sue funzioni dal preposto o, in alternativa, a condotte l'affidamento sulla cui imputabilità al preponente derivi da colpa di quest'ultimo. In quest'ordine di principi, la Cassazione osserva che questi requisiti ricorrevano nella fattispecie de qua. Infatti, sferrare un pugno ad un condomino dell'edificio condominiale, causandogli lesioni personali gravissime, non rientra certamente nelle mansioni o funzioni del portiere, né corrisponde al normale sviluppo di sequenze di eventi connessi all'ordinario espletamento di queste ultime. E che l'accesso all'abitazione del condomino danneggiato sia avvenuto in funzione di un'attività in astratto riconducibile alle stesse - l'ispezione delle tubature, per escludere guasti a quelle comuni o limitare i danni da quelle producibili - costituisce, a tutto concedere, appunto una «mera occasione», ma che non ha agevolato in alcun modo la violenta e brutale aggressione da parte del portiere, aggressione, peraltro, che bene avrebbe potuto aver luogo in qualunque altra circostanza, neppure essendo mai stato allegato che la spendita della qualità di portiere abbia consentito all'aggressore di vincere particolari cautele della vittima o di sorprenderla oppure ancora di porre in essere l'aggressione, al contrario, rendendo l'incontestabile violenza e brutalità dell'aggressione evidente l'estraneità di una tale, benché certamente esecrabile, condotta alle mansioni o funzioni del preponente. E tanto meno può sostenersi che l'aggressione del condomino rientri, nemmeno sotto «forma di degenerazione o eccesso» però non impossibili, tra quelle condotte esclusivamente personali che normalmente ci si può attendere da chi espleta le funzioni di portiere, diversamente, ad esempio, da quanto può accadere per altre categorie di preposti, come coloro che sono a guardia degli ingressi o incaricati della sicurezza di locali pubblici o aperti al pubblico (c.d. buttafuori), non rientrando appunto nelle mansioni del portiere alcuna ipotesi di coazione fisica sulle persone che si trovano nell'edificio condominiale. Davola, Responsabilità del datore di lavoro e nesso di occasionalità necessaria: la rilevanza del preposto ai fini dell'imputazione dell'illecito, in Foro it., 2016, I, 2773; Monateri, La responsabilità civile, in Trattato di diritto civile diretto da Sacco, Torino, 1998, 1002; Galoppini - Baldassari, La responsabilità civile dei padroni e dei committenti, in La responsabilità civile a cura di Cendon, Torino, 1998, 181; Alpa - Bessone - Zeno Zencovich, I fatti illeciti, in Trattato di diritto privato diretto da Rescigno, Torino, 1995, 340; Franzoni, Dei fatti illeciti, in Commentario del codice civile diretto da Scialoja e Branca, sub artt. 2043-2059, Bologna-Roma, 1993, 462; Salvi, Responsabilità extracontrattuale, in Enc. dir., XXXIX, Milano, 1988, 1243; Trimarchi, Rischio e responsabilità oggettiva, Milano, 1961, 155. |