Fumo passivo in ambiente di lavoro: tutela della salute e obblighi di protezione del lavoratore

Ombretta Salvetti
20 Ottobre 2017

L'obbligo protettivo del datore di lavoro nei confronti dell'incolumità del lavoratore si estende fino al profilo "ambientale" del luogo di lavoro anche in dipendenza di comportamenti privati degli altri dipendenti?
Massima

L'obbligo giuridico del datore di lavoro di adottare tutte le misure idonee a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore si estende anche alla tutela contro l'esposizione prolungata al fumo passivo di sigarette.

Il caso

Gli attori, in proprio e quali eredi della defunta signora, già funzionario regionale alle dipendenze della Sopraintendenza dei beni culturali della Regione Sicilia dal settembre del 1979 al 2000, poi trasferita alla Presidenza della Regione, convenivano in giudizio la Regione Sicilia - Assessorato beni culturali e la Presidenza della medesima Regione-, innanzi al Tribunale di Palermo, chiedendo il ristoro dei danni patiti jure proprio ed in qualità di eredi della loro congiunta defunta. I ricorrenti allegano che la signora, deceduta nel 2004 dopo molte sofferenze e cure chemioterapiche, aveva contratto un adenocarcinoma polmonare, diagnosticato nell'aprile del 2001, in conseguenza dell'ultraventennale esposizione costante al fumo passivo di sigarette dei colleghi e/o degli utenti, per avere condiviso la postazione di lavoro con tre colleghi fumatori in luogo privo di aerazione, presso la Sopraintendenza, dal 1979 al 1993, quindi essendo stata spostata al ricevimento al pubblico, ove inalava continuativamente il fumo degli utenti, senza che l'Ente avesse disposto alcun presidio o imposto il divieto di fumo, fino al 2000. Allegavano la responsabilità da inadempimento del datore di lavoro all'obbligo di tutela della salute della lavoratrice dipendente e chiedevano il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali per la lesione dell'integrità fisica jure hereditatis, nonchè il danno jure proprio per la perdita del rapporto parentale con la congiunta.

Le Amministrazioni convenute contestavano la fondatezza delle domande, eccependo che, all'epoca dei fatti, non vigesse ancora il divieto di fumo all'interno dei locali adibiti ad uffici pubblici; eccepivano altresì la prescrizione quinquennale e l'avvenuta rinuncia, da parte della lavoratrice, alla domanda di prestazione previdenziale per causa di servizio.

La questione

Le questioni all'attenzione del Tribunale di Palermo sono le seguenti:

a) L'obbligo protettivo del datore di lavoro nei confronti dell'incolumità del lavoratore si estende fino al profilo "ambientale" del luogo di lavoro anche in dipendenza di comportamenti privati degli altri dipendenti o di estranei al processo produttivo, quali fumare sigarette?

b) Quale può essere l'estensione di tale obbligo, in assenza di previsioni normative esplicite?

c) Può sussistere il nesso causale fra l'esposizione al fumo passivo di sigaretta e patologia polmonare e, in caso positivo, la responsabilità del datore di lavoro per la patologia contratta dalla lavoratrice?

Le soluzioni giuridiche

a) L'obbligo di protezione del datore di lavoro

Il Tribunale di Palermo, nella sentenza n. 2227/2017, dopo avere dichiarato la prescrizione, ai sensi dell'art. 2947 c.c., delle domande tutte fondate dagli attori, jure hereditatis, sul titolo extracontrattuale, per intervenuto decorso del termine quinquennale e dopo avere affermato la giurisdizione del Tribunale ordinario sull'azione risarcitoria da inadempimento contrattuale proposta dagli eredi della lavoratrice deceduta, ai sensi dell'art. 69, comma 7 del d.lgs 30 marzo 2001 n. 165, perché ha ritenuto che si trattasse di illecito permanente cessato in epoca successiva al 30 giugno 1998, ha accertato la sussistenza di un obbligo del datore di lavoro di adottare tutte le misure idonee a tutelare l'integrità fisica e la personalità giuridica della lavoratrice, anche nelle ipotesi in cui eventuali condotte antigiuridiche fossero state poste in essere da colleghi di lavoro o da terzi, tramite il positivo apprestamento di tutti i mezzi idonei ai fini della sicurezza e della protezione della salute.

b) L'estensione degli obblighi di protezione del datore di lavoro

Gli obblighi protettivi del datore di lavoro, secondo la sentenza in commento, discendono dall'art. 2087 c.c. ed integrano il contratto di lavoro. In particolare, per quanto riguarda l'obbligo preventivo generale di riduzione delle fonti di rischio per la salute dei lavoratori, non rileva la mancanza di espliciti divieti normativi alla tolleranza di determinate condotte, se le medesime siano notoriamente da considerarsi nocive, per generale consapevolezza. Per quanto riguarda l'esposizione dei lavoratori al fumo passivo in ambiente di lavoro, anche se fra il 1979 ed il 2002 non vigeva un esplicito legislativo divieto di fumare nei locali non aperti al pubblico della Regione Sicilia, rilevavano comunque l'art. 3 della legge n. 626/1994 e la l. 11 novembre 1975 n. 584 in tema di divieto di fumo in determinati locali pubblici e su mezzi di trasporto pubblico, nonché la Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri 14 dicembre 1995, per cui, a decorrere almeno dal 1993, epoca della c.d. privatizzazione del pubblico impiego, o dal 1994, sussisteva consapevolezza in merito ai rischi alla salute che le immissioni di fumo di sigaretta sono suscettibili di provocare.

Ne conseguiva i seguenti obblighi giuridici dell'Amministrazione, di natura contrattuale:

  • vietarne la combustione all'interno di locali chiusi ove il personale trascorre quotidianamente molte ore;
  • vigilare sull'effettivo rispetto di tale divieto;
  • adottare adeguati sistemi di ricircolo dell'aria, conformemente allo stato della tecnica dell'epoca, onde eliminare la fonte di pericolo per la salute dei dipendenti non fumatori, condotte tutte pacificamente omesse dall'Amministrazione.

c) Nesso causale e responsabilità dell'Ente datore di lavoro

Il Tribunale, sulla scorta di una consulenza tecnica medico-legale, ha acclarato la verosimile riconducibilità della neoplasia polmonare riscontrata sulla lavoratrice, poi deceduta, alla prolungata esposizione al fumo passivo per il periodo temporale indicato nel quesito (cinque anni) e, conseguentemente, non essendo nemmeno stata contestata, dall'Amministrazione pubblica convenuta, l'omessa adozione di qualsivoglia divieto o misura protettiva, ha ritenuto la Regione (nella specie, l'Assessorato ai beni culturali) responsabile dell'illecito omissivo, a titolo contrattuale, e l'ha condannata al ristoro dei danni patiti in vita dalla lavoratrice.

Osservazioni

La tematica dei danni alla salute provocati dall'inalazione del fumo delle sigarette (c.d. “tobacco litigation”) è stata più spesso affrontata, sotto il profilo del fumo attivo, con riferimento alla responsabilità del produttore di tabacchi, con tutte le difficoltà annesse e connesse, in primis quella dell'identificazione del soggetto legittimato passivo, strettamente connessa alla prova della tipologia e marca delle sigarette consumate abitualmente o esclusivamente dal danneggiato, delle sue abitudini e del nesso causale medico-legale fra fumo attivo e l'eventuale patologia allegata dal danneggiato, generalmente di tipo cancerogeno, anche in relazione alle possibili cause alternative o concause della malattia .

Il contenzioso da fumo “passivo” riguarda, invece, tutte le ipotesi in cui il fumo da sigarette provochi danni a soggetti terzi, non fumatori, i quali si trovino a dover convivere o soggiornare prolungatamente in ambienti chiusi, insieme a soggetti fumatori.

L'approccio della giurisprudenza italiana alla questione è stato necessariamente condizionato dalla scarsità, frammentarietà e lentezza degli interventi normativi in materia di danni da fumo passivo. Il legislatore, infatti, inizialmente, ha emanato disposizioni settoriali volte ad imporre il divieto di fumo solo in specifici luoghi lavorativi caratterizzati da pericolosità, sotto il profilo della prevenzione degli infortuni sul lavoro, prevalentemente per il rischio di incendio o esalazioni nocive (cfr., ad es., d.P.R. 24 aprile 1955 n. 547 “Norme per la prevenzione di infortuni sul lavoro”; d.P.R. 20 marzo 1956 n. 320 “Norme per la prevenzione degli infortuni e l'igiene del lavoro in sotterraneo”; d.P.R. 9 aprile 1959 n. 128 “Norme di polizia delle miniere e delle cave”), imponendo il divieto di fumo solo laddove la combustione di sigarette potesse dar luogo ad esplosioni o ad innesco di fiamme. Nel 1975 è stata emanata la legge 11 novembre n. 584, che ha vietato il fumo di sigarette all'interno di alcuni locali e ambienti pubblici tassativamente determinati e dei mezzi pubblici di trasporto, fatta eccezione per locali dotati di adeguati impianti di ventilazione. Nel 1978, la l. 23 dicembre 1978 n. 833 ha dato risalto all'esigenza di pubblica tutela della salute umana e, a seguito del d.lgs. 19 settembre 1994 n. 626, si è previsto l'obbligo del datore di lavoro di affiggere cartelli riportanti il divieto di fumare negli ambienti di lavoro, a tutela dei dipendenti non fumatori. Solamente nel 2003 è stato introdotto il divieto generalizzato di fumo all'interno di tutti i locali pubblici, ad eccezione di quelli privati non aperti ad utenti o al pubblico e di quelli specificamente riservati ai fumatori, per cui, tuttavia, si richiede la specifica dotazione di idonei impianti di ventilazione ed areazione efficienti (cfr. art. 51 della legge 16 gennaio 2003 n. 3) e, con il d.lgs. 81/2008, sono stati imposti al datore di lavoro interventi per la valutazione e la previsione del rischio cancerogeno da fumo passivo.

In assenza di previsione di un divieto generalizzato di fumare sigarette in ambienti aperti al pubblico o in ambienti di lavoro, ma non essendo più ignoto alla scienza il potenziale pericolo per la salute umana determinato dall'esposizione al fumo passivo da sigarette (la sentenza del Tribunale di Palermo richiama, all'uopo, ad esempio, la Circolare del Ministero della Sanità n. 4 del 28 marzo 2001), la giurisprudenza giuslavoristica ha cercato, in passato, di prestare tutela ai lavoratori sottoposti ai rischi della costante esposizione al fumo passivo o, più in generale, ai rischi derivanti dall'insalubrità dell'ambiente di lavoro, avvalendosi dei rimedi generali predisposti dall'ordinamento e così ricorrendo ora al combinato disposto degli artt. 32 Cost. e 2043 c.c., ora alla forza espansiva dell'art. 2087 c.c., norma che, com'è noto, è stata via via riempita di contenuti dagli interpreti al fine di garantire la massima tutela dell'incolumità psicofisica e del rispetto della personalità morale dei lavoratori (si pensi, ad es., alla tematica del cd. “mobbing”) da parte del datore di lavoro, onerato di sempre crescenti obblighi di protezione, in stretto collegamento con la legge 626, spesso integrata con ulteriori specifiche di settore.

Oltre alle pronunce che, come la sentenza del Tribunale di Palermo, hanno inquadrato il danno da esposizione al fumo passivo da sigaretta nell'ambito del danno biologico (cfr. anche sentenza Cass., civ., sez. lav. n. 4211/2016), meritano menzione quelle, successive tutte al 2003, che hanno concesso la tutela al lavoratore non fumatore sotto il diverso profilo della condizione di disagio ingenerata dal comportamento del datore di lavoro vietato dall'art. 3 della legge 3/2003 (Trib. Milano 3 agosto 2014 n. 52536) e quelle che hanno, invece, incentrato la tematica sul danno esistenziale del lavoratore non fumatore per essere costretto quotidianamente a subire gli effetti molesti, fastidiosi ed insalubri del fumo passivo (Cass. civ., sez. III n. 7875/2009), ovvero hanno legittimato l'inquadramento del caso nell'ambito del mobbing, in relazione all'esposizione coatta del lavoratore non fumatore all'azione del fumo passivo provocato sia dagli utenti, sia da altri colleghi sia dal suo stesso capo e all'emarginazione progressiva patita dal medesimo, considerato, per la sua insofferenza al fumo altrui soggetto petulante ed eccessivamente polemico, isolato dai colleghi e sottoposto a svariate vessazioni (Cass. civ., sez. lav. n. 11789/2015).

Già nel lontano 1986, tuttavia, il Pretore di Santhià (sentenza 11 aprile 1986 ) aveva valutato che la salubrità degli ambienti di lavoro fosse tutelata dagli artt. 32 e 41 Cost. e che il divieto di fumo costituisse l'espressione della tutela di cui era onerato il datore di lavoro, in applicazione degli artt. 2087 e/o 2043 c.c., riconoscendo la legittimità dell'imposizione del divieto di fumo di sigaretta nei luoghi di lavoro che, nella specie, era contestato dai lavoratori fumatori. Nel 1988 il Tribunale di Milano aveva a sua volta condannato un datore di lavoro per omessa adozione di misure utili per ridurre le emissioni di fumo nei locali di lavoro (Pretore Milano, sent. 30 marzo 1988), avvalendosi dell'applicazione dell'art. 20 del d.P.R. 20 marzo 1956 n. 320, con tesi tuttavia non condivisa dalla S.C., che ha escluso che il fumo di sigarette potesse essere considerato incluso nelle ipotesi disciplinate dal richiamato decreto, riferibile solo ai macchinari e processi produttivi generanti fumo e non anche il fumo da consumo di sigarette da parte degli altri lavoratori.

Si trattava, tuttavia, di casi isolati, non essendosi ancora affermata la cultura della pericolosità per la salute del fumo da sigaretta e mancando ancora, come già si è precisato, una norma specifica che imponesse un divieto generalizzato di fumo in ambiente di lavoro, tant'è che la stessa Corte Costituzionale (sentenza C. Cost. n. 202/1991), chiamata a pronunciarsi in materia di divieto di fumo in ambienti limitati di determinati locali pubblici, in particolare le corsie degli ospedali, ai sensi dell'art. 1 lett. a) e b) l. 11 novembre 1975 n. 584, laddove si lamentava l'omessa previsione di un analogo divieto per locali pubblici di tipo diverso da quelli menzionati dalla legge, ha escluso, invece, che la condotta di un soggetto potesse essere assunta a fonte di responsabilità civile per il risarcimento dei danni, qualora al momento in cui essa è stata posta in essere non sussistesse ancora uno specifico obbligo giuridico sancito da una norma conoscibile da tale soggetto o non ancora vigente al momento della verificazione dell'evento dannoso.

In linea con tale interpretazione, il Tribunale di Venezia, chiamato a decidere in merito ad un'azione risarcitoria promossa contro la Presidenza del Consiglio dei Ministri ed il Ministero dell'Interno, nei confronti della prima per mancata adozione di un provvedimento legislativo di divieto di fumo dei locali pubblici diversi da quelli indicati dall'art. 1 della legge n. 584 del 1975, nei confronti del secondo per l'omessa sorveglianza da parte del Ministero dell'Interno in merito all'effettiva applicazione e sorveglianza circa il rispetto della normativa in materia di divieto di fumo nei locali indicati dall'art. 1 l. 584/1975, ha rigettato ambedue le domande, non avendo ritenuto la potestà legislativa suscettibile di coazione, impossibile, da parte del Ministero una vigilanza generalizzata ovunque e insussistente in concreto la prova del nesso causale fra patologia descritta e fumo passivo (Trib. Venezia, sez. III civ., 6 giugno 2008).

Il fulcro della questione, comune a quasi tutte le ipotesi di accertamento del nesso di causalità omissiva in ambito di responsabilità civile per danni e ben chiarito dalla menzionata sentenza della Corte Costituzionale, è proprio quello dell'individuazione dell'estensione e del limite della retroattività della responsabilità stessa, quando l'obbligo giuridico che si assume violato non sia ancora stato definito normativamente e ci si muova in ambiti scientifici non sempre acclarati né per il giurista né per l'imprenditore/datore di lavoro/Ente pubblico chiamato a rispondere di un non facere in relazione alle minori conoscenze tecniche del passato. Si pensi, ad esempio, alla delicata tematica dell'esposizione dei lavoratori all'amianto o alla vexata quaestio della responsabilità del Ministero della Salute per i danni alla salute cagionati da contagio in ambiente sanitario, a causa di trasfusioni di sangue o emoderivati infetti, di patologie virali quali l'epatite B e C o l'HIV, in relazione ad epoche storiche in cui l'esistenza di tali virus non fosse ancora nota oppure essi fossero già conosciuti, ma le tecniche di screening sui donatori non fossero ancora state approntate o non adeguatamente sperimentate.

Al fine di risolvere, in sede processuale, tale delicato problema non può che soccorrere l'ausilio della consulenza tecnica di ufficio medico legale, il cui quesito andrà modulato dettagliatamente sia sull'accertamento del nesso causale concreto fra l' esposizione prolungata del danneggiato primario all'agente dannoso, la cui durata e modalità andranno accertate tramite un'istruttoria rigorosa da effettuarsi prima del conferimento dell'accertamento peritale, onde poter sottoporre all'esperto dati oggettivi precisi e certi, raccolti in prove processuali utili a valutare la potenziale idoneità dell'esposizione al fumo passivo all'effetto dannoso allegato, sia sullo stato dell'arte all'epoca dei fatti.

Da un lato, infatti, se non viene raggiunta la prova che effettivamente l'esposizione al fumo passivo abbia determinato la patologia lamentata dal dipendente, la domanda andrà respinta (cfr. Cons. Stato, Ad.Pl. 8 ottobre 2009 n. 5), dall'altro, pare giuridicamente impossibile, oltre che iniquo, gravare di responsabilità civile, extracontrattuale o contrattuale, qualunque soggetto chiamato a rispondere per danni provocati da fenomeni del tutto ignoti alla scienza all'epoca in cui si assume la realizzazione delle condotte illecite omissive, non potendosi considerare esigibili obblighi protettivi di alcun tipo, in ordine a determinati fenomeni naturali , qualora ancora sconosciuti.

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