Errore diagnostico: al medico e alla struttura spetta la prova dell’irrilevanza causale
01 Dicembre 2017
Massima
In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell'onere probatorio l'attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l'esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l'insorgenza o l'aggravamento della patologia ed allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo invece a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato, ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante. Il caso
Tizia conviene in giudizio l'Azienda Ospedaliera e il medico-chirurgo, dipendente della medesima Azienda, chiedendo che ne fosse rispettivamente accertata la responsabilità per inadempimento contrattuale e la responsabilità da "contatto sociale". In particolare, l'attrice deduce di essere stata sottoposta ad un'operazione di asportazione totale di un rene su consiglio del medico che aveva diagnosticato una neoplasia in base alla presenza di un'estesa neoformazione evidenziata dall'indagine ecografica, confermata poi dal risultato della TAC all'addome. L'attrice assume che il sanitario aveva omesso di approfondire l'indagine diagnostica mediante l'esecuzione di esame bioptico estemporaneo: l'organo asportato, al successivo esame istologico, era risultato affetto da una patologia infettiva (pielonefrite xantogranulomatosa con ampia area emorragica). Parte attrice sottolinea che, se tale indagine fosse stata compiuta, sarebbe stato possibile effettuare una nefrectomia soltanto parziale, in luogo della asportazione totale dell'organo. Il Tribunale rigetta la domanda; la Corte d'appello, invece, la accoglie. La questione
La questione che la Suprema Corte si trova a dover risolvere attiene all'individuazione del soggetto, tanto nell'ambito del rapporto paziente-struttura, quanto nell'ambito del rapporto paziente-medico, su cui grava l'incertezza sull'incidenza causale dell'omessa diagnosi rispetto all'evento lesivo (nel caso di specie, l'asportazione totale del rene). Le soluzioni giuridiche
La Corte di Appello, nel riformare la sentenza di primo grado, ha osservato che la difficoltà di pervenire, comunque, ad una diagnosi differenziale non valeva ad escludere l'astratta idoneità dell'indagine non effettuata ad individuare la corretta patologia e, quindi, ad impedire l'erronea asportazione totale del rene. La Suprema Corte, ritenendo corretta la decisione della Corte territoriale, ha, anzitutto, evidenziato che, in caso di mancata attuazione della condotta "dovuta" (come nel caso di specie, in cui l'esame bioptico estemporaneo è prescritto dal protocollo operatorio chirurgico), la sussistenza della relazione eziologica non può che essere ipoteticamente dedotta alla stregua di un criterio di prevedibilità oggettiva (desumibile da regole statistiche o leggi scientifiche), verificando se il comportamento omesso poteva o meno ritenersi idoneo -in quanto causalmente efficiente- ad impedire l'evento dannoso, con la conseguenza che deve escludersi dalla serie causale l'omissione di quella condotta che non sarebbe riuscita in alcun modo ad evitare l'evento (cfr. Cass. civ., Sez. Un, 11 gennaio 2008 n. 576; Cass. civ., sez. III, 8 luglio 2010 n. 16123). Nella fattispecie, l'efficienza causale della condotta omissiva era predicabile in base all'astratta idoneità (fondata sulle migliori acquisizioni scientifiche allo stato disponibili che reputano necessaria l'effettuazione dell'esame inserito nel protocollo) dell'esame bioptico estemporaneo a disvelare la corretta patologia e, quindi, ad indirizzare il medico verso la corretta scelta terapeutica (asportazione parziale del rene), evitandosi, così, la realizzazione dell'evento lesivo (asportazione totale del rene). Acclarata l'astratta idoneità dell'inadempimento a causare il danno, la Suprema Corte ha ricordato che grava sull'Azienda ospedaliera e sul sanitario - secondo gli ordinari criteri di riparto dell'onere probatorio in materia di inadempimento contrattuale (Cass. civ., Sez. Un., 30 ottobre 2001 n. 13533) - l'onere di fornire la prova contraria, dimostrando che l'esecuzione della biopsia avrebbe, con certezza, in ogni caso dato un risultato negativo per diagnosi di infezione ovvero un dato non oggettivamente interpretabile come di pielofrenite xantogranulomartosa. La sentenza in rassegna si pone in linea di continuità con la prevalente giurisprudenza della Suprema Corte, che, a partire dalle Sezioni Unite del 2008, pongono a carico dell'attore l'onere di allegare un "inadempimento qualificato" del convenuto (Cass. civ., sez. III, 30 settembre 2014 n. 20547; Cass. civ., sez. III, 12 dicembre 2013 n. 27855; Cass. civ., 26 febbraio 2013 n. 4792; contra, Cass. civ., sez. III, 20 ottobre 2015 n. 21177), ma non forniscono indicazioni utili su quale debba essere il grado di determinatezza e specificità di tale allegazione. Quest'ultimo aspetto è, però, di centrale importanza: l'onere di allegazione, infatti, assolve alla funzione di delimitare la domanda attorea, e, quindi, l'oggetto stesso del processo. Diverse le strade proposte dalla giurisprudenza per assolvere a tale onere: il nesso causale può essere allegato attraverso la descrizione di una condotta alternativa lecita che, se tenuta, avrebbe avuto apprezzabili possibilità (50% più 1) di scongiurare l'evento dannoso, o tramite la dimostrazione della compatibilità delle lesioni con la condotta attribuita ai sanitari, l'entità e la tipologia delle conseguenze prodotte dall'evento. Si considera, altresì, significativo il collegamento temporale tra evento dannoso e prestazione sanitaria, nonché il raffronto tra le condizioni di salute del paziente al suo ingresso in ospedale ed i pregiudizi lamentati successivamente. È pur vero, però, che tali indici implicano già un'attività di prova da parte dell'attore, con la conseguenza che la distinzione tra onere di allegazione e onere della prova tende di fatto ad attenuarsi. In effetti, anche dopo la sentenza delle Sezioni Unite, non sono mancate pronunce - sia di legittimità sia di merito - che si sono discostate dal decisum di Cass. civ., n. 577/2008 ed hanno attribuito al paziente l'onere di provare il nesso causale tra condotta ed evento dannoso. In questo senso significativa è la sentenza del 2010 (Cass. civ., n. 2847/2010) che, seppur in un ambito peculiare come quello in materia di consenso informato, ha attribuito al paziente l'onere di provare il nesso causale tra omessa informazione e non esecuzione dell'intervento chirurgico. In realtà, la soluzione delle Sezioni Unite è in controtendenza rispetto al panorama europeo, in cui, salvi casi particolari, la giurisprudenza ritiene che il paziente sia tenuto alla dimostrazione e non solo all'allegazione del nesso di causalità. Peraltro l'orientamento difforme al decisum delle Sezioni Unite del 2008 trova ulteriori conferme nella giurisprudenza relativa ad altri ambiti della responsabilità professionale - come, per esempio, quella dell'avvocato - dove viene attribuita al cliente l'onere di provare il nesso causale tra inadempimento e danno (App. Taranto, 7 febbraio 2014, in Sistema Leggi d'Italia; Trib. Cagliari 13 febbraio 2013, in Riv. giur. sarda, 2013, 3, 487; Trib. Saluzzo 12 agosto 2010; Cass. civ., 10 luglio 2006, n. 15633; Cass. civ., 23 marzo 2006, n. 6537, in Mass. Giur. it., 2006; Cass. civ., 18 luglio 2002, n. 10454). Osservazioni
Il tema del contenuto dell'allegazione attorea è, quindi, in divenire, specialmente all'indomani dell'entrata in vigore della legge Gelli-Bianco (l. 8 marzo 2017 n. 24), che prevede espressamente la responsabilità contrattuale (ex artt. 1218-1228 c.c.) delle strutture sanitarie (pubbliche o private), anche per le prestazioni rese dai professionisti sanitari di cui le strutture si avvalgono per adempiere le proprie obbligazioni, compresi i professionisti scelti dai pazienti, quelli che operano all'interno delle strutture come liberi professionisti o in regime di convenzione con il S.S.N. (art. 7, commi 1 e 2). Inoltre, viene affermato – in modo senz'altro più chiaro rispetto alla legge Balduzzi (l. n. 189/2012) - che, al di fuori dei casi in cui hanno agito in esecuzione di una obbligazione contrattuale assunta direttamente con il paziente, i professionisti operanti all'interno delle strutture sanitarie pubbliche o private e quelli che svolgono la loro attività in regime di convenzione con il S.S.N. rispondono del loro operato ai sensi dell'art. 2043 c.c. (art. 7, comma 3, primo periodo). Ne deriva che, quantomeno con riferimento al rapporto tra il paziente ed il medico ospedaliero, graverà indubbiamente sul primo, alla luce della nuova normativa, l'onere di provare il nesso causale tra la condotta ed il danno e non sarà più sufficiente l'allegazione dell'inadempimento qualificato (sull'onere della prova del nesso di causa, gravante sulla struttura sanitaria e sull'esercente la professione sanitaria anche dopo la legge Gelli-Bianco, v. SPERA D., Responsabilità sanitaria contrattuale ed extracontrattuale nella Legge Gelli-Bianco: da premesse fallaci a soluzioni inappaganti, in Ridare.it). |