Economia digitale e cost sharing agreements

18 Dicembre 2017

Spesso società facenti parte di un medesimo Gruppo regolano la suddivisione delle spese per mezzo di scritture private, in base alle quali, una delle società del Gruppo, o la stessa capogruppo, si impegna ad eseguire nei confronti delle altre una serie di servizi.
Massima

Spesso società facenti parte di un medesimo Gruppo regolano la suddivisione delle spese per mezzo di scritture private, in base alle quali, una delle società del Gruppo, o la stessa capogruppo, si impegna ad eseguire nei confronti delle altre una serie di servizi. Nel caso in cui l'Amministrazione Finanziaria chieda conto dei criteri e delle modalità di suddivisione di tali spese, il contribuente oggetto di controllo dovrà produrre la relativa documentazione giustificativa, pena la indeducibilità del costo. Ferma restando la necessaria presenza dei requisiti generali di inerenza, competenza, certezza, i costi per i servizi infragruppo debbono comunque essere suddivisi fra le varie consociate in relazione specifica ai benefici che ciascuna di esse può ottenere ed effettivamente ottiene dalla loro utilizzazione.

Il caso

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25566 del 27 ottobre 2017, è intervenuta su un complesso contenzioso in materia di cost sharing agreements.

Nel caso di specie una multinazionale del web era stata oggetto di una verifica relativa a più anni di imposta, a seguito della quale l'Agenzia delle Entrate aveva disconosciuto la deduzione di costi per servizi resi dalla casa madre alla controllata italiana per la gestione e implementazione del portale relativo alla telefonia mobile; costi sostenuti a livello centrale, ma poi ripartiti tra le varie società del gruppo con un "mark up" del 7% sulla base di un "cost sharing agreement", cioè un accordo di ripartizione dei costi tra la casa madre e varie società figlie, tra cui anche quella italiana.

L'Amministrazione finanziaria riteneva infatti che il riaddebito dei costi fosse avvenuto in maniera automatica, senza riferimento alla proporzione col beneficio ricevuto dalla controllata italiana.

Dopo un tentativo di adesione fallito, la società ricorreva alla CTP di Milano, deducendo, tra le altre, la errata interpretazione dell'art 109 TUIR, in tema di inerenza.

Deduceva, in particolare, la società che i costi erano stati regolarmente fatturati e registrati ed erano conformi ai criteri di allocazione secondo il citato "cost sharing agreement". La CTP di Milano accoglieva il ricorso per violazione dell'art 12, comma 5, Legge n. 212/2000, per il mancato rispetto del termine di trenta giorni di permanenza dei verificatori nei locali dell'impresa.

Su appello dell'Ufficio, la CTR Lombardia riformava invece la sentenza di primo grado, sia in relazione alla violazione dell'art. 12, comma 5, non ravvisando alcun motivo di nullità, che nel merito, e confermava pertanto l'accertamento.

La questione

La società ricorreva infine in Cassazione, deducendo, tra le altre, la contraddittorietà dell'avviso di accertamento, perché lo stesso richiamava sia l'art. 109 e sia l'art. 110 del TUIR, per cui non si comprendeva se il problema fosse l'inerenza o il valore dei costi.

La società sosteneva quindi che la motivazione dell'avviso conteneva argomentazioni plurime tra loro alternative, deducendo anche la errata citazione delle norme, atteso che la previsione attinente il c.d. transfer price era l'art. 110, comma 7, laddove la contestazione della non inerenza e quella della determinazione del valore di costi inerenti erano comunque due concetti inconciliabili tra loro, che non potevano quindi essere posti a fondamento dello stesso avviso.

Il ricorso, secondo i giudici di legittimità, era infondato.

Rileva la Suprema Corte che la società deduceva in particolare che la CTR aveva errato per aver posto in correlazione costi e ricavi, mentre il concetto di inerenza doveva a suo avviso intendersi quale correlazione tra costi ed attività di impresa, anche solo potenzialmente idonea a produrre utili.

Nella specie, peraltro, sottolineava ancora la società ricorrente, sussisteva comunque anche la diretta correlazione, perché i servizi in questione servivano a permettere il funzionamento del portale della società, sul quale la stessa ospitava la pubblicità, che era una delle sue principali fonti di ricavo.

Tali censure, tuttavia, come detto, secondo la Corte, erano infondate.

Nella sostanza, i costi in questione attenevano alla manutenzione del portale internet in Italia, attraverso il quale la società ricorrente proponeva i propri prodotti (dalla messaggeria della telefonia mobile, alle notizie) offerti gratuitamente.

I ricavi della società non derivavano, peraltro, dalla vendita di tali servizi, quanto piuttosto dall'ospitare pubblicità sul portale stesso, il che permetteva l'offerta gratuita dei servizi stessi.

I costi attinenti alla manutenzione del portale, sostenuti dalla casa madre e ripartiti tra le società "figlie" in base ad una percentuale predeterminata, seppure variabile, espressa come percentuale del fatturato totale, quindi, secondo la ricorrente, erano inerenti alla propria attività, proprio perché, grazie al funzionamento del portale, la stessa poteva ospitare la pubblicità, dalla quale otteneva i ricavi.

Sostenendo la propria quota di spesa ripartita in base al "cost sharing agreement", in altre parole, la società italiana contribuiva ai costi che permettevano il mantenimento del bene (il portale) dal quale ritraeva i propri ricavi.

L'Agenzia, però, sottolinea la Corte, non contestava tale meccanismo di ripartizione dei costi, ma contestava unicamente il fatto che lo stesso, prevedendo una percentuale predeterminata ed essendo un accordo interno al gruppo, intervenendo tra la società capogruppo estera e varie società "figlie" in vari Paesi d'Europa, non permetteva di verificare con evidenza, in termini quantitativi concreti, il rapporto tra i costi imputati ed il beneficio della controllata italiana; elemento fondamentale per la valutazione sull'inerenza dei costi.

Non era pertanto in contestazione il fatto che i costi fossero stati sostenuti, ma piuttosto come la società potesse affermare che la misura di quei costi, nella sua interezza, era funzionale al perseguimento dell'utile.

Il tutto, come detto, considerando che non si era in presenza di un accordo tra società tra loro indipendenti, ma tra società madre estera e figlie, dove, in sostanza, l'allocazione dei costi finiva (rectius: rischiava di finire) per determinare uno spostamento di ricchezza imponibile all'interno dello stesso gruppo e, in ultima analisi, da uno Stato ad un altro.

Le soluzioni giuridiche

Evidenzia ancora la Suprema Corte che l'art. 109, comma 5, TUIR, vigente all'epoca, nell'affermare che le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi, fissava, indubitabilmente, un rapporto tra le componenti reddituali, positive e negative, cui la norma si riferiva.

E anche se la Corte condivideva l'orientamento, già espresso in precedenza in altre sentenze, secondo cui il concetto di inerenza non richiede una correlazione diretta tra il costo ed uno specifico ricavo, potendosi riconoscere tale nozione in una relazione tra il costo e, in termini più generali, l'attività dell'impresa, anche solo potenzialmente produttrice di ricavi o proventi imponibili (cfr sez. trib., n. 10062/2000, sez. trib., n. 1465 del 2009, sez. trib., n. 4041/2015 e sez. VI, n. 21743/2015), tuttavia, per definire meglio il concetto e contenerlo entro confini di ragionevolezza e proporzionalità, in particolare allorché ci si riferisca a rapporti infragruppo, lo stesso non può essere disgiunto da quello di coerenza ed utilità economica dei costi (cfr sez. trib., n. 21184/2014, sez. trib., n. 27043/2014, sez. trib., n. 10270/2017, sez. VI n. 9036/2013).

Proprio in tema di spese derivanti da "cost sharing agreements", la stessa Corte ha del resto avuto occasione di affermare che, ai fini della deducibilità, non è sufficiente allegare il "cost sharing agreement", né che la spesa sia stata contabilizzata, ma il contribuente deve provare coerenza e utilità economica del costo (cfr. sez. trib., n. 9466/2017; si veda anche sez. trib. n. 9560/2016 e sez. VI n. 11094/2017).

Il che è solo apparentemente in contraddizione con altra giurisprudenza, in cui la Corte ha riconosciuto la deducibilità dei costi sulla base di un accordo di ripartizione (sez. V, n. 6939/2008), perché, proprio leggendo attentamente tali pronunce, emerge che, nel caso specifico, le spese erano state oggetto, anche per quanto atteneva alla congruità, di una analisi accurata da parte di una società di revisione e di valutazioni del capo settore (responsabile del relativo centro di costo), che aveva certificato la corretta percentuale del lavoro svolto da ciascun settore in favore delle controllate.

E del resto, aggiunge ancora la Corte, in caso di servizi tra società infragruppo, il problema della congruità della spesa non è solo messo in luce dall'Agenzia delle Entrate (Circolare 32/1980), ma anche dalle linee guida OCSE sui servizi infragruppo, dalle quali si evince che una delle problematiche principali delle operazioni infragruppo è proprio quella della determinazione dei valori, e quindi dei costi, dei servizi, con l'affermazione del principio per cui il pagamento per i servizi deve essere quello che sarebbe stato effettuato tra imprese indipendenti.

Lo spirito di questo tipo di accordi dovrebbe quindi sempre consistere nel portare l'ammontare dei costi ad una proporzione con l'aspettativa di utili, anche in nome della salvaguardia del principio della libera concorrenza.

Il valore del servizio cui il costo si riferisce, quindi, è un elemento che deve essere preso in considerazione per valutare se la misura della spesa è proporzionata all'utilità, anche non diretta, dell'impresa.

Il che non significa trasformare l'ipotetica antieconomicità dell'attività di impresa, come conseguenza di costi sproporzionati, nel presupposto di una norma impositiva, non potendo però neppure sostenersi che, in particolare nei rapporti infragruppo, il concetto di congruità del costo sia del tutto estraneo all'analisi sulla sua deducibilità, laddove la non congruità e l'antieconomicità di un costo, può essere senz'altro una spia della non inerenza dello stesso.

Argomento ancor più evidente allorché ci si muova nell'ambito di rapporti infragruppo, dove la stessa legge si preoccupa di fornire dei parametri, nell'art. 110 comma 7 TUIR, che non possono essere ignorati come riferimento nella valutazione sul trattamento fiscale di una spesa, quando la rettifica in base al valore indicato nella norma porterebbe ad un aumento del reddito della società tassata in Italia.

Infine era infondata anche l'ulteriore censura, secondo la quale la motivazione della CTR era carente laddove aveva affermato che la ripartizione dei costi era avvenuta "in maniera automatica e forfettaria", laddove invece, secondo la ricorrente, questa era avvenuta secondo un preciso criterio, stabilito antecedentemente nel cost sharing agreement.

Secondo questo accordo, infatti, il costo per la società non era fisso ed immodificabile ogni anno, ma variava in una percentuale tra il 7,50 e il 4,70% del costo sostenuto dalla casa madre per il settore Mobile.

E questo criterio di ripartizione dei costi era stato del resto ritenuto corretto anche dall'Amministrazione nella Risoluzione n. 9/2555 del 31 gennaio 1981 e dalla Cassazione, con la sentenza, sez. trib., n. 6939/2008.

Rileva però la Suprema Corte che la CTR aveva pienamente preso in considerazione il contenuto dell'accordo di ripartizione dei costi, mettendo in luce come lo stesso si basasse proprio su un sistema di suddivisione dei costi stabilito antecedentemente – come riconosciuto anche dalla società – anzichè in base alla situazione concreta di corrispondenza quantitativa con l'effettiva utilità ritratta dal servizio ottenuto.

Osservazioni

Spesso società facenti parte di un medesimo Gruppo regolano la suddivisione delle spese per mezzo di scritture private, in base alle quali una delle società del Gruppo (o la stessa capogruppo, come anche nel caso di specie) si impegna ad eseguire nei confronti delle altre una serie di servizi.

Nel caso in cui però l'Amministrazione Finanziaria chieda conto dei criteri e delle modalità di suddivisione di tali spese, il contribuente oggetto di controllo dovrà produrre la relativa documentazione giustificativa, pena l'indeducibilità del costo per difetto della documentazione che ne provi la certezza ed effettività.

I costi in questione afferiscono dunque ai cosiddetti "costi di regia" per attività effettuate dalla capogruppo a livello centrale.

Il gruppo ripartisce in questi casi proporzionalmente i costi di regia, che comprendono però, di fatto, oltre al corrispettivo per gli specific servizi resi ad ogni singola società del Gruppo, anche una partecipazione pro quota ai costi sostenuti dalla controllante per svolgere l'attività di regia del Gruppo stesso, in considerazione del beneficio (anche solo indiretto) che dai costi sostenuti dalla capogruppo le società controllate traggono.

In tema di accertamento delle imposte sui redditi, l'onere della prova dei presupposti di costi ed oneri deducibili concorrenti alla determinazione del reddito d'impresa, ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi, incombe però sul contribuente, il quale, nel caso in cui l'Amministrazione Finanziaria ne contesti la congruità, è tenuto a dimostrare anche la coerenza economica dei costi sostenuti nell'attività d'impresa.

E infatti anche la C.M. n. 32/9/2267 del 22 settembre 1980, richiamata anche nella sentenza in commento, subordina la deducibilità dei costi derivanti da accordi contrattuali sui servizi prestati dalla controllante all'effettività e all'inerenza della spesa all'attività d'impresa esercitata dalla controllata ed al reale vantaggio che deriva a quest'ultima, non ritenendosi sufficiente l'esibizione del contratto riguardante le prestazioni di servizi fornite dalla controllante alle controllate e la fatturazione dei corrispettivi, ma richiedendosi la specifica allegazione di quegli elementi necessari per determinare l'utilità effettiva o potenziale conseguita dalla consociata che riceve il servizio.

Ferma restando, quindi, la necessaria presenza dei requisiti generali di inerenza, competenza, certezza ed oggettiva determinabilità, i costi per i servizi infragruppo debbono essere suddivisi fra le varie società in relazione (specifica) ai benefici che ciascuna di esse può ottenere (ed effettivamente ottiene) dalla loro utilizzazione, individuando (quanto meno) i seguenti fattori, rilevanti anche ai fini della congruità dei corrispettivi:

a) inclusione o meno del corrispettivo del servizio nel prezzo dei beni ceduti;

b) effettiva utilizzazione del servizio;

c) effettiva incidenza del servizio sulla riduzione dei costi;

d) rapporto tra l'utile di esercizio, la riduzione dei costi (in relazione alla prestazione resa) e il corrispettivo pagato;

e) vantaggi conseguiti in relazione alla prestazione del servizio.

In conclusione i riscontri finalizzati alla verifica della regolarità fiscale della determinazione del costo ed alla sussistenza dei requisiti di deducibiltà in casi come quello sopra indicato, passano necessariamente attraverso i seguenti passaggi:

  1. analisi della correttezza del criterio di determinazione del compenso-costo;
  2. analisi del vantaggio;
  3. verifica della congruità del prezzo (in termini anche di determinazione del valore normale ai fini del transfer pricing).

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