Nota di variazione IVA e procedura concorsuale: dalla Corte di Giustizia le istruzioni per l'uso
11 Gennaio 2018
Massima
In caso di mancato pagamento di una fattura emessa nei confronti di un imprenditore in seguito dichiarato fallito, lo Stato membro non può subordinare la riduzione della base imponibile dell'Imposta sul valore aggiunto alla prova dell'infruttuosità di una procedura concorsuale che possa avere una durata superiore a dieci anni. Il caso
Un soggetto passivo IVA italiano emetteva una fattura nei confronti di un cliente in seguito dichiarato fallito, sicché emetteva una nota di variazione in diminuzione dell'imponibile per il credito non riscosso. L'Agenzia delle Entrate contestava l'emissione della nota di variazione perché, per la prova del mancato pagamento, riteneva insufficiente la sola sentenza dichiarativa di fallimento, necessitando la prova della certezza dell'avvenuta insoddisfazione del credito, come affermato dalla consolidata giurisprudenza italiana. Il contribuente ricorreva alla Commissione tributaria provinciale di Siracusa, la quale manifestava dubbi sulla conformità alla Direttiva n. 2006/112/CE dell'art. 26, d.P.R. n. 633/1972, a causa della durata in Italia, mediamente di dieci anni, della procedura concorsuale.
La questione
Il Giudice adito investiva, pertanto, la Corte di Giustizia UE delle seguenti questioni pregiudiziali:
"1. Visti gli articoli 11, parte C, paragrafo 1, e 20, paragrafo 1, lettera b), secondo periodo, della [sesta direttiva], relativi alla variazione in diminuzione della base imponibile ed alla rettifica dell'IVA addebitata sulle operazioni imponibili in caso di mancato pagamento totale o parziale della controprestazione stabilita fra le parti, se sia conforme ai principi di proporzionalità e di effettività, garantiti dal TFUE, ed al principio di neutralità che regola l'applicazione dell'IVA, imporre limiti che rendano impossibile o eccessivamente oneroso – anche in termini di tempistica, legata alla imprevedibile durata di una procedura concorsuale – per il soggetto passivo il recupero dell'imposta relativa alla controprestazione non pagata in tutto o in parte.
2. In caso di risposta positiva alla prima questione, se sia compatibile con i principi sopra richiamati una norma – quale l'art. 26, 2 comma, del [d.P.R. n. 633/1972] – che subordini il diritto al recupero dell'imposta al soddisfacimento della prova del preventivo esperimento di procedure concorsuali infruttuose, e cioè, secondo la Giurisprudenza e la prassi dell'Autorità fiscale dello Stato membro dell'Unione, esclusivamente, a seguito dell'infruttuosa ripartizione finale dell'attivo o, in mancanza, della definitività del provvedimento di chiusura del fallimento, anche quando tali attività siano ragionevolmente anti-economiche in ragione dell'ammontare del credito vantato, delle prospettive del suo recupero e dei costi delle procedure concorsuali e considerato che, comunque, i citati presupposti possono intervenire a distanza di anni dalla data di apertura del fallimento”. Le soluzioni giuridiche
In ambito europeo, la disciplina dell'Imposta sul valore aggiunto prevede(va) all'art. 11, parte C, paragrafo 1, sesta Direttiva 77/388/CEE del 17 maggio 1977, che: "In caso di annullamento, recesso, risoluzione, non pagamento totale o parziale o di riduzione di prezzo dopo che l'operazione è stata effettuata, la base imponibile viene debitamente ridotta alle condizioni stabilite dagli Stati membri. Tuttavia, in caso di non pagamento totale o parziale, gli Stati membri possono derogare a questa norma".
Tale disposizione è identica al contenuto del vigente art. 90, commi 1 e 2, della Direttiva 2006/112/CE del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune dell'Imposta sul valore aggiunto.
In ambito nazionale, l'art. 26 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, "Istituzione e disciplina dell'imposta sul valore aggiunto" intitolato "Variazioni dell'imponibile o dell'imposta", al comma 2, recita: "Se un'operazione per la quale sia stata emessa fattura, successivamente alla registrazione di cui agli articoli 23 e 24, viene meno in tutto o in parte, o se ne riduce l'ammontare imponibile, in conseguenza di dichiarazione di nullità, annullamento, revoca, risoluzione, rescissione e simili o per mancato pagamento in tutto o in parte a causa di procedure concorsuali o di procedure esecutive rimaste infruttuose (…) il cedente del bene o prestatore del servizio ha diritto di portare in detrazione ai sensi dell'art. 19 l'imposta corrispondente alla variazione, registrandola a norma dell'art. 25…”.
Ponendo preliminarmente l'attenzione sulla norma eurounitaria, si rileva come essa disponga, in via generale, per la riduzione della base imponibile ogni qualvolta si verifichi il mancato pagamento, totale o parziale, del prezzo corrispettivo pattuito per l'operazione assoggettata ad imposta. Tale regola, tuttavia, per espressa previsione della norma stessa, può essere derogata dagli Stati membri. E questo è il caso della normativa dello Stato italiano, laddove all'art. 26 citato ha disciplinato la riduzione dell'imponibile in caso di procedure concorsuali. A tale riguardo, l'Amministrazione finanziaria e la giurisprudenza concordano nel subordinare il diritto del contribuente alla riduzione della base imponibile alla prova della effettiva infruttuosità della procedura concorsuale fallimentare o a seguito di un piano attestato ai sensi dell'art. 67, terzo comma, lett. d), o di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell'art. 182-bis del R.D. 16 marzo 1942, n. 267. Ciò in ragione di esigenze equitative volte a consentire al soggetto passivo di recuperare, attraverso il meccanismo della variazione in diminuzione, l'imposta versata anticipatamente all'Erario quando l'infruttuosità della procedura risulta essere definitivamente accertata (Agenzia delle Entrate, Risoluzione 17 ottobre 2001, n. 161; Risoluzione 16 maggio 2008, n. 195/E, Risoluzione 5 maggio 2009, n. 120/E, cfr., altresì, Ministero delle finanze, circ. 17 aprile 2000, n. 77/E).
Sul piano concreto, consegue che per il soggetto passivo di imposta la prova possa formarsi non alla data della sentenza dichiarativa del fallimento del debitore, ma alla scadenza del termine previsto per le osservazioni sull'eventuale piano di riparto oppure, in mancanza di quest'ultimo, quando risulti scaduto il termine per proporre reclamo avverso il decreto di chiusura del fallimento. Seppure in astratto non possa dubitarsi della conformità alla norma primaria della disciplina di legge italiana, considerato il potere concesso allo Stato di derogare al criterio generale, il comma 2 dell'art. 26, d.P.R. n. 633/1972, suscita perplessità a causa della durata media delle procedure concorsuali, pari a circa dieci anni.
A tale proposito, nella sentenza, in premessa, la Corte di Giustizia ha precisato che lo scopo della deroga al diritto di riduzione della base imponibile è quello di tenere conto dell'incertezza che potrebbe accompagnarsi al pagamento di una fattura e di lasciare agli Stati membri la scelta di prevedere casi di deroga alla rettifica immediata della base imponibile.
Ed ancora, poiché nelle proprie difese il Governo italiano aveva affermato che la deroga disposta dalla Direttiva IVA comprendeva la facoltà per lo Stato membro di escludere del tutto il diritto di rettifica, e non solo quella di derogare all'immediatezza, la Corte ha precisato che la deroga in questione costituisce una norma di carattere eccezionale, sicché deve essere interpretata in senso restrittivo. Ciò premesso, sempre per la Corte, dal testo della disposizione normativa si evince che nessuna facoltà di deroga è prevista circa una possibile esclusione in toto del diritto di rettifica (punto n. 21), limitandosi il potere conferito alla regolazione dell'incertezza che si accompagna al pagamento di una fattura (punto n. 22), tenuto conto della situazione giuridica e delle circostanze esistenti in ciascuno dei diversi Stati membri. Sul piano concreto, nei confronti di questi ultimi da tale decisione consegue che essi possono derogare alla regola della rettifica immediata della base imponibile, ma non escluderla del tutto. In tale ultimo caso, peraltro, la Corte annota che il diniego assoluto al diritto alla riduzione dell'imponibile comporterebbe un danno per il soggetto passivo a causa di una evidente violazione del principio di neutralità dell'imposta (punto n. 28). Tali essendo la ratio e la natura della norma derogatoria, la Corte ha quindi risolto la questione della determinazione della misura in cui la deroga deve correttamente operare.
Sotto tale profilo, rileva il principio di proporzionalità, quale principio generale del diritto dell'Unione, secondo cui i mezzi impiegati per l'attuazione della sesta direttiva devono essere idonei a realizzare gli obiettivi perseguiti da tale testo, qui in rilievo con riferimento alla corretta riscossione dell'imposta, e non devono eccedere quanto è necessario per conseguirli (punto n. 25).
Per la Corte, quindi, la normativa italiana che, per un periodo medio di dieci anni, privi il soggetto passivo del diritto alla riduzione della base imponibile finché non si abbia la certezza dell'irrecuperabilità del credito deve ritenersi violatoria del principio di proporzionalità perché eccede quanto necessario alla regolazione dell'incertezza che accompagna il possibile mancato pagamento di una fattura. Inoltre, la normativa italiana determinerebbe uno svantaggio in termini di liquidità per il soggetto passivo rispetto ai concorrenti di altri Stati membri, compromettendo l'obiettivo di armonizzazione fiscale perseguito dalla sesta direttiva (punto n. 28).
A tale riguardo, sempre per la Corte, potrebbe ritenersi proporzionata al realizzo dell'obiettivo perseguito dalla Direttiva IVA una disposizione di legge che preveda il diritto alla riduzione dell'imponibile, quando il rischio di un mancato pagamento della fattura si manifesti non con assoluta certezza, ma in termini di semplice probabilità. Fermo restando, ovviamente, a tutela della sopravvenuta ragione erariale alla riscossione della maggiore imposta, l'obbligo in capo al soggetto passivo di emettere una nota di variazione in aumento dell'imponibile laddove, in seguito, contrariamente a quanto presunto, vi sia un effettivo pagamento.
Tale soluzione appare ancora più ragionevole con riferimento alla legislazione italiana, laddove, come già precisato, si esige che il diritto alla riduzione dell'imponibile sia subordinato alla prova della certezza della definitiva irrecuperabilità del credito che potrebbe acquisirsi, in pratica, solo dopo una decina di anni. Non a caso, per contro, la dottrina suggerisce che la nota di variazione potrebbe essere emessa già dalla data della sentenza dichiarativa di fallimento (AIDC, Norma di comportamento n. 192/2015). La Corte europea, infine, osserva che l'applicazione della normativa italiana così formulata, per gli imprenditori nazionali comporterebbe uno svantaggio in termini di liquidità rispetto ai loro concorrenti di altri Stati membri, in danno all'obiettivo di armonizzazione fiscale perseguito dalla sesta direttiva. Osservazioni
Sul piano concreto, ci si chiede quali possano essere gli effetti della sentenza in esame.
A tale proposito, come noto, l'art. 267 del TFUE attribuisce in via esclusiva alla Corte di Giustizia il potere di interpretare in via pregiudiziale le norme eurounitarie, ma non anche quello di pronunziarsi direttamente sulla compatibilità delle norme interne con le norme di diritto europeo, in quanto compete poi al giudice nazionale accertare il fatto ed applicare le norme al caso concreto (cfr., tra le tante, CGUE, sent. 27 marzo 1963, C-28, 29 e 30/62, Da Costa en Schaake). L'attribuzione esclusiva alla Corte di Giustizia nasce, da un lato, dalla necessità di ottenere una interpretazione uniforme della norma comunitaria, per evitare divergenze nell'interpretazione del diritto comunitario che i tribunali nazionali devono applicare e per soddisfare l'esigenza di configurare un sistema decentralizzato di applicazione del diritto comunitario decentralizzato.
Da tali assunti discende che nei confronti del giudice che ha sollevato la questione pregiudiziale europea, la pronuncia della Corte di Giustizia ha efficacia erga omnes (cfr., Corte Giust. UE, 3 febbraio 1977, C-52/76, Benedetti c. Munari F.lli sas; id. 5 marzo 1986, in causa 69/85, Wünsche Handelgesellschaft Gmbh & Co. c. Repubblica Federale della Germania) e retroattiva perché chiarisce il significato e la portata della norma (eventuali eccezioni alla regola della retroattività, se ritenute necessarie, sono di volta in volta indicate dalla Corte stessa).
Sempre riguardo all'efficacia della sentenza in esame, appare utile segnalare che “... secondo una giurisprudenza costante, il giudice nazionale incaricato di applicare, nell'ambito della propria competenza, le norme del diritto dell'Unione ha l'obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all'occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione nazionale contrastante (...) senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale (...) il diritto dell'Unione osta a che un giudice nazionale sia vincolato da una norma di procedura nazionale ai sensi della quale egli debba attenersi alle valutazioni svolte da un giudice nazionale di grado superiore, qualora risulti che le valutazioni svolte dal giudice di grado superiore non sono conformi al diritto dell'Unione, come interpretato dalla Corte...” (Corte Giust. UE, 3 febbraio 1977, C-52/76, e 5 marzo 1986, in causa 69/85, citate).
Alla luce di tali premesse, deve potersi concludere che l'efficacia della sentenza in commento si estenda oltre che al giudizio pendente presso il giudice rimettente anche a tutti i giudizi che presentino il medesimo oggetto.
Ma v'è di più. In ambito tributario, un corollario di rilievo pratico riguardo all'applicazione della giurisprudenza della Corte Giust. UE, rinviene dal principio di cooperazione di cui all'art. 4, par. 3 del TFUE, il quale impone ad un organo amministrativo, e quindi anche all'Amministrazione finanziaria dello Stato membro, investito di una richiesta in tal senso, di riesaminare una decisione amministrativa per tener conto dell'interpretazione della disposizione pertinente nel frattempo accolta dalla Corte (Corte Giust. UE, sent. 13 gennaio 2004, C-453/00, Kuhne & Heitz). In tal senso, potrebbe avanzarsi all'Amministrazione finanziaria un intervento in autotutela per la rinuncia al ricorso pendente. Infine, ma non per importanza, deve osservarsi che nella sentenza in esame la Corte di Giustizia UE ha esaminato un caso risalente all'anno 2004, in cui trovava applicazione la previgente disciplina della Legge fallimentare, la cui durata, nella prassi, come visto, era di circa dieci anni, ed è proprio con esplicito riferimento a tale durata che la Corte di Giustizia europea si è espressa negativamente sulla disciplina di legge italiana.
A tale proposito, si evidenzia che la Legge di Stabilità 2016, ai commi 126 e 127 aveva modificato, con efficacia dal 1' gennaio 2017, il testo dell'art. 26 del d.P.R. n. 633/1972, prevedendo che la procedura di variazione dell'imponibile in caso di mancato pagamento da parte del soggetto passivo assoggettato ad una procedura concorsuale potesse avvenire dalla data di assoggettamento alla procedura concorsuale, quindi, senza attendere l'eventuale l'accertamento della infruttuosità della procedura. Tale modifica normativa, tuttavia, non è mai entrata in vigore a causa della sua abrogazione ad opera dell'art. 1, comma 567, lett.d), della Legge n. 232/2016.
Per contro, proseguendo nell'analisi, rilevano le modifiche apportate al Regio Decreto n. 267/42, segnatamente dall'art. 6, D.L. 27 giugno 2015, n. 83, applicabile ai fallimenti dichiarati successivamente a tale data, prevedono tempi ridotti per la conclusione della procedura, tant'è che nel programma di liquidazione il curatore deve indicare il termine entro il quale dovrà realizzare l'attivo fallimentare che, comunque, non potrà eccedere la durata di due anni dal deposito della sentenza di fallimento. Del pari, in termini di accelerazione della procedura fallimentare l'art. 118, comma 2, prevede che il curatore possa chiedere la cancellazione della società a seguito della liquidazione dell'attivo, anche nel caso di pendenza di giudizi.
Ciò nonostante, la sentenza in commento non pare perdere di rilievo anche con riferimento alla vigente normativa in materia di procedure concorsuali. Al di là della durata media di ciascuna procedura, essa ribadisce alcuni fondamentali principi regolatori della disciplina dell'Imposta sul valore aggiunto cui necessariamente gli Stati membri devono adeguarsi.
Mette quindi conto rilevare che per i Giudici europei: “(13) …la base imponibile è costituita dal corrispettivo realmente ricevuto e dal quale risulta come corollario che l'amministrazione finanziaria non può riscuotere a titolo dell'IVA un importo superiore a quello percepito dallo stesso soggetto passivo al medesimo titolo …”, (18) Ne consegue che l'esercizio di una tale facoltà di deroga (al diritto del soggetto passivo alla immediata rettifica dell'imponibile in caso di mancato pagamento del debitore – n.d.r.) dev'essere giustificato, affinché i provvedimenti adottati dagli Stati membri ai fini della sua attuazione non compromettano l'obiettivo dell'armonizzazione fiscale perseguito dalla sesta direttiva …”, (25) A tale riguardo, in base al principio di proporzionalità, (…), i mezzi impiegati per l'attuazione della sesta direttiva devono essere idonei a realizzare gli obiettivi perseguiti da tale testo e non devono eccedere quanto è necessario per conseguirli …”, (26) …, lo scopo della deroga al diritto di riduzione della base imponibile prevista all'articolo 11, parte C, paragrafo 1, secondo comma, della sesta direttiva è quello di tenere conto dell'incertezza intrinseca al carattere definitivo del non pagamento di una fattura…”, (27) Di tale incertezza, a quanto risulta, si tiene conto privando il soggetto passivo del suo diritto alla riduzione della base imponibile finché il credito non presenti un carattere definitivamente irrecuperabile, come prevede, in sostanza, la legislazione nazionale controversa nel procedimento principale. Si deve nondimeno constatare che lo stesso fine potrebbe essere perseguito accordando parimenti la riduzione allorché il soggetto passivo segnala l'esistenza di una probabilità ragionevole che il debito non sia saldato, anche a rischio che la base imponibile sia rivalutata al rialzo nell'ipotesi in cui il pagamento avvenga comunque”.
Ciò premesso, riguardo alla pronuncia pregiudiziale posta dalla CTP di Siracusa è utile evidenziare le “Conclusioni” dell'Avvocato generale J. Kokott, presentate alla Corte di Giustizia l'8 giugno 2017. Muovendo dal principio di proporzionalità, l'autorevole parere ritiene utili elementi di prova di una ragionevole, probabile lunga durata di mancato pagamento legittimanti l'immediata riduzione dell'imponibile (cfr. punti n. 72 e 73): a) l'inutile decorso del termine di sei mesi a partire dalla data di presentazione della fattura; b) l'apertura di una procedura concorsuale; c) la contestazione del credito in seno ad un procedimento esecutivo; d) la presenza di costi elevati per l'avvio di un procedimento esecutivo.
Infine, l'Avvocato generale tanto precisa al punto 74: “… L'onere della conclusione di una procedura concorsuale è invece sempre sproporzionato, a causa della durata di quest'ultima (sia essa di due o dieci anni – n.d.r.) e del fatto che il soggetto passivo può influirvi poco o niente”.
Con riferimento anche alla vigente normativa nazionale, tali precisazioni tornerebbero utili ai contribuenti e ai loro difensori perché, al di là del caso specifico risolto dalla Corte di Giustizia, nella sentenza in esame, i Giudici europei affermano che: “Spetterebbe quindi alle autorità nazionali stabilire, nel rispetto del principio di proporzionalità e sotto il controllo del giudice, quali siano le prove di una probabile durata prolungata del non pagamento che il soggetto passivo deve fornire in funzione delle specificità del diritto nazionale applicabile …” (cfr. sentenza, punto 27).
In conclusione, alla luce di quanto sin qui esposto può ritenersi non solo che i dubbi di conformità dell'art. 26 del d.P.R. n. 633/1972 alla disciplina europea dell'IVA sollevati dalla CTP di Siracusa fossero fondati, ma che gli stessi dubbi permangano anche con riferimento alla vigente disposizione di legge che prevede una durata di due anni. |