Esterovestizione e libertà di stabilimento: recente interpretazione di Cadbury Schweppes
24 Gennaio 2018
Massima
Solamente nel caso di società "controllate" il criterio per ricondurre a tassazione i redditi prodotti all'estero è dato dal non effettivo esercizio dell'attività oppure dalla artificiosa costruzione all'estero. Invece, nel caso in cui non si versa in ipotesi di società controllate, si darà corso, ai fini della verifica della sede amministrativa, al criterio univocamente indicato dalla giurisprudenza della "direzione effettiva": del luogo, cioè, dove vengono assunte le decisioni chiave di natura gestionale e commerciale necessarie per la conduzione dell'impresa; nel luogo dove la persona o il gruppo di persone che esercitano le funzioni di maggior rilievo assumono le loro decisioni; nel luogo di determinazione delle strategie imprenditoriali. Il caso
Il caso oggetto del presente commento riguarda una società costituita in Ungheria nel 2009 la cui compagine sociale risulta formata per il 95% da soci residenti in Italia (amministratori della stessa e soci di un'altra società residente in Italia, priva di legami partecipativi con la società ungherese) e per il 5% dal socio residente in Ungheria (direttore della società, autorizzato ad operare in nome e per conto della stessa). La società ungherese era oggetto di un avviso di accertamento da parte delle autorità italiane, all'esito del quale veniva accertata l'omessa dichiarazione dei redditi in Italia; ciò in quanto l'Amministrazione finanziaria italiana assumeva che la società ungherese avesse in Italia la sede effettiva dell'amministrazione e l'oggetto principale della sua attività.
A tale conclusione portavano – ad avviso dell'Erario – alcuni indizi, tra cui il fatto che
Secondo l'Amministrazione finanziaria questi erano indizi sufficienti per provare che la società ungherese avesse sede amministrativa in Italia, e quindi fosse soggetta ad imposizione nello Stato. La società ricorreva avverso l'avviso di accertamento (prima) e la sentenza di primo grado, favorevole all'Amministrazione (poi), affermando che l'accertamento violasse la libertà di stabilimento, riconosciuta e tutelata dalla normativa europea. La libertà di stabilimento implicava, infatti, la facoltà di creare e di conservare centri di attività economiche nel territorio della Comunità, il che avrebbe escluso (ad avviso del ricorrente, poi appellante) la possibilità di assoggettare a tassazione in Italia la società regolarmente costituita in Ungheria, paese in cui essa svolge la propria attività ed è soggetta ad imposizione. La questione
La questione giuridica affrontata nel caso di specie riguarda la disciplina sull'esterovestizione alla luce della normativa e giurisprudenza comunitaria sulla libertà di stabilimento. L'appellante cita, infatti, a fondamento del proprio appello la pronuncia Cadbury Schweppes della Corte di giustizia(C-196/04) per contestare che l'esterovestizione accertata dall'Amministrazione finanziaria italiana si tradurrebbe in un disconoscimento della residenza fiscale che il contribuente ha acquisito in un altro Stato UE (nel caso di specie, l'Ungheria) possibile solamente allorché sia dimostrato – parafrasando la giurisprudenza comunitaria e la stessa Cadbury Schweppes, par. 51 – che l'insediamento olandese sia una costruzione di puro artificio (“wholly artificial arrangement”). Ma tale conclusione viene giudicata errata dalla CTR Trento. Il richiamo a Cadbury Schweppes sarebbe inconferente, secondo i giudici di secondo grado, in quanto circoscritto alla situazione di società estere controllate da società italiane. Diversamente, la portata di tale sentenza – e le conclusioni in essa sdoganate, che però attengono al più ampio tema della libertà di stabilimento – non sarebbero applicabili all'ipotesi, come quella del caso di specie, in cui la società estera, della cui esterovestizione si dibatte, non sia controllata da società italiane.
Il ragionamento compiuto dalla CTR Trento sembrerebbe prestarsi ad alcune osservazioni, di seguito illustrate, dopo una breve illustrazione dei criteri che regolano la residenza delle società. Le soluzioni giuridiche
Residenza delle società Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell'amministrazione o l'oggetto principale nel territorio dello Stato (art. 73, co.3, d.P.R. n. 917/1986, di seguito “TUIR”). È dunque alla sede legale, amministrativa o l'oggetto sociale che occorre riferirsi per stabilire la residenza di una società in Italia.
Sede legale, sede amministrativa e oggetto sociale
La sede legale si identifica con la sede sociale indicata nell'atto costitutivo o nello statuto; essa viene, pertanto, individuata sulla base di un dato “formale”. Questo aspetto differenzia tale criterio di collegamento dagli altri (i.e., sede amministrativa e oggetto sociale), valutati sulla base di un elemento sostanziale, qual'è il radicamento della società con il territorio dello Stato.
La nozione di sede dell'amministrazione è stata intesa (G. Melis, Il trasferimento della residenza nell'imposizione sui redditi, 2008, Roma) come il luogo in cui viene effettivamente esercitata la gestione amministrativa, in cui si assumono le decisioni chiave e si determinano le strategie, prescindendo sia dalla formale attribuzione del potere di amministrare a determinati soggetti, sia dal luogo in cui si svolgono le riunioni del consiglio di amministrazione. Non necessariamente tale luogo coincide con quello di residenza degli amministratori della società.
La sede amministrativa è dunque la "sede effettiva", intesa come il luogo dove hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell'ente e si convocano le assemblee, cioè il luogo deputato o stabilmente utilizzato, per l'accertamento, nei rapporti interni e con i terzi, degli organi e degli uffici societari, in vista del compimento degli affari e dell'impulso dell'attività dell'ente (Cass. civ., sez. trib., 7 febbraio 2013, n. 2869; Cass. civ., sez. l, 20 marzo 2014, n. 6559).
La stessa Corte di Giustizia nel caso Planzer (C-73/06 del 28 giugno 2007) ha affermato che la sede dell'attività economica di una società è il luogo dove vengono adottate le decisioni essenziali concernenti la direzione generale di tale società e dove sono svolte le funzioni di amministrazione centrale di quest'ultima. A tal riguardo, possono essere presi in considerazione, anche altri elementi, quali il domicilio dei principali dirigenti, il luogo di riunione delle assemblee generali, di tenuta dei documenti amministrativi e contabili e di svolgimento della maggior parte delle attività finanziarie, in particolare bancarie.
L'oggetto esclusivo o principale dell'ente residente è determinato in base alla legge, all'atto costitutivo o allo statuto, se esistenti in forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata. Per oggetto principale si intende l'attività essenziale per realizzare direttamente gli scopi primari indicati dalla legge, dall'atto costitutivo o dallo statuto. In mancanza dell'atto costitutivo o dello statuto nelle predette forme, l'oggetto principale dell'ente residente è determinato in base all'attività effettivamente esercitata nel territorio dello Stato; tale disposizione si applica in ogni caso agli enti non residenti. L'esame dell'oggetto principale dell'attività deve essere svolto sulla base dell'attività effettivamente esercitata nel territorio dello Stato. Sulla base di quanto affermato anche qualora fosse possibile ritenere che la società ungherese fosse residente in Italia (in quanto sul territorio italiano aveva localizzato la propria sede amministrativa, desunta dagli indici sopra esposti) l'analisi non potrebbe fermarsi a tale constatazione; dovrebbe, al contrario, prendere atto che in tal caso si versa in una situazione di doppia residenza – italo-ungherese – da risolversi con i rimedi preposti dal diritto convenzionale e comunitario.
Dual residence e tie-breaker rules
Ammessa, dunque, la possibilità di radicare la residenza fiscale della società ungherese in Italia, i giudici della CTR Trento avrebbero dovuto ricorrere all'applicazione delle disposizioni previste dalla Convenzione italo-ungherese (art. 4, par. 3) contro le doppie imposizioni.
Il paragrafo 3 citato prescrive che “Quando […] una persona diversa da una persona fisica è considerata residente in entrambi gli Stati contraenti, si ritiene che essa è residente dello Stato […] in cui si trova la sede della sua direzione effettiva”. Secondo il Commentario OCSE al Modello di Convenzione contro le doppie imposizioni (2014) (“Commentario OCSE”) la sede di direzione effettiva (“its place of effective management”) è il luogo dove “sono adottate le decisioni chiave sul piano gestorio e commerciale necessarie per l'esercizio dell'attività dell'ente” (art. 4, par. 3 (24), del Commentario OCSE). La sede di direzione effettiva sarà ordinariamente il luogo in cui l'attività principale e sostanziale dell'ente viene esercitata. Qualora disponga di più sede di direzione, un ente può avere una sola sede di direzione effettiva per volta.
Procedere come nel caso di specie (i.e., applicando – de plano – la normativa interna, senza ricorrere alla normativa convenzionale) significherebbe, pertanto, negare il presupposto applicativo del paragrafo 3 sopra citato (i.e., la pluralità di residenze riconducibili al medesimo soggetto), disconoscendo, dunque, la residenza che il contribuente aveva conseguito in Ungheria, il che contrasterebbe sia con le disposizioni della Convenzione che con la libertà di stabilimento. È evidente che un meccanismo come quello delle tie-breaker rulespresupponga che ogni Stato contraente abbia il dovere di riconoscere la residenza così come attribuita dalle autorità dell'altro Stato contraente; diversamente non si creerebbe mai il presupposto per l'applicazione dell'art. 4 del modello OCSE 2014 (recentemente modificato nella versione del 2017) e la portata delle tie-breaker rules sarebbe vanificata, qualora le autorità di uno Stato potessero de plano disconoscere l'attribuzione della residenza effettuata dall'altro Stato.
Libertà di stabilimento vs controllo o assenza di controllo societario: questo è il problema? L'intento di realizzare un mercato unico europeo nel quale beni, servizi, capitali e persone possano liberamente circolare, ha indotto i redattori dei trattati europei alla elaborazione delle libertà comunitarie, tra cui si colloca la libertà di stabilimento. In tal modo viene riconosciuta la possibilità a qualsiasi esercente un'attività economica svolta in regime di non subordinazione, in modo continuativo e stabile, di trasferirsi in uno Stato membro diverso da quello di origine per accedere al mercato di quel paese. Destinatari degli artt. 49-55 del TFUE sono i lavoratori autonomi e gli imprenditori, in forma individuale e societaria.
L'attuazione di questa libertà impone allo Stato membro di stabilimento di astenersi dal perpetrare disparità di trattamento e a quello di origine di non ostacolarne, disincentivarne o impedire di conservarne lo stabilimento già acquisito in un altro Paese dell'UE.
(CGUE, C-81/87 del 27-9-1988, Daily Mail and General Trust, punto 16; 13 aprile 2000, causa C-251/98, Baars, punto 28; 11 marzo 2004, causa C-9/02 De Lasteyrie du Saillant, punto 42; 13 dicembre 2005, causa C-446/03, Marks & Spencer, punto 31; 12 settembre 2006, causa C-194/04, Cadbury Schweppes plc, punto 42).
La libertà di stabilimento infatti non si esaurisce nel diritto di stabilirsi una sola volta nell'ambito della Comunità, ma implica il diritto di creare, conservare più di un centro di attività nel territorio degli Stati membri (C-53/95 Inasti; C-143/87 Stanton; C-107/83 Klopp). In particolare, il trasferimento della sua sede, sociale o effettiva, in un altro Stato membro non determina la perdita della personalità giuridica di cui essa gode nell'ordinamento giuridico dello Stato membro di costituzione (causa C‑208/00, Überseering, punto 70). Misure nazionali restrittive (volte dunque ad es., a disconoscere lo stabilimento che una società abbia acquisito in uno Stato UE) sono ammesse solo se destinate a colpire costruzioni di puro artificio finalizzate ad eludere la normativa dello Stato membro interessato.
La necessità di coordinare l'esterovestizione con la libertà di stabilimento ha indotto la giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., 7 febbraio 2013, n. 2869) ad affermare che in ambito comunitario si possa parlare di esterovestizione solamente qualora di configuri un abuso del diritto di stabilimento, il che si verifica ogniqualvolta la forma giuridica di un'operazione non riproduca una corrispondente e genuina realtà economica, indice dell'artificiosità dell'operazione, la cui prova è a carico dell'Amministrazione finanziaria.
Questi principi sono esposti anche nella sentenza Cadbury Schweppes (cfr. ad es., par. 49, 51, 55), che affronta il rapporto tra la normativa inglese sulle CFC e la libertà di stabilimento; sebbene il caso analizzato tratti, dunque, una fattispecie concreta diversa da quella esaminata dalla CTR Trento, la pronuncia è incentrata sulla libertà di stabilimento e richiama i principi sopra esposti, come elaborati dalla giurisprudenza comunitaria. Ed in ogni caso, ciò non pare esimere il giudice dalla corretta applicazione ed interpretazione degli artt. artt. 49-55 del TFUE (appunto, sulla libertà di stabilimento) che rientrano nel più ampio potere/dovere giurisdizionale di cui è investito (il c.d. iura novit curia).
È per tale ragione, che non si coglie la ratio sottostante la scelta della CTR Trento di ritenere “inconferente” (e quindi disapplicare) la pronuncia “Cadbury Schweppes” rispetto al caso di specie: nella misura in cui la fattispecie ricada nelle guarentigie della libertà di stabilimento, gli artt. 49-55 del TFUE avrebbero dovuto trovare applicazione, a prescindere dalla riconducibilità o meno della fattispecie concreta al caso Cadbury Schweppes, citato dal ricorrente.
Osservazioni
Sulla base di quanto esposto sembra che l'iter logico-decisionale compiuto dalla CTR Trento avrebbe dovuto muovere dalla constatazione della duplice residenza – ungherese ed italiana – della società, in ossequio alle tie-breaker rules previste dalla convenzione italo-ungherese ed alla libertà di stabilimento europea. Da questo punto di partenza i giudici territoriali sarebbero poi, forse, potuti giungere alla medesima conclusione: la sede della direzione effettiva della società ungherese era comunque da individuarsi in Italia, e ciò sulla base degli indizi probatori resi disponibili dall'Amministrazione finanziaria e sopra elencati. Cionondimeno, a tale conclusione si è giunti, invece, seguendo un differente percorso logico-normativo, che sembra censurabile: tramite applicazione della sola normativa interna (l'art. 73 del TUIR), senza osservare le tie-breaker rule e la libertà di stabilimento. E ciò potrebbe essere oggetto di contestazione in sede di legittimità.
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