La valenza probatoria della cartella clinica

Cesare Taraschi
29 Gennaio 2018

Quale rilevanza probatoria hanno le annotazioni contenute nella cartella clinica in ordine alle attività espletate dal personale sanitario nel corso di una terapia o di un intervento?
Massima

Le attestazioni contenute in una cartella clinica, redatta da un'azienda ospedaliera pubblica, o da un ente convenzionato con il servizio sanitario pubblico, hanno natura di certificazione amministrativa, cui è applicabile lo speciale regime di cui agli artt. 2699 e ss. c.c., per quanto attiene alle sole trascrizioni delle attività espletate nel corso di una terapia o di un intervento, restando, invece, non coperte da fede privilegiata le valutazioni, le diagnosi o, comunque, le manifestazioni di scienza o di opinione in essa espresse.

Il caso

Tizio, assumendo di essere affetto da “epatopatia cronica HCV correlata”, contratta a seguito delle trasfusioni subite nel corso di un ricovero ospedaliero, proponeva, nei confronti del Ministero della Salute, domanda diretta ad ottenere l'indennizzo di cui alla l. n. 210/1992.

Il Tribunale rigettava la domanda. La Corte d'appello confermava la pronuncia di primo grado, osservando che l'epatopatia contratta da Tizio non poteva porsi in relazione causale con l'unica trasfusione di sangue annotata in cartella clinica, in quanto i donatori coinvolti, a seguito delle indagini biologiche eseguite sugli stessi, erano risultati negativi per HCV, anche a distanza di molto tempo dalle donazioni di sangue.

Tizio, pertanto, proponeva ricorso per cassazione, deducendo, con i primi due motivi, error in iudicando per violazione del diritto di difesa in relazione alla mancata ammissione della prova testimoniale, diretta a dimostrare, in contrasto con quanto annotato nella cartella clinica, l'esistenza di plurime trasfusioni, nonché l'assenza di altri fattori di rischio; con il terzo motivo censurava la sentenza impugnata per vizio di motivazione su fatti decisivi per il giudizio e per violazione di legge in tema di nesso di causalità.

La questione

Quale rilevanza probatoria hanno le annotazioni contenute nella cartella clinica in ordine alle attività espletate dal personale sanitario nel corso di una terapia o di un intervento?

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte - premettendo che, ai fini del sorgere del diritto all'indennizzo previsto dalla l. n. 210/92 in favore di coloro che presentino danni irreversibili derivanti da epatiti post-trasfusionali, la prova a carico dell'interessato ha ad oggetto l'effettuazione della terapia trasfusionale, il verificarsi dei danni anzidetti ed il nesso causale tra i primi e la seconda, da valutarsi secondo un criterio di ragionevole probabilità scientifica (Cass. civ. n. 753/2005) - rigetta i motivi di ricorso.

Invero, nel caso in esame, la Corte d'appello aveva appurato che la cartella clinica comprovava un'unica trasfusione e che, all'esito dei dovuti controlli previsti per legge, i donatori erano risultati sani, ragion per cui, essendo stati rispettati gli obblighi normativi esistenti al tempo dell'intervento cui si era sottoposto Tizio e relativi alle trasfusioni di sangue, ossia quelli concernenti l'identificabilità del donatore e del centro trasfusionale di provenienza (cd. tracciabilità del sangue), secondo i principi enucleati da Cass. civ., Sez. Un., n. 577/2008 e Cass. civ., Sez. Un., n. 582 del 2008, non vi erano elementi per ritenere, in base all'evidenziato criterio probabilistico, che fosse stato utilizzato sangue infetto.

La Suprema Corte, in particolare, ritiene infondata la censura secondo cui il giudice di merito avrebbe dovuto approfondire la circostanza, dedotta da Tizio, dell'avvenuta esecuzione di altre trasfusioni, oltre a quella attestata nella cartella clinica in atti. La Corte d'appello, nell'attribuire valore probatorio privilegiato a tale documento, ha fatto corretta applicazione della giurisprudenza di legittimità secondo cui le attestazioni contenute in una cartella clinica, redatta da un'azienda ospedaliera pubblica, o da un ente convenzionato con il servizio sanitario pubblico, hanno natura di certificazione amministrativa, cui è applicabile lo speciale regime di cui agli artt. 2699 e ss c.c., per quanto attiene alle trascrizioni delle attività espletate nel corso di una terapia o di un intervento, restando, invece, non coperte da fede privilegiata le valutazioni, le diagnosi o, comunque, le manifestazioni di scienza o di opinione in essa espresse (Cass. civ., n. 25568/2011; Cass.civ., n. 7201/2003); poiché l'esecuzione di una trasfusione attiene ad attività espletate nel corso di una terapia o di un intervento e non riguarda valutazioni o diagnosi, correttamente è stato attribuito valore probatorio privilegiato - fino a querela di falso - a tali risultanze.

È pur vero che il disposto dell'art. 2700 c.c., secondo cui l'atto pubblico fa piena prova, fino a querela di falso, dei fatti che il pubblico ufficiale attesta essere avvenuti in sua presenza o da lui compiuti, non preclude l'indagine su circostanze o fatti che nel medesimo atto non risultino né positivamente né negativamente acquisiti (Cass. civ., 18 novembre 2013, n. 25811); tuttavia, l'annotazione in cartella clinica di una sola somministrazione di sangue costituisce un'attestazione positiva delle terapie e dei trattamenti praticati sul paziente, che esclude la possibilità di un fatto diverso, ossia la presenza di un numero diverso di trasfusioni.

Osservazioni

La cartella clinica è il documento o l'insieme dei documenti che raccolgono le informazioni necessarie a rilevare il percorso diagnostico-terapeutico di un paziente, al fine di determinare le cure da somministrare.

Per costante giurisprudenza di legittimità, alla quale ha aderito la pronuncia in esame, le attestazioni contenute in tale cartella sono riferibili ad una certificazione amministrativa per quanto attiene alle attività espletate nel corso di una terapia o di un intervento (come l'esecuzione di una trasfusione di sangue), mentre le valutazioni, le diagnosi o comunque le manifestazioni di scienza o di opinione in essa contenute non hanno alcun valore probatorio privilegiato rispetto ad altri elementi di prova (Cass. civ., 30 novembre 2011, n. 25568; Cass. civ., 12 maggio 2003, n. 7201, che ha confermato la decisione del giudice di merito, che aveva negato efficacia probatoria privilegiata all'annotazione nella cartella clinica dell'"assenza di deficit vascolo nervosi").

In ogni caso, le attestazioni della cartella clinica, ancorché riguardanti fatti avvenuti alla presenza di un pubblico ufficiale o da lui stesso compiuti (e non la valutazione dei suddetti fatti), non costituiscono prova piena a favore di chi le ha redatte, allorché venga in contestazione la responsabilità di quest'ultimo, in base al principio secondo il quale nessuno può precostituire prova a favore di se stesso (Cass. civ., 27 settembre 1999, n. 10695; Cass. civ., 18 settembre 1980, n. 5296).

In tema di responsabilità medica, invece, si è ritenuto che la difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari non può pregiudicare, sul piano probatorio, il paziente, cui anzi, in ossequio al principio di vicinanza della prova, è dato ricorrere a presunzioni se sia impossibile la prova diretta a causa del comportamento della parte contro la quale doveva dimostrarsi il fatto invocato. Tali principi operano non solo ai fini dell'accertamento dell'eventuale colpa del medico, ma anche in relazione alla stessa individuazione del nesso eziologico fra la sua condotta e le conseguenze dannose subite dal paziente (Cass. civ., 8 novembre 2016, n. 22639; Cass. civ., 31 marzo 2016, n. 6209, che ha cassato la decisione del giudice di merito, che aveva escluso la responsabilità dei sanitari nonostante non risultassero per sei ore annotazioni sulla cartella clinica di una neonata, nata poi con grave insufficienza mentale causata da asfissia perinatale, così da rendere incomprensibile se poteva essere più appropriata la rilevazione del tracciato cardiotocografico rispetto alla mera auscultazione del battito cardiaco del feto).

In sostanza, l'eventuale incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice può utilizzare per ritenere dimostrata l'esistenza di un valido legame causale tra l'operato del medico e il danno patito dal paziente, soltanto, però, allorquando proprio tale incompletezza abbia reso impossibile l'accertamento del relativo nesso eziologico e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare la lesione (Cass. civ., 12 giugno 2015, n. 12218).

Tale conclusione è conseguenza del principio per cui, in tema di responsabilità professionale del medico, il nesso causale sussiste anche quando, attraverso un criterio necessariamente probabilistico, si possa ritenere che l'opera del medico, se correttamente e prontamente prestata, avrebbe avuto fondate possibilità di evitare il danno; sicché la difettosa tenuta della cartella clinica non vale ad escludere la sussistenza del nesso eziologico tra la colposa condotta del medico e le conseguenze dannose sofferte dal paziente, ove risulti provata la idoneità di tale condotta a provocare il danno, ma consente anzi il ricorso alle presunzioni, assumendo rilievo, al riguardo, il criterio della "vicinanza alla prova", cioè della effettiva possibilità per l'una o per l'altra parte di offrirla (Cass. civ., 27 aprile 2010, n. 10060). Seguendo questo indirizzo la Cassazione ha ritenuto che la possibilità, pur rigorosamente prospettata sotto il profilo scientifico, che la morte della persona ricoverata presso una struttura sanitaria possa essere intervenuta per altre, ipotetiche cause patologiche, diverse da quelle diagnosticate ed inadeguatamente trattate, che non sia stato tuttavia possibile accertare neppure dopo il decesso in ragione della difettosa tenuta della cartella clinica o della mancanza di adeguati riscontri diagnostici, anche autoptici, non vale ad escludere la sussistenza del nesso eziologico tra la colposa condotta dei medici in relazione alla patologia accertata e la morte, ove risulti provata la idoneità di tale condotta a provocarla (Cass. civ., 13 settembre 2000, n. 12103).

In altri termini, le omissioni nella tenuta della cartella clinica al medico imputabili rilevano sia ai fini della figura sintomatica dell'inesatto adempimento, per difetto di diligenza, in relazione alla previsione generale dell'art. 1176, comma 2, c.c., sia come possibilità di fare ricorso alla prova presuntiva, poiché l'imperfetta compilazione della cartella non può, in linea di principio, tradursi in un danno nei confronti di colui il quale abbia diritto alla prestazione sanitaria (Cass. civ., 26 gennaio 2010, n. 1538). Il medico ha, infatti, l'obbligo di controllare la completezza e l'esattezza delle cartelle cliniche e dei relativi referti allegati, la cui violazione comporta la configurazione di un difetto di diligenza di particolare gravità (avuto riguardo alla rilevante funzione che la cartella clinica assume, sotto il profilo sanitario, nei confronti del paziente e, indirettamente, nei confronti della struttura sanitaria a cui il paziente stesso si è affidato) e, quindi, un inesatto adempimento della sua corrispondente prestazione professionale (Cass. civ., 18 settembre 2009, n. 20101; Cass. civ., 13 marzo 2009, n. 6218; Cass. civ., 5 luglio 2004, n. 12273).

In particolare, la responsabilità della regolare compilazione, della tenuta e della custodia della cartella clinica fino alla consegna nell'archivio centrale dell'azienda sanitaria spetta al primario del reparto (Cass. pen., sez. V, 17 febbraio 2004n. 13989). Questi deve anche vigilare sull'esattezza dei contenuti tecnici della cartella, della diagnosi formulata e della terapia prescritta e praticata. Al Direttore sanitario compete, invece, il controllo sull'archivio centrale delle cartelle cliniche; sotto la sua responsabilità viene rilasciata agli aventi diritto copia delle stesse cartelle (cfr. art. 4, commi 1 e 2, l. n. 24/2017, nonché art. 92 d.lgs. n. 196/2003).

L'irregolare tenuta della cartella clinica può essere fonte di responsabilità della struttura anche sotto altro profilo, essendo questa tenuta a risarcire il danno sofferto dal paziente in conseguenza della diffusione di dati sensibili contenuti nella cartella, a meno che non dimostri di avere adottato tutte le misure necessarie per garantire il diritto alla riservatezza del paziente e ad evitare che i dati relativi ai test sanitari e alle condizioni di salute del paziente stesso possano pervenire a conoscenza di terzi (Cass. civ., 30 gennaio 2009, n. 2468).

In tema di azione di rivalsa dell'Inail nei confronti del datore di lavoro civilmente responsabile dell'infortunio per il recupero dell'importo delle prestazioni erogate all'assicurato, si è ritenuto che i documenti sanitari prodotti dall'istituto (certificati medici di insorgenza e di proseguimento della malattia, cartelle cliniche, relazione di accertamento dei postumi invalidanti), nonché le attestazioni di avvenuta erogazione di somme in ragione dello infortunio, aventi natura di atti amministrativi e come tali assistiti da una presunzione di legittimità, possono costituire valida ed idonea prova nel giudizio promosso dall'istituto per il riconoscimento del suo credito (Cass. civ., 26 giugno 1987, n. 5677; Cass. civ., 19 ottobre 1985, n. 5141).

Per quanto attiene, invece, al profilo della produzione o acquisizione in giudizio della cartella clinica, va rammentato che non può essere ordinata, in relazione al disposto dell'art. 210 c.p.c., l'esibizione in giudizio delle cartelle cliniche relative ai ricoveri ospedalieri di una persona defunta, su istanza degli eredi di questa ed allo scopo di provarne l'incapacità d'intendere e di volere al momento in cui era stata fatta una donazione, trattandosi di documenti relativi ai dati personali della persona deceduta, di cui gli interessati possono di loro iniziativa acquisire copia, ai sensi dell'art. 9 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, senza alcuna indispensabilità, pertanto, dell'esercizio del potere del giudice (Cass. civ., 11 giugno 2013, n. 14656).

Infine, agli effetti della tutela penale, poiché la cartella clinica redatta dal medico di una struttura sanitaria pubblica o convenzionata col servizio sanitario nazionale, compresa in essa la scheda anestesiologica che ne costituisce parte integrante, è atto pubblico munito di fede privilegiata con riferimento alla sua provenienza dal pubblico ufficiale e ai fatti da questi attestati come avvenuti in sua presenza (Cass. pen., sez. IV, 7 luglio 2010 n. 37925; Cass. pen., sez. V, 17 febbraio 2010 n. 19557). Pertanto integra il reato di falso materiale in atto pubblico, di cui all'art. 476 c.p., l'alterazione di una cartella clinica mediante l'aggiunta di una annotazione, ancorché vera, in un contesto cronologico successivo e, pertanto, diverso da quello reale; né, a tal fine, rileva che il soggetto agisca per ristabilire la verità effettuale, in quanto la cartella clinica acquista carattere definitivo in relazione ad ogni singola annotazione ed esce dalla sfera di disponibilità del suo autore nel momento stesso in cui la singola annotazione viene registrata, trattandosi di atto avente funzione di "diario" della malattia e di altri fatti clinici rilevanti, la cui annotazione deve avvenire contestualmente al loro verificarsi (Cass. pen., sez. V, 29 maggio 2013 n. 37314).

Guida all'approfondimento

C. LOMBARDO, Incompleta compilazione della cartella clinica: incertezze sul nesso di causa con il danno subito dal paziente ed onere della prova, in Ridare.it;

A. PENTA, I rapporti tra l'imperfetta compilazione della cartella clinica ed il nesso di causalità, in Ridare.it.

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