Il contribuente sprovvisto di difensore, se "recidivo" non può essere salvato in appello

Achille Benigni
08 Febbraio 2018

L'ordine impartito dal giudice al contribuente, nel giudizio di primo grado, di munirsi di assistenza tecnica, nel caso in cui lo stesso contribuente ne sia sprovvisto, ancorché astrattamente ammissibile in grado di appello, non deve essere reiterato, con conseguente inammissibilità dell'appello per carenza di ius postulandi.
La massima

L'ordine impartito dal giudice al contribuente, nel giudizio di primo grado, di munirsi di assistenza tecnica, nel caso in cui lo stesso contribuente ne sia sprovvisto, ancorché astrattamente ammissibile in grado di appello, non deve essere reiterato, con conseguente inammissibilità dell'appello per carenza di ius postulandi.

Il caso

La vicenda sottoposta al vaglio della Suprema Corte (che, come vedremo più avanti, presenta un'insolita peculiarità dal punto di vista processuale) trae origine dall'impugnativa di un accertamento con il quale l'Agenzia delle Entrate aveva contestato ad una società di capitali l'omessa contabilizzazione di ricavi, determinando per l'effetto una maggiore IRES di € 71.063,00, IRAP di € 9.152,00 ed IVA di € 17.617,00, oltre accessori.

La società aveva impugnato l'atto impositivo con ricorso sottoscritto dal legale rappresentante, benché quest'ultimo fosse un soggetto non abilitato alla difesa dinanzi alle commissioni tributarie ed il valore della pretesa eccedesse la soglia di € 2.582,28, vigente ratione temporis (dal 2016 la soglia è di € 3.000,00).

L'Ufficio, pertanto, nel costituirsi in giudizio, aveva eccepito l'inammissibilità del ricorso, chiedendone il rigetto nel merito.

Il giudice di primo grado aveva respinto l'eccezione preliminare di inammissibilità, rilevando che nel frattempo la società si era munita di un difensore abilitato (che aveva ritualmente depositato la procura ad litem prima dell'udienza di trattazione), ma nel merito aveva rigettato il ricorso, perché infondato.

A questo punto la decisione era stata appellata dalla società soccombente, che però, incredibilmente (ecco la peculiarità del caso), anche in questa seconda fase aveva omesso di farsi assistere da un difensore abilitato: l'appello risultava infatti sottoscritto sempre dal legale rappresentante della società e perciò veniva dichiarato inammissibile dalla Commissione Tributaria Regionale.

La relativa sentenza veniva impugnata in Cassazione dalla società, la quale denunciava la nullità della sentenza per violazione degli artt. 12, 18 comma 3 e 53 del decreto sul processo tributario, assumendo che anche il giudice di appello, una volta rilevato il difetto di assistenza tecnica, avrebbe dovuto invitare il contribuente (in questo caso appellante) a munirsi di un difensore abilitato.

Con ordinanza interlocutoria n. 10080 del 21 aprile 2017 la questione veniva rimessa dalla Sezione Tributaria della Cassazione al Primo Presidente, il quale, a sua volta, l'assegnava alle Sezioni Unite, ex art. 374 comma 2 c.p.c., reputandola di massima importanza.

La questione

Ancora una volta la Suprema Corte è chiamata a pronunciarsi sulla problematica delle conseguenze derivanti dalla violazione della norma processuale che impone alla parte privata nel processo tributario di munirsi di un difensore abilitato, ai sensi dell'art. 12, quinto comma, D. Lgs. n. 546/1992 (nel testo anteriore alla riforma del 2015), nelle controversie c.dd. "non bagattellari".

Giova rammentare che, ai sensi del secondo comma del medesimo articolo, il valore della controversia è determinato dall'importo del tributo al netto degli interessi e delle eventuali sanzioni irrogate con l'atto impugnato; in caso di controversie aventi ad oggetto esclusivamente l'irrogazione di sanzioni, il valore è costituito dalla somma di queste.

In particolare, la questione giuridica sottesa alla controversia decisa con la sentenza annotata concerne l'applicabilità (anche) al giudizio di appello del principio, enucleabile dal quinto comma del citato articolo 12 (ed oggi dal combinato disposto del decimo comma del medesimo articolo e dell'art. 182 c.p.c.), in base al quale, laddove ravvisi un difetto di assistenza tecnica, il giudice tributario, prima di dichiarare l'inammissibilità del ricorso, deve impartire al contribuente l'ordine di munirsi di un difensore abilitato, sicché solo l'inottemperanza all'ordine del giudice nel termine assegnato è causa di inammissibilità del ricorso.

Ciò premesso, nel rimettere la questione al Primo Presidente, la Sezione tributaria della Cassazione aveva dato conto dell'esistenza di due orientamenti contrapposti sull'argomento: mentre un primo orientamento, maggioritario, escludeva l'applicabilità di tale principio al giudizio di appello, sul presupposto che la disposizione di cui al terzo comma dell'art. 12 dovesse interpretarsi in maniera restrittiva (dunque limitandone l'applicazione al giudizio di primo grado), un secondo orientamento era incline ad attribuire anche al giudice di appello il potere-dovere di utilizzare questo meccanismo di regolarizzazione del difetto di assistenza tecnica a favore del contribuente sprovvisto di difensore abilitato.

Di qui il contrasto giurisprudenziale, che aveva richiesto l'intervento nomofilattico delle Sezioni unite. Nel caso di specie, peraltro, si poneva all'attenzione della Corte anche un secondo profilo problematico, dovendo quest'ultima stabilire se il suddetto meccanismo di regolarizzazione potesse operare una seconda volta e cioè dopo che già in primo grado il contribuente ne aveva usufruito.

Le soluzioni giuridiche

Prima di entrare nel merito delle soluzioni adottate nella sentenza in commento, va premesso che la questione dell'ambito di applicazione dell'art. 12 D.Lgs. n. 546/1992 è stata al centro di numerosi interventi giurisprudenziali.

In un primo momento, era prevalsa l'opinione secondo cui l'ordine alla parte di munirsi di un difensore abilitato costituisse una mera facoltà concessa dalla legge al giudice tributario di primo grado, da questi esercitabile in via puramente discrezionale e solo per le controversie di valore non superiore ad € 2.582,28 (corrispondenti ai 5 milioni del vecchio conio; in tal senso v. Cass. civ. 3 marzo 1999 n. 1781 e Cass. 12 giugno 2000 n. 7966).

Successivamente era intervenuta la Corte costituzionale (sentenza n. 189/2000), che aveva affermato la necessità di un'interpretazione adeguatrice del precetto di cui all'art.12 quinto comma e dell'art. 18 commi 3 e 4 del decreto sul processo tributario, nel senso cioè che la sanzione dell'inammissibilità del ricorso avrebbe potuto collegarsi solo alla mancata esecuzione dell'ordine impartito dal giudice, da ritenersi dunque esteso alle controversie tributarie "maggiori" (tale ratio decidendi era stata sostanzialmente riaffermata dal giudice delle leggi nelle sentenze nn. 520/2002 e 158/2003).

Anche dopo tali arresti, peraltro, erano persistiti in apicibus i contrasti interpretativi, tanto che, in una successiva decisione, la S. Corte si era deliberatamente distaccata dall'indirizzo propugnato dalla Consulta, ribadendo, con ricchezza di argomenti, la tesi dell'inammissibilità del meccanismo di regolarizzazione per le controversie tributarie di valore superiore a cinque milioni di vecchie lire (cfr. Cass. 29 gennaio 2002 n. 1100; contra Cass. 12 giugno 2002 n. 8369).

Di qui la necessità di un intervento nomofilattico delle Sezioni Unite, sollecitato dall'ordinanza interlocutoria n.3 042 del 27 febbraio 2003 e concretizzatosi nella sentenza n. 22601 del 2 dicembre 2004.

Con tale arresto (che va segnalato anche per un'interessante riflessione sul tema della nomofilachia e dei rapporti tra giurisprudenza di legittimità e costituzionale) la S. Corte sceglie di seguire la via indicata dalla Consulta, aderendo all'interpretazione suggerita da quest'ultima, secondo cui "l'inammissibilità del ricorso può conseguire solo alla mancata nomina di un difensore tecnico nel termine all'uopo assegnato dal giudice tributario", ma non può derivare sic et simpliciter dalla circostanza che il ricorso sia stato sottoscritto dalla parte personalmente, anziché da un difensore abilitato (Cass. civ., sez. Unite, 2 dicembre 2004 n. 22601).

Dopo questo intervento delle Sezioni unite era, tuttavia, rimasta aperta la problematica dell'applicabilità al giudizio di appello del rimedio di cui all'art. 12 D. Lgs. n. 546/1992, che pure aveva ricevuto soluzioni contrapposte a livello interpretativo.

Ed infatti, come osservato in premessa, la prevalente giurisprudenza di legittimità è sempre stata incline a circoscrivere l'ambito di operatività del principio in questione al giudizio di primo grado (in tal senso v. Cass. civ., 13 ottobre 2010 n. 21139; Cass. civ., n. 8778/2008; Cass. civ., n. 15448/2010, Cass. civ., n. 20929/2013; Cass. civ., n. 26851/2014), argomentando che l'obbligo del giudice tributario di fissare al contribuente, che ne sia privo, un termine per la nomina di un difensore - previsto, per le controversie di valore eccedente € 2.582,28, dall'art. 12, quinto comma del D. Lgs. 31 dicembre 1992 n. 546 - sussiste solo nel caso in cui la parte sia ab initio sfornita di assistenza tecnica e non riguarda il giudizio di secondo grado, «come si desume sia dall'esplicito riferimento, nella citata giurisprudenza costituzionale, al solo giudizio di prime cure, sia dal tenore letterale dell'art. 12 cit., che si riferisce espressamente alla proposizione delle controversie, e non alla "prosecuzione dei giudizi" con la conseguenza che quando la parte si sia munita di assistenza tecnica nel giudizio di primo grado a seguito di ottemperanza all'ordine emesso dal giudice e proponga appello personalmente l'impugnazione deve essere dichiarata inammissibile, non dovendo l'ordine essere reiterato, e l'appello va dichiarato immediatamente inammissibile, attesa la riferibilità di quello impartito in prime cure all'intero giudizio».

Ciò nonostante, la presenza di alcune decisioni di segno contrario, che reputavano estensibile tale regime al giudizio di appello (oltre alla già richiamata Cass. civ, n. 1100/2002 che circoscriveva il meccanismo di regolarizzazione alle controversie “minori”, si segnalava Cass. civ.,n. 21459/2009, ove era affrontato - e risolto positivamente - il problema della estensibilità dell'ordine di cui all'art. 12 nei confronti del concessionario del servizio di riscossione) ha indotto la Suprema Corte a sollecitare nuovamente l'intervento delle Sezioni unite.

Queste ultime, nella sentenza annotata, aderiscono all'orientamento interpretativo minoritario, osservando, in accordo con l'ordinanza di rimessione, che gli argomenti ermeneutici a favore della inammissibilità tout court del predetto ordine nel giudizio di appello non appaiono risolutivi e possono essere superati attraverso un'interpretazione costituzionalmente adeguata, a tutela del diritto di difesa.

Ancora una volta, insomma, la S. Corte fa tesoro degli insegnamenti di Corte cost. n. 189/2000, rilevando che l'interpretazione seguita dalla Consulta "ben può essere invocata anche nel giudizio di appello", tenuto conto che, per un verso, l'art.12, comma 5, dopo avere previsto che le liti "minori" possono essere proposte direttamente dalle parti interessate, stabilisce altresì che queste ultime "nei procedimenti relativi, possono stare in giudizio anche senza assistenza tecnica", talché la generica locuzione “procedimenti” ben può riferirsi anche quelli di appello, mentre, per altro verso, l'art. 53 D.Lgs. n. 546/92, nel prevedere che il ricorso in appello è inammissibile se non sottoscritto a norma dell'art.18, comma 3, esprime la chiara intenzione del legislatore di estendere al ricorso in appello l'intera disciplina processuale dettata per il ricorso introduttivo dal terzo comma dell'art.18 (il quale a sua volta rinvia al quinto comma dell'art.12) del D. Lgs. n. 546/1992.

Dopo aver sancito l'applicabilità di tale disciplina al giudizio di appello, tuttavia, le Sezioni unite precisano che l'ordine del giudice alla parte di munirsi della difesa tecnica, una volta impartito nel corso del giudizio di primo grado, non deve essere rinnovato in appello.

Ne consegue che se la parte è stata resa edotta, mediante apposita ordinanza emessa nel corso del giudizio di primo grado, della necessità di procurarsi un difensore abilitato, ossia iscritto in uno degli appositi albi previsti dalla norma processuale, non ha diritto ad un “secondo invito”, qualora in appello commetta l'errore di ritrovarsi nelle medesime condizioni. In tal caso, l'assenza di un difensore abilitato si traduce automaticamente in un difetto insanabile di ius postulandi, con conseguente inammissibilità dell'impugnazione proposta.

Osservazioni

Con la prima delle due statuizioni contenute nella sentenza annotata le Sezioni unite danno seguito all'indirizzo interpretativo propugnato dalla Consulta con la sentenza n.189/2000.

Ancora una volta, insomma, prevale in apicibus l'idea di circoscrivere il più possibile le ipotesi di inammissibilità, in ragione della gravità di tale sanzione processuale (la cui applicazione rischia di comprimere il diritto di difesa, costituzionalmente protetto), dilatando l'ambito applicativo del rimedio previsto dall'art. 12.

Per la verità, in questo specifico caso la soluzione ermeneutica non era affatto scontata, sia perché, come si è detto, il principio espresso dalla Consulta si riferiva ad un giudizio di primo grado, sia perché, nella prospettiva indicata dalle Sezioni unite, il meccanismo di regolarizzazione potrebbe trovare applicazione anche a favore di un contribuente che, dopo essersi fatto assistere da un difensore tecnico dinanzi alla Commissione tributaria provinciale, in appello decida di fare da sé (trattandosi, in tal caso, di un ordine impartito per la prima volta in appello).

Diverso è il caso del contribuente che in primo grado sia rimasto sprovvisto di difensore, (benché la lite ecceda la soglia di € 2.582,28, oggi € 3.000,00), poiché l'ordine di munirsi di assistenza tecnica per errore non è stato impartito dalla Commissione (la quale potrebbe, ad esempio, non essersi accorta che si trattava di una lite “maggiore”). In tale ipotesi, qualora il contribuente impugni personalmente la sentenza, non vi è alcuna valida ragione giuridica per escludere l'operatività del meccanismo riparatorio, tenuto conto che l'ordine impartito dalla Commissione tributaria regionale avrebbe dovuto già essere impartito dal giudice di primo grado.

Per completezza, va precisato che l'art. 12 è stato recentemente novellato dall'art. 9 del D. Lgs. n. 156/2015, per cui, nella sua attuale stesura, la disposizione, dopo aver ribadito la necessità dell'assistenza tecnica nelle cause tributarie minori, al decimo comma ha disciplinato le ipotesi di difetto di rappresentanza o autorizzazione, rinviando alle previsioni contenute nell'art. 182 c.p.c. (pacificamente applicabile anche al giudizio appello; v. Cass. civ., n. 3894/2017) e dunque prevedendo che detta attività possa essere svolta, oltre che dal collegio, anche dal presidente della Commissione (o della sezione) in modo da anticipare il più possibile la regolarizzazione del vizio processuale.

Più scontata, in un certo senso, è la seconda parte della sentenza, ove la Corte afferma la non necessità di reiterazione dell'ordine già impartito al contribuente nel giudizio di primo grado.

In questo caso il Supremo collegio sembra essersi ispirato al celebre brocardo latino vigilantibus, non dormientibus iura succurrunt: se la logica che sta alla base del meccanismo di regolarizzazione previsto dalla norma processuale è ispirata alla necessità di tutelare il diritto di difesa del contribuente, essa non può andare in soccorso della parte negligente che, benché ritualmente avvisata dal giudice, commetta per la seconda volta lo stesso errore.

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