Non applicabilità del transfer pricing ai fini IVA
05 Marzo 2018
Massima
Per l'IVA il corrispettivo effettivamente ricevuto è un elemento cardine del meccanismo di applicazione dell'imposta, fondato sul principio di neutralità dell'imposta, che sarebbe violato ove la base imponibile fosse calcolata superiore al corrispettivo ricevuto. Per tale motivo il transfer pricing non è disciplina applicabile a tale tipo di imposta, a meno che l'Amministrazione finanziaria dimostri l'antieconomicità manifesta e macroscopica dell'operazione, tale da assumere rilievo indiziario di non verità della fattura. In tal caso spetterà all'imprenditore dimostrare che la prestazione del bene o servizio è reale ed inerente all'attività svolta. Il caso
La Corte di Cassazione, 30 gennaio 2018, n. 2240, ha affermato un principio molto rilevante in tema di transfer pricing, sancendone la non applicabilità ai fini IVA.
Nel caso di specie una società aveva proposto ricorso per Cassazione avverso la sentenza con la quale la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia aveva rigettato il suo appello, ritenendo legittimi gli avvisi di accertamento con i quali l'Agenzia delle Entrate aveva recuperato a tassazione, a fini IRPEG e IRAP, per gli anni d'imposta 2002 e 2003, componenti negativi e positivi di reddito. Per quanto qui di interesse, tra i componenti positivi di reddito, l'Ufficio aveva recuperato la differenza tra i prezzi di trasferimento applicati dalla società nei confronti di alcune società controllate e il maggior prezzo calcolato applicando ai beni o servizi trasferiti il valore normale nel mercato di riferimento (transfer pricing). La questione
Nel censurare la sentenza la ricorrente denunciava, a tal proposito, violazione e falsa applicazione dell'art. 9 TUIR, dell'art. 11 della Sesta Direttiva77/388/CEE del Consiglio del 17 maggio 1977 e dell'art. 13 d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, per avere la Commissione Tributaria Regionale omesso di rilevare l'illegittimità dell'atto di irrogazione sanzioni in quanto erroneamente postulante la rilevanza del valore normale dei prezzi di cessione di beni fra società infragruppo anche per la determinazione della base imponibile IVA e per avere comunque determinato tale valore sulla base di criteri difformi da quelli dettati dalle direttive OCSE. Le soluzioni giuridiche
Secondo i giudici di legittimità tale motivo di impugnazione era fondato nella parte in cui denunciava, con rilievo assorbente rispetto ad ogni altra censura, violazione di legge per la ritenuta applicabilità della disciplina in materia di transfer pricinganche ai fini della determinazione della base imponibile IVA. Il transfer pricing, afferma la Suprema Corte, si basa infatti sul concetto di valore normale di mercato di cui agli artt. artt. 9 e 76, comma 5 (ora 110, comma 7) d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (v. anche art. 9 del modello di convenzione Ocse) e risponde ad esigenze di equa suddivisione dei profitti nei vari Stati in cui operano i gruppi multinazionali.
Per l'IVA, invece, il corrispettivo effettivamente ricevuto è un elemento cardine del meccanismo di applicazione dell'imposta, fondato sul principio di neutralità dell'imposta (che sarebbe violato ove la base imponibile fosse calcolata come un importo per ipotesi superiore al corrispettivo ricevuto).
Tale principio è da sempre affermato dalle direttive comunitarie (da ultimo esplicitato nell'art. 73 della direttiva n. 112/2006/Cee) e recepito in Italia dall'art. 13 d.P.R. 26 ottobre1972, n. 633. In particolare, infatti, l'art. 17 della Sesta Direttiva n. 77/388/CEE del Consiglio, del 17 maggio 1977, riconduce il diritto alla detrazione all'esigibilità ed inerenza dell'acquisto del bene o servizio, senza contemplare alcun riferimento, e comunque non in modo diretto, al valore del bene o servizio.
Anche per la Corte Europea, la circostanza che un'operazione economica sia effettuata ad un prezzo superiore o inferiore al prezzo normale di mercato deve ritenersi irrilevante (CGUE, 20 gennaio 2005, causa C-412/03, Hotel Scandic Gasabach).
Né, conclude la Corte, vi è elusione od evasione fiscale se i beni o i servizi sono forniti a prezzi artificialmente bassi o elevati fra le parti, che godano entrambe del diritto a detrazione IVA, essendo solo a livello del consumatore finale che può ricorrere perdita di gettito fiscale (CGUE, 26 aprile 2012, cause riunite C-621/10 e C-129/11, Balkan).
La base imponibile per la cessione di un bene o la prestazione di un servizio effettuate a titolo oneroso è dunque costituita dal corrispettivo effettivamente ricevuto dal soggetto passivo ed esso rappresenta il valore soggettivo, realmente percepito e non un valore stimato secondo criteri oggettivi (CGUE, 19 dicembre 2012, causa C-549/11; CGUE, 26 aprile 2012; CGUE, 5 febbraio 1981, Cooperatieve Aardappelenbewaarplaats; indirizzo ribadito anche per operazioni di gruppo: CGUE, 9 giugno 2011, causa C-285/10, Campsa Estaciones de Servicio SA).
Esplicite conferme al riguardo si ricavano del resto anche dal recente intervento della Commissione europea, riassunte nel working paper n. 923 del 28 febbraio 2017. La Corte di Cassazione ribadisce quindi che «in condizioni normali non è consentito all'Amministrazione rideterminare il valore delle prestazioni e dei servizi acquistati dall'imprenditore escludendo il diritto a detrazione se il valore sia ritenuto antieconomico e dunque diverso da quello da reputare normale o comunque tale da produrre un risultato economico» (cfr. Cass. civ., 4 giugno 2014, n. 12502).
Il calcolo dell'IVA sul corrispettivo può essere disatteso solo allorquando l'Amministrazione finanziaria dimostri l'antieconomicità manifesta e macroscopica dell'operazione, tale da assumere rilievo indiziario di non verità della fattura e, dunque, di non verità dell'operazione stessa o di non inerenza della destinazione del bene o servizio all'utilizzo per operazioni assoggettate ad IVA; in tal caso, dunque, spetterà all'imprenditore dimostrare che la prestazione del bene o servizio è reale ed inerente all'attività svolta (Cass. civ. 27 settembre 2013, nn. 22130 e 22132). Osservazioni
L'effettiva ratio dell'istituto del transfer pricing va colta nel principio di libera concorrenza, enunciato nell'art. 9 del Modello di Convenzione OCSE, la cui considerazione, secondo chi scrive, non può che essere unitaria sia ai fini imposte dirette che IVA. A sostegno di tale conclusione, del resto, milita la ratio della disciplina, che mira a sostituire il valore soggettivo dell'operazione con quello oggettivo e normalizzato, sicché investe ogni atto gestorio potenzialmente idoneo ad indurre un incremento o decremento dell'imponibile, a prescindere dall'assetto giuridico dei rapporti tra le parti, siano essi onerosi o gratuiti.
La Corte di Cassazione ha del resto ha affermato (sentenza n. 20805 del 06 settembre 2017) che tale normativa “non integra una disciplina antielusiva, in senso proprio, perché (a differenza di altre norme specificamente antielusive) non prevede che l'amministrazione finanziaria debba provare la maggiore fiscalità nazionale ed è perciò applicabile anche in difetto di prova da parte dell'amministrazione finanziaria del conseguimento di un concreto vantaggio fiscale da parte del contribuente. Detta disciplina, in altri termini, rappresenta una difesa più avanzata di quella direttamente repressiva della elusione, in quanto è rivolta a reprimere il fenomeno economico in sé”.
La disciplina finalizzata alla repressione del fenomeno economico del transfer pricing, cioè dello spostamento di imponibile fiscale a seguito di operazioni tra società appartenenti al medesimo gruppo e soggette a normative nazionali differenti, non richiede quindi di provare, da parte dell'amministrazione, la funzione elusiva, ma solo l'esistenza di transazioni tra imprese collegate ad un prezzo apparentemente inferiore a quello normale, gravando invece sul contribuente, secondo le regole ordinarie di vicinanza della prova, ai sensi dell'art. 2697 c.c. (vedi, al riguardo, Cass. civ., n. 9917/2008 e n. 19489/2010), l'onere di dimostrare che tali "transazioni" sono intervenute per valori di mercato da considerarsi normali.
La Corte ammette che, in generale, non si può escludere che considerazioni di strategia complessiva inducano le imprese a compiere operazioni di per sé stesse antieconomiche in vista ed in funzione di altri benefici. E ora, nella sentenza in commento, si afferma comunque che il calcolo dell'IVA sul corrispettivo può essere in effetti disatteso dall'Amministrazione Finanziaria allorquando si rilevi “l'antieconomicità manifesta e macroscopica dell'operazione”, tale da assumere rilievo indiziario di non verità della fattura e, dunque, di non verità dell'operazione stessa o di non inerenza della destinazione del bene o servizio all'utilizzo per operazioni assoggettate ad IVA.
Ma il fatto che il valore dell'operazione sia inferiore al valore normale non è già esso stesso indizio di antieconomicità?
E dunque in ogni caso è necessario che le operazioni rispondano a criteri di logica economica, i quali, a loro volta, devono essere funzionali a meccanismi di mercato in regime di libera concorrenza, non distorsivi di tale regime (ex plurimis, Cass. civ., n. 17955/2013). E l'onere della prova sul rispetto di tali criteri di logica economica spetta al contribuente. Non dimentichiamo, del resto, che le manovre sui prezzi di trasferimento infragruppo possono essere del resto motivate anche da ragioni diverse da quella del vantaggio fiscale, quali, ad esempio, l'obiettivo di abbassare gli utili prodotti in Paesi ad alta instabilità politica, di aggirare le normative antidumping e di penetrare nuovi mercati.
E dunque ammettere eccezioni, come, pur con i detti limiti di indizi di “non verità dell'operazione” (concetto questo peraltro molto soggettivo), sembra paventare la Corte di Cassazione nella sentenza in esame, rappresenta sempre un rilevante pericolo per l'economia.
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