Il valore dell'accordo sindacale nei licenziamenti collettivi e il limite del sindacato giudiziale: due ordinanze a confronto

Barbara Fumai
09 Marzo 2018

Costituisce principio consolidato (e adesso affermato anche dal legislatore con l'art. 30, L. 4 novembre 2010, n. 183) quello secondo cui in materia di licenziamenti collettivi per riduzione di personale, la L. n. 223/1991, nel prevedere agli artt. 4 e 5 la puntuale, completa e cadenzata procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilità, ha introdotto un significativo elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato ex post nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell'iniziativa imprenditoriale, concernente il ridimensionamento dell'impresa, devoluto ex ante alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione secondo una metodica già collaudata in materia di trasferimenti di azienda. I residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non riguardano più, quindi, gli specifici motivi della riduzione del personale (a differenza di quanto accade in relazione ai licenziamenti per giustificato motivo obiettivo) ma la correttezza procedurale dell'operazione, ivi compresa la sussistenza dell'imprescindibile nesso causale tra il progettato ridimensionamento e i singoli provvedimenti di recesso.
Massima

Costituisce principio consolidato (e adesso affermato anche dal legislatore con l'art. 30, L. 4 novembre 2010, n. 183) quello secondo cui in materia di licenziamenti collettivi per riduzione di personale, la L. n. 223/1991, nel prevedere agli artt. 4 e 5 la puntuale, completa e cadenzata procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilità, ha introdotto un significativo elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato ex post nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell'iniziativa imprenditoriale, concernente il ridimensionamento dell'impresa, devoluto ex ante alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione secondo una metodica già collaudata in materia di trasferimenti di azienda. I residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non riguardano più, quindi, gli specifici motivi della riduzione del personale (a differenza di quanto accade in relazione ai licenziamenti per giustificato motivo obiettivo) ma la correttezza procedurale dell'operazione, ivi compresa la sussistenza dell'imprescindibile nesso causale tra il progettato ridimensionamento e i singoli provvedimenti di recesso.

In presenza di un accordo collettivo conclusivo di una procedura di licenziamento collettivo che individui in maniera specifica l'ambito di operatività dei residui licenziamenti, il datore di lavoro deve ritenersi vincolato a tale accordo e non se ne può discostare.

Il caso

Le ordinanze in commento arrivano all'esito di una dibattuta vicenda, che ha portato al licenziamento collettivo di 1.666 lavoratori.

Il 21 marzo 2016, la Società datrice di lavoro (un famoso call center italiano) avviava una procedura per il licenziamento collettivo di 2.988 lavoratori, nelle sedi di Roma, Napoli e Palermo.

La procedura si concludeva in data 31 maggio 2016, con un accordo sindacale che prevedeva, al posto dei licenziamenti, la stipula di contratti di solidarietà, con l'impegno a raggiungere «un accordo (…) in merito alla gestione della qualità, della produttività e dell'analisi del contratto a livello individuale (...) entro sei mesi dalla sottoscrizione».

A dispetto di quanto concordato, nei mesi successivi, le parti sociali non aprivano alcun tavolo di confronto.

La Società, pertanto, in data 5 ottobre 2016, decideva di avviare una nuova procedura di riduzione del personale, riguardante il licenziamento di 2.511 lavoratori, di cui 1.666, presso l'unità produttiva di Roma, divisione 1 e 2 (che svolgevano attività in modalità inbound), e 845 (ovvero l'intera struttura), presso quella di Napoli. Tutti i lavoratori da licenziare svolgevano mansioni di operatore di call center c.d. inbound.

I licenziamenti erano motivati dalla perdurante crisi economica, che aveva comportato una riduzione delle attività della Società, con perdita di competitività e redditività.

Nel corso della procedura era stato proposto un differimento dei licenziamenti di tre mesi, al fine di trovare soluzioni alternative, con possibilità per la Società di richiedere la CIGS per crisi aziendale.

La procedura si concludeva con un verbale di accordo il 22 dicembre 2016, siglato dalle rappresentanze sindacali di Napoli; le RSU della sede di Roma, invece, non accettavano la proposta (peraltro condivisa in sede ministeriale) che prevedeva, a fronte dell'impegno della Società a non intimare licenziamenti fino al 31 marzo 2017, una riduzione del trattamento economico di base e del TFR di tutti i lavoratori.

Il verbale d'accordo stabiliva, inoltre, che per i licenziamenti del personale della sede di Roma si sarebbero applicati i criteri legali di individuazione dei licenziandi.

La Società, procedeva allora con i licenziamenti, limitando la platea dei destinatari alle sole divisioni addette all'attività di call center c.d. inbound della sede di Roma.

I lavoratori licenziati, ritenendo tale limitazione illegittima (o, finanche, ritorsiva) con diversi ricorsi, assegnati a giudici diversi, impugnavano i licenziamenti ottenendo esiti opposti.

La questione

Tra i ricorsi proposti, vi sono i due decisi con le ordinanze in commento. A dispetto di alcune differenze marginali, emerge come la questione più rilevante sottoposta al giudice sia, di fatto, la medesima.

In particolare, in entrambi i giudizi, i ricorrenti lamentano che la scelta dei lavoratori da licenziare avrebbe interessato solamente gli addetti alle due divisioni che svolgevano attività di call center in modalità inbound della sede di Roma, senza considerare gli altri reparti di Roma e senza considerare le altre sedi della Società, che svolgevano attività identica a quella dei lavoratori licenziati.

La scelta dei lavoratori da licenziare, cioè, non sarebbe avvenuta in relazione all'intero complesso aziendale, come previsto dall'art. 5, comma 1, L. n. 223/1991 ma solo in relazione alla sede romana. E ciò, senza che - a giudizio dei ricorrenti – fossero state fornite idonee giustificazioni rispetto a tale limitazione.

Il primo gruppo di ricorrenti, ravvisato nella suddetta scelta un vizio di procedura, concludeva chiedendo al Giudice, in via principale, di dichiarare illegittimo il licenziamento e di reintegrare i lavoratori, con la corresponsione dell'indennità prevista ai sensi dell'art. 18, comma 4, St. Lav.; in via subordinata, di condannare la Società convenuta al pagamento dell'indennità risarcitoria pari a 24 mensilità di retribuzione mensile globale di fatto.

Il secondo gruppo di lavoratori impugnava il licenziamento per sentirne dichiarare la ritorsività e/o discriminatorietà, prima ancora che l'illegittimità, inefficacia e/o invalidità.

I ricorrenti ravvisavano la ritorsività del provvedimento nel fatto che la Società avesse scelto di limitare i licenziamenti alla sola sede di Roma, dove non era stata accetta la proposta del datore di lavoro di ridurre la retribuzione dei lavoratori.

Sul punto, la Società convenuta replicava che l'ambito di applicazione dei licenziamenti era stato ristretto alla sola sede romana nel rispetto dell'accordo del 22 dicembre 2016, dove, con il consenso delle organizzazioni sindacali coinvolte, era stata inserita la seguente previsione: «la società procederà alla gestione dei relativi esuberi dichiarati nella comunicazione di avvio mediante l'applicazione per la medesima unità produttiva [cioè quella di Roma] dei criteri di scelta legali».

Pur ritenendo il rispetto dell'accordo assorbente, la Società sottolineava che la scelta di limitare i licenziamenti alla sola sede romana era legittima in ogni caso, in quanto assunta a fronte di valide ragioni tecnico-produttive e organizzative, indicate già nella comunicazione preventiva di cui all'art. 4, comma 2, L. n. 223/1991.

Ad avviso della convenuta, il richiamo al “complesso aziendale” ex art. 5, comma 1, L. n. 223/1991 non implicherebbe, infatti, il dovere di tenere in considerazione tutta la forza lavoro della società al momento di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare.

Nello specifico, la Società evidenziava che l'esigenza di limitare i licenziamenti ai soli operatori di call center c.d. inbound di Roma, era legittima in considerazione del fatto che “la diversa collocazione geografica delle altre unità produttive” rendeva solo teorica la fungibilità dei lavoratori (Cass. civ., sez. lav., n. 13705/2012). Ciò in quanto – nella fattispecie - lo spostamento ad altri incarichi del personale addetto a determinate mansioni, senza preventivo assenso del committente e senza formazione sulle commesse, rappresentava, oltre che un potenziale limite, anche un onere aggiuntivo, posto che la formazione necessitava, come minimo, di un impegno di 80 ore (cioè 4 settimane di lavoro per un lavoratore part time), onere di cui la Società – data la situazione di crisi - non avrebbe potuto farsi carico.

Le soluzioni giuridiche

Il primo Giudice si è pronunciato con ordinanza del 4 novembre 2017 e ha cominciato la sua analisi dalla comunicazione di avvio della procedura del 5 ottobre 2016, rilevando che non vi fossero motivi per ritenerla viziata, in quanto contenente tutti gli elementi necessari, secondo quanto previsto dall'art. 4, comma 3, L. n. 223/1991.

Anche la conseguente procedura sarebbe stata regolarmente espletata.

Il vaglio di legittimità del primo Giudice si ferma qui, poiché – come si legge nell'ordinanza – non potrebbero essere oggetto di accertamento giudiziale «le contestazioni di carattere sostanziale circa le scelte aziendali che hanno portato al licenziamento collettivo».

Il primo Giudice condivide, cioè, l'orientamento in base al quale nei licenziamenti collettivi, diversamente da quanto avviene in quelli individuali, possa essere sottoposta ad accertamento giudiziale solo la correttezza procedurale, in base alle previsioni di cui agli artt. 4 e 5, L. n. 223/1991. Ciò in quanto la ratio della norma sarebbe proprio quella di passare da un controllo giurisdizionale ex post, ad un controllo devoluto, ex ante, alle organizzazioni sindacali, che sono destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione (così, ad esempio, Cass. civ., sez. lav., n. 12588/2016, conf. a Cass. civ., sez. lav., n. 5700/2004).

Ne consegue, necessariamente, che lo spazio di controllo giudiziale debba ritenersi limitato all'analisi della correttezza procedurale dell'operazione, ivi compresa la sussistenza del nesso causale tra il progettato ridimensionamento e i singoli provvedimenti di recesso.

Nel caso di specie - scrive il Giudice - la comunicazione di avvio del procedimento conteneva una dettagliata illustrazione dei motivi economici che avevano determinato l'eccedenza di personale nelle unità produttive di Roma e Napoli, motivi che non avrebbero potuto essere valutati dal Giudice, anche a fronte della successiva acquisizione di nuove commesse. In particolare, la circostanza che la datrice di lavoro avesse stipulato nuovi rapporti di collaborazione autonoma, sarebbe stata irrilevante, in quanto i lavoratori autonomi non potrebbero essere comparati con i lavoratori subordinati a tempo indeterminato.

Il Giudice passa, quindi, ad esaminare la censura relativa alla limitazione dei lavoratori da licenziare alla sola sede di Roma, limitazione che l'ordinanza in esame giudica legittima, pur con alcune precisazioni.

In generale, la giurisprudenza di legittimità ammette che la platea dei lavoratori da licenziare possa essere limitata in base ad oggettive esigenze aziendali indicate nella comunicazione ex art. 4, comma 3, L. n. 223/1991, comunicazione che deve indicare anche le ragioni per cui non si ritiene di ovviare ai licenziamenti con il trasferimento dei lavoratori (Cass. civ., sez. lav., n. 13953/2015; Cass. civ., sez. lav., n. 4678/2015; Cass. civ., sez. lav., n. 203/2013; Cass. civ., sez. lav., n. 22655/2012).

Per altro profilo, la limitazione può afferire a specifici rami d'azienda, se caratterizzati da autonomia e specificità delle professionalità utilizzate, infungibili rispetto alle altre (Cass. civ., sez. lav., n. 6112/2014; Cass. civ., n. 2282/2009; Cass. civ., sez. lav., n. 7752/2006) o, ancora, la limitazione è stata ammessa solo quando gli addetti agli altri reparti siano portatori di specifiche professionalità non omogenee, che ne rendano impraticabile in radice qualsiasi comparazione, con la specificazione che spetta ai lavoratori l'onere di dedurre e provare la fungibilità delle diverse mansioni (Cass. civ., sez. lav., n. 18190/2016).

Nel caso di specie, a detta del primo Giudice, l'elemento dirimente era rappresentato dal fatto che le parti sociali avessero raggiunto un accordo, in cui la platea dei lavoratori da licenziare veniva espressamente individuata nella sola sede di Roma e che il datore di lavoro fosse vincolato al rispetto di quanto pattuito.

Il Giudice, cioè, avrebbe potuto sindacare il contenuto dell'accordo solo se i criteri di scelta individuati dalle parti sociali fossero stati contrari ai principi costituzionali e alle norme imperative, o discriminatori, o non uniformi al principio di razionalità e ragionevolezza (Cass. civ., sez. lav., n. 4186/2013, che riprende Corte cost. n. 268/1994).

La limitazione dei licenziamenti alle sole unità produttive di Roma coinvolte negli esuberi, invece, non avrebbe presentato profili di discriminazione, rispondendo a criteri di razionalità e ragionevolezza, come dedotto e documentalmente provato dalla Società convenuta.

Per quanto riguarda gli altri lavoratori della sede di Roma, infatti, da un lato, l'attività di ricerca di mercato c.d. outbound era stata affidata a collaboratori autonomi, non comparabili con quelli subordinati; dall'altro, la Direzione Generale svolgeva mansioni del tutto distinte da quelle degli operatori di call center, per cui, in assenza di prova della fungibilità - che avrebbe dovuto, come detto, essere fornita dai lavoratori - la comparazione nemmeno sarebbe stata possibile.

L'esclusione dei lavoratori di Napoli, invece, era stata prevista nell'accordo collettivo del 22 dicembre 2016 e la Società si era impegnata ad applicare misure alternative al licenziamento. E, ancora - considera il Giudice - se la Società avesse trasferito i lavoratori di Roma presso la sede di Napoli avrebbe dovuto applicare loro le condizioni previste nell'accordo sindacale ivi in vigore, benché tali condizioni fossero già state espressamente rifiutate dai lavoratori trasferiti.

Le medesime considerazioni valgono per la sede di Palermo, ove erano stati attivati, già a seguito della prima procedura di licenziamento, contratti di solidarietà e ammortizzatori sociali al fine di evitare licenziamenti. Anche il coinvolgimento dei lavoratori di Palermo nella seconda procedura di licenziamento, avrebbe comportato, pertanto, la violazione degli accordi intercorsi.

Le sedi di Catania, Milano e Rende, invece, non erano state coinvolte nella procedura per diverse ragioni, tra cui la necessità di trasferire i lavoratori in sedi geograficamente molto distanti; l'esigenza di formare il personale trasferito rispetto alle commesse seguite nelle altre sedi, con conseguente rallentamento delle attività produttive e, ancora, la conseguente necessità di una rotazione del personale, circostanza non gradita ai committenti.

In proposito, sottolinea il primo Giudice che, in base alla giurisprudenza della Suprema Corte, non assumerebbe rilievo, ai fini dell'esclusione dalla comparazione, la circostanza che il mantenimento in servizio di un lavoratore avrebbe reso necessario il suo trasferimento in altra sede, se i lavoratori delle varie sedi avessero avuto una equivalente professionalità e fossero stati, dunque, comparabili. Nel caso di specie, tuttavia, la Società, nella lettera di licenziamento, aveva previsto la possibilità di trasferirsi presso le sedi di Rende, Milano e Catania, ma il trasferimento era stato disposto solo per 17 lavoratori, che avevano accettato questa soluzione.

L'accordo sindacale aveva, dunque, limitato il ridimensionamento alla sola sede di Roma in modo ragionevole, atteso che, la collocazione geografica delle varie unità produttive aveva già consentito di escludere la disponibilità dei lavoratori al trasferimento.

Fatto, peraltro, ancora più evidente se si considera che i ricorrenti chiedevano, di essere reintegrati a Roma, confermando così l'indisponibilità a recarsi presso altre sedi.

In concreto, dunque, l'accordo collettivo non poteva far altro che prendere atto della peculiare realtà organizzativa e produttiva della Società, che rendeva del tutto impraticabile la strada dei trasferimenti e, di conseguenza, la comparabilità dei lavoratori di Roma con quelli delle altre sedi.

Per questi motivi, il Giudice della prima ordinanza, rigetta il ricorso.

Il Giudice della seconda ordinanza inquadra, invece, la problematica partendo dalla considerazione, in base alla quale, malgrado fosse, nella fattispecie, comprovata la sussistenza di una difficoltà economica dell'azienda, la Società avrebbe errato nel non chiarire le ragioni per cui i licenziamenti erano stati limitati alla sola sede di Roma, anziché all'intero complesso organizzativo aziendale, come richiesto dalla legge. E proprio in tale limitazione, il Giudice ha ravvisato la ritorsività del licenziamento, nel senso che – a giudizio del Tribunale - alla luce dei fatti accertati, l'unica ragione per cui i licenziamenti erano stati limitati alla sede romana, sarebbe stata riconducibile alla mancata accettazione da parte delle rappresentanze sindacali di Roma del trattamento previsto dall'accordo del 22 dicembre 2016, sottoscritto, invece, dai lavoratori della sede di Napoli.

Ciò, in linea con la recente giurisprudenza di legittimità, ai sensi della quale può essere ravvisato un licenziamento ritorsivo o discriminatorio (anche a prescindere dalla effettiva sussistenza di una crisi aziendale, cfr. Cass. civ., n. 4177/2015), anche se il datore prova le “ragioni oggettive” su cui si fonda il licenziamento (Cass. civ., sez. lav., n. 23149/2016; Cass. civ., sez. lav., n. 24445/2016).

In altri termini, il datore di lavoro avrebbe dovuto provare anche il motivo per cui le accertate “ragioni oggettive” sarebbero andate ad incidere proprio sulle posizioni lavorative dei lavoratori della sede di Roma: solo così si sarebbe potuta escludere la ritorsività del recesso (Cass. civ., sez. lav., n. 23149/2016).

Si legge nell'ordinanza che il datore avrebbe dovuto far riferimento all'intera organizzazione aziendale per individuare la platea dei lavoratori da licenziare (Cass. civ., sez. lav., n. 22329/2010; Cass. civ., sez. lav., n. 11918/2006; Cass. civ., sez. lav., n. 11660/2006). E «Ciò a maggior ragione, qualora i profili professionali evidenziati nella comunicazione di avvio come eccedentari risultino essere posseduti da un numero superiore di lavoratori rispetto a quelli appunto denunciati in esubero, adibiti a diversi reparti nel complesso aziendale e le cui mansioni siano concretamente fungibili» (Cass. civ., sez. lav., n. 10832/1997; Cass. civ., sez. lav., n. 25353/2009).

La limitazione dei lavoratori da licenziare ad una sola sede, infatti, non può essere basata su una scelta unilaterale del datore e deve essere giustificata, invece, in base alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative indicate nella comunicazione di cui all'art. 4, comma 3, L. n. 223/1991 quando, cioè, gli esposti motivi dell'esubero e le ragioni per cui lo stesso non può essere assorbito, conducono coerentemente a limitare la platea dei lavoratori oggetto della scelta ad un determinato settore o reparto (Cass. civ., sez. lav., n. 2255/2012).

Già in fase di avvio della procedura, dunque, dovrebbero emergere, in base all'art. 5, comma 1, L. n. 223/1991 «le esigenze tecnico produttive ed organizzative del complesso aziendale» in base alle quali la scelta dei lavoratori da licenziare possa essere effettivamente limitata ad una sola unità produttiva. Esigenze oggettive, dunque, che renderebbero impraticabile qualunque comparazione con i lavoratori del complesso aziendale” e che, a loro volta, devono essere provate dal datore (Cass. civ., sez. lav., n. 17119/2013).

Nel caso di specie, la scelta di limitare i licenziamenti alla sola sede romana sarebbe discriminatoria in quanto le ragioni esposte dalla Società nella comunicazione di avvio della procedura di licenziamento, non consentivano di limitare la scelta alle sole divisioni 1 e 2 di Roma. Nemmeno il consenso sindacale poteva, legittimare la scelta di licenziare solo gli operatori di call center c.d. inbound romani, in quanto - si legge nell'ordinanza - «in nessun modo il consenso sindacale può divenire lo strumento per attuare scelte obbiettivamente discriminatorie».

L'accordo sindacale, infatti, avrebbe potuto prevedere solamente dei criteri di scelta diversi da quelli legali; non, invece, derogare all'art. 5 comma 1, L. n. 223/1991 che impone di individuare i lavoratori da licenziare in relazione «all'intero complesso aziendale».

Il Giudice continua rilevando che, le ragioni formalmente addotte dalla società non possono dirsi, in ogni caso, provate.

La Società non avrebbe, anzitutto, contestato la circostanza dedotta in ricorso, in base alla quale i lavoratori sarebbero stati spesso spostati, in precedenza, da una commessa all'altra, con agilità e senza alcun rilievo o contestazione da parte dei committenti. Nemmeno risulterebbe contestata la circostanza per cui gli operatori si occupavano di commesse affidate anche ad altre sedi italiane e già in precedenza era successo che il personale fosse adibito ad una diversa commessa a seguito di un corso di sole 80 ore, senza generare particolari problemi.

Inoltre - e detto fattore è stato ritenuto ancora più grave - le commesse gestite a Roma prima dei licenziamenti sarebbero state semplicemente spostate su altre sedi, in cui, per converso, si rendeva necessario assumere nuovo personale.

Accertato quanto sopra, le ragioni organizzative dedotte dalla Società per limitare la scelta dei lavoratori da licenziare alla sola sede di Roma, sono state ritenute del tutto generiche e infondate, sicuramente non valide a circoscrivere la scelta dei licenziandi proprio a quella sede, che, in ultima analisi, si distingueva dalle altre sedi solo per il costo del lavoro.

La comparazione avrebbe dovuto essere, invece, svolta con riferimento a tutti gli addetti di tutte le sedi che svolgevano mansioni fungibili; a nulla sarebbe valso - a giudizio del Tribunale - il fatto che i lavoratori romani potessero rifiutare il trasferimento, in quanto «non si può escludere aprioristicamente che il lavoratore, all'esito della valutazione comparativa, preferisca una diversa dislocazione alla perdita del posto di lavoro» (Cass. civ., sez. lav., n. 18847/2016).

In conclusione, scrive il Giudice nella seconda ordinanza che «non è stata dedotta, né è mai emersa in questo giudizio, l'esistenza presso la sola sede di Roma di professionalità assolutamente specifiche e non comparabili, né fungibili con tutte le altre impiegate nelle diverse unità produttive», ragione questa che, se dedotta, sarebbe stata l'unica a poter giustificare la limitazione, in base alla giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., sez. lav., n. 6112/2014).

Atteso che la limitazione si sarebbe dunque fondata su ragioni non razionali, né ragionevoli, l'unico vero motivo della scelta datoriale sarebbe stato il (legittimo) rifiuto dei lavoratori di accettare la lesione dei loro diritti, in spregio all'art. 2103 c.c. e 36 Cost. e di altri precetti costituzionali.

Commenta il Giudice che la vicenda in esame lancerebbe «un messaggio davvero inquietante anche per il futuro e che si traduce comunque in una condotta illegittima perché attribuisce valore decisivo ai fini della scelta dei lavoratori da licenziare, pur se tramite lo schermo dell'accordo sindacale, ad un fattore (il maggiore costo del personale di una certa sede rispetto ad altre) che per legge è invece del tutto irrilevante a questo fine».

L'ordinanza, in conclusione, dichiara l'illegittimità del licenziamento e, per l'effetto, il suo annullamento, con la condanna della Società resistente a reintegrare i lavoratori e a corrispondere, a titolo di risarcimento danni, un'indennità pari a tutte le retribuzioni globali di fatto maturate dal licenziamento sino all'effettiva reintegra, dedotto l'aliunde perceptum, con versamento di contributi previdenziali e assistenziali.

Osservazioni

Il confronto tra le due ordinanze in esame offre numerosi spunti di riflessione in merito al valore dell'accordo sindacale e al potere di controllo giudiziale, rispetto alla procedura di licenziamento collettivo.

Come noto, con la L. n. 223/1991, si è passati da un sistema di controllo sui licenziamenti collettivi che veniva esercitato ex post, dal Giudice, ad un controllo ex ante, riservato alle organizzazioni sindacali. Il controllo giudiziale, oggi, dovrebbe, dunque, essere limitato alla correttezza procedurale dell'operazione, compresa la verifica della sussistenza del nesso di causa tra la riduzione dell'organico e i singoli licenziamenti.

Il secondo Giudice, invece, pare superare l'accordo delle parti sociali, sostenendo che lo stesso sarebbe viziato, in quanto le ragioni esposte dalla Società nella comunicazione di avvio della procedura di licenziamento, non avrebbero consentito una limitazione nella scelta dei lavoratori da licenziare nei termini di fatto avvenuti; ci pare, però, che, il Giudice si basi su una valutazione che si colloca a monte della comunicazione stessa e si sostituisce alle scelte della Società, avvallate dalle parti sociali.

Come sopra riportato, per giurisprudenza consolidata, la comunicazione di avvio del procedimento può limitare i lavoratori da licenziare ad una specifica sede solo se vi siano delle oggettive esigenze tecnico-produttive ed organizzative, che portino a circoscrivere la necessità di ridimensionamento ad una sola unità produttiva o settore (così, ex multis, Cass. civ., sez. lav., n. 6112/2014; Cass. civ., sez. lav., n. 2255/2012). Ad esempio, se – come lo stesso Giudice ricorda - gli addetti al reparto siano portatori di specifiche professionalità, che li rendono incomparabili con i lavoratori di altri reparti. Se, però, siffatte esigenze non vengono indicate, va applicato l'art. 5, comma 1, L. n. 223/1991 e la comparazione va svolta tra tutti i lavoratori del “complesso aziendale”. Per altro profilo, come detto, i costi aggiuntivi (tra cui quelli connessi al trasferimento del personale) non sarebbero contemplati tra i parametri di cui all'art. 5, comma 1, L. n. 223/1991.

Nella fattispecie, con la comunicazione di avvio della procedura, la Società aveva fornito una serie di motivazioni per cui intendeva limitare i lavoratori da licenziare alle sole sedi di Roma, unità 1 e 2, e Napoli. Tra queste motivazioni vi era, da un lato, il fatto che gli operatori di call center c.d. inbound non fossero comparabili con le altre professionalità impiegate a Roma; d'altro lato, il fatto che non fossero comparabili con le realtà di Napoli e Palermo, dove erano stati già concordati dei contratti di solidarietà; da un altro lato ancora, il fatto che non fossero comparabili con le sedi di Milano, Rende e Catania, in quanto ci sarebbe stata la necessità di trasferire i lavoratori in sedi geograficamente molto distanti, di formare il personale trasferito rispetto alle commesse seguite in tali sedi, con conseguente rallentamento delle attività produttive e rotazione del personale, circostanze non gradite ai committenti.

Queste motivazioni erano state sostanzialmente condivise dalle organizzazioni sindacali, che le avevano recepite nel successivo accordo, limitando il ridimensionamento alla sola sede di Roma, sulla base delle indicate ragioni tecnico-produttive e organizzative.

In generale, l'accordo sindacale ha efficacia sanante rispetto ad ogni eventuale vizio della comunicazione, come confermato dell'art. 4, comma 12, L. n. 223/1991 che, a seguito della novella intervenuta ad opera dell'art. 1, comma 45, L. n. 92/2012, prevede oggi espressamente «Gli eventuali vizi della comunicazione di cui al comma 2 del presente articolo possono essere sanati, ad ogni effetto di legge, nell'ambito di un accordo sindacale concluso nel corso della procedura di licenziamento collettivo».

Il lavoratore potrebbe, pertanto, ottenere un riesame giudiziale sulla comunicazione di avvio della procedura, solo ove le ragioni indicate dal datore di lavoro fossero del tutto fuorvianti e non veritiere, tanto da eludere l'esercizio del potere di controllo devoluto dalla legge alle organizzazioni sindacali (ex multis, Cass. civ., sez. lav., n. 20436/2015; Cass. civ., sez. lav., n. 5582/2012; Cass. civ., sez. lav., n. 5034/2009).

Non spetterebbe, quindi, al Giudice valutare le motivazioni addotte dal datore di lavoro nella comunicazione di avvio della procedura, salvo verificarne la veridicità.

Con riferimento alla fattispecie in esame, ci pare – invece – che il Giudice sia entrato nel merito delle ragioni addotte dalla Società, giudicandole “non razionali, né ragionevoli”.

Ma, così facendo, ci pare essersi discostato non solo dalla giurisprudenza maggioritaria sul punto, ma anche dalle intenzioni del legislatore, volte a dar sempre maggior valore alla co-gestione della crisi aziendale ad opera delle parti sociali, che, nella fattispecie, avevano già esaminato la vicenda, senza mai far valere un vizio di informazione rispetto alla vicenda.

Se, dunque, da un lato, facendo riferimento solo alla comunicazione di avvio della procedura, il Giudice esclude dal suo ragionamento l'accordo raggiunto dalle parti sociali, dall'altro, non si può negare che proprio l'accordo sindacale diventi il fulcro della discussione, dal momento che lo stesso di fatto ha avvallato le ragioni addotte dalla Società.

Da quanto si legge nell'ordinanza, ovvero che «In nessun modo il consenso sindacale può divenire lo strumento per attuare scelte obiettivamente discriminatorie», si deve necessariamente concludere che il Giudice abbia ritenuto la scelta datoriale di limitare i licenziamenti ad alcune delle sedi discriminatoria e ritorsiva, benché tale scelta fosse stata avvallata dalle organizzazioni sindacali.

Ciò, malgrado il fatto che, in base alla giurisprudenza costante sul punto, il sindacato giudiziale avrebbe potuto interessare non già le motivazioni datoriali a monte dell'accordo, ma solo il contenuto dell'accordo e solo la contrarietà dei criteri di scelta individuati dalle parti fossero ai principi costituzionali e alle norme imperative, o la loro discriminatorietà o, ancora, la non conformità al principio di razionalità e ragionevolezza (Cass. civ., sez. lav., n. 4186/2013, che riprende Corte cost. n. 268/1994).

A ben vedere, però, nella fattispecie non si controverte sull'individuazione dei criteri di scelta ad opera delle parti. Quelli utilizzati - in particolare, il criterio tecnico-organizzativo e produttivo - sono i criteri legali e vengono applicati solo alla sede romana in base ad una valutazione relativa alle esigenze aziendali espressa nella comunicazione di avvio del procedimento.

Risulta che la Società avesse diffusamente spiegato le ragioni per cui riteneva di limitare la ristrutturazione ad alcune sedi e che non fossero state sollevate obiezioni dalle parti sindacali. Aveva, quindi, coerentemente ricollegato la mancata comparazione dei lavoratori della sede di Roma a quelli di altre sedi proprio alle ragioni dedotte nella comunicazione di avvio del procedimento, nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede. L'applicazione del criterio tecnico – organizzativo e produttivo ai lavoratori della sede di Roma aveva, infine, consentito la corretta individuazione dei lavoratori da licenziare.

In base alla giurisprudenza di legittimità, il criterio legale delle esigenze tecnico-produttive ben «può giustificare la decisione dell'imprenditore di effettuare la selezione dei lavoratori da assoggettare a un licenziamento collettivo solo nell'ambito dell'unità produttiva o del settore aziendale interessati alla ristrutturazione cui è collegata la riduzione del personale» (Cass. civ., sez. lav., n. 12711/2000; Cass. civ., sez. lav., n. 26376/2008).

In ordine all'applicazione dei criteri di scelta, pertanto, l'operazione ci pare corretta.

Il secondo Giudice ha, però, ritenuto insufficienti le motivazioni addotte dalla Società a giustificazione della limitazione effettuata con riferimento alla sola sede di Roma, giungendo a concludere che l'unica vera ragione sarebbe stata riconducibile alla mancata accettazione da parte delle rappresentanze sindacali di Roma del trattamento economico (sfavorevole) previsto dall'accordo del 22 dicembre 2016, sottoscritto, invece, dai lavoratori della sede di Napoli. Conseguentemente, il licenziamento dei lavoratori della sede di Roma, sarebbe configurabile come ritorsivo.

Alla luce di quanto sopra esposto, ci pare che la decisione di questo Giudice, diversamente dall'altra esaminata, vada a collocarsi oltre i limiti del sindacato giurisdizionale stabilito dalla norma di legge; che vada, cioè, ad ingerirsi nel merito delle scelte e delle ragioni evidenziate dall'azienda, benché le stesse fossero già state sottoposte al giudizio delle organizzazioni sindacali intervenute.

Ciò rischia di generare un contrasto giurisprudenziale anche sull'efficacia sanante dell'accordo sindacale rispetto alla comunicazione di avvio del procedimento, che finirebbe per mettere in dubbio la certezza stessa della previsione normativa.

Decisive saranno, perciò, le prossime decisioni in materia.