La clausola del beneficiario effettivo si riverbera anche in assenza di specifica menzione nella Convenzione bilaterale
05 Aprile 2018
Massima
La clausola del beneficiario effettivo si qualifica come norma generale anti-abuso volta a contrastare fenomeni di interposizione fittizia di un soggetto terzo tra l'erogante dei redditi e l'effettivo beneficiario degli stessi, al solo scopo di trarne indebiti vantaggi fiscali. Il principio trova applicazione anche in assenza di una specifica disposizione pattizia tra gli Stati contraenti.
Spetta quindi al contribuente provare la sussistenza dei presupposti di fatto atti a qualificare il percipiente quale effettivo beneficiario delle somme incassate, non potendosi ritenere adeguata ai fini probatori una formale dichiarazione di residenza della controparte né, dall'altro lato, potendosi integrare in ogni caso una generale presunzione di elusività per il fatto che al vertice di un'operazione finanziaria sia posta una società residente in uno stato a fiscalità privilegiata. Il caso
Il caso de quo trae origine dal ricorso di una società residente in Italia contro gli avvisi di accertamento notificati per i periodi d'imposta 2007 e 2008 con i quali l'amministrazione finanziaria contestava la mancata applicazione delle ritenute previste nell'ambito dell'art. 26, comma 5 del D.P.R. 600/73 sull'importo degli interessi corrisposti ad una società ungherese in relazione ad un finanziamento che promanava, ab origine, da un'altra società del gruppo localizzata presso le isole Bermuda. Secondo l'Agenzia delle Entrate la società ungherese si configurava quale soggetto interposto al solo scopo di beneficiare del favorevole regime fiscale previsto dalla Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia ed Ungheria, dove l'art. 11 attribuisce al paese di residenza del soggetto percettore del reddito esclusiva facoltà impositiva sugli interessi pagati dalla mutuataria, senza subordinare tale condizione ad alcuna previsione in materia di beneficiario effettivo. Per questa ragione l'amministrazione finanziaria riprendeva la mancata applicazione della ritenuta del 27% sugli interessi “in uscita” dal territorio dello Stato, secondo la disciplina in vigore all'epoca dei fatti.
Il contribuente proponeva ricorso presso la CTP fondando le proprie motivazioni sul presupposto che la Convenzione in parola non subordinasse l'esenzione in epigrafe ad alcuna condizione sostanziale per la quale il percipiente del reddito avrebbe dovuto anche configurarsi quale beneficiario effettivo delle somme ricevute. Di contro, l'Ufficio, costituendosi in giudizio ribadiva che il beneficio convenzionale avrebbe potuto riconoscersi solo qualora il suddetto requisito fosse stato integrato. I giudici di prime cure avevano risolto la questione prevedendo che il mancato inserimento di una specifica clausola del beneficiario effettivo nel trattatotra Italia ed Ungheria dovesse essere interpretato come una manifestazione di volontà delle parti di non subordinare il riconoscimento dei benefici convenzionali ad alcuna disciplina anti-abuso. L'Agenzia delle Entrate proponeva appello presso la CTR del Piemonte: ciò nondimeno, anche il secondo grado di giudizio confermava, nella sostanza, il verdetto espresso dal precedente collegio di merito, pur valorizzando le proprie conclusioni con argomenti differenti, più articolati e, soprattutto, convincenti. La questione
Con la sentenza commentata si arricchisce il novero degli interventi giurisprudenziali sulla controversa questione concernente il ruolo e l'interpretazione della clausola del beneficiario effettivo nell'ordinamento tributario internazionale. In quanto al secondo punto, possiamo già affermare che diffusa giurisprudenza (soprattutto di legittimità) ha pacificamente statuito che, nel riconoscimento dello status di beneficiario effettivo, l'attenzione debba essere posta sull'assenza di obblighi di retrocessione di natura contrattuale o legale delle somme percepite da altre persone piuttosto che sul potere di gestione e coordinamento sul bene o investimento da cui promana il flusso reddituale in questione. In tal modo è stata superata anche pregressa giurisprudenza di merito che, ricalcando l'orientamento adottato anche dai giudici di prime cure nella sentenza commentata, aveva riconosciuto che la certificazione di residenza proveniente dal fisco estero fosse condizione sufficiente per accedere ai benefici convenzionali. Diversa è la questione attinente al ruolo della clausola del beneficiario effettivo in assenza di una specifica previsione normativa all'interno di una convenzione bilaterale. Le soluzioni giuridiche
In relazione a quest'ultimo aspetto, i giudici di seconde cure hanno risolto la questione con un pieno rimando ai principi statuiti con la pronuncia della Cass. Civ. 16 dicembre 2015,n. 25281 su un caso concernente l'uso della normativa in materia di Controlled Foreign Companies (Cfc) nei rapporti tra una società italiana e la controllata estera localizzata a Cipro. Nella sentenza citata, i giudici di Piazza Cavour hanno posto l'accento sulla funzione della clausola del beneficiario effettivo nella prassi internazional-tributaria, partendo dalla sua introduzione nel modello Convenzionale Ocse del 1977 (nda: quindi, antecedentemente all'entrata in vigore della Convenzione tra Italia e Ungheria del 1 dicembre 1980) quale forma di contrasto a pratiche di pianificazione fiscale aggressiva su talune forme di passive income (originariamente, limitata a dividendi ed interessi), in modo tale da evitare ipotesi di “traslazione impropria dei benefici convenzionali” in situazioni nelle quali, altrimenti, i soggetti richiedenti “non ne avrebbero avuto diritto o, comunque, avrebbero subito un trattamento fiscale meno favorevole”. In questo caso la questione del ruolo della clausola del beneficiario effettivo è stata affrontata in relazione all'art. 31 della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati, per cui “un trattato deve essere interpretato in buona fede in conformità al senso ordinario da attribuire ai termini del trattato, nel loro contesto e alla luce dell'obiettivo e scopo del trattato medesimo”. Viene dunque riconosciuto quel principio immanente proprio dell'ordinamento fiscale internazionale per cui nell'interpretazione dei trattati bilaterali non si può derogare alle finalità poste dalle Convenzioni, volte ad evitare fenomeni di doppia imposizione ma anche a prevenire forme di evasione fiscale, pur in ”assenza di una menzione esplicita della clausola del beneficiario effettivo” che “non pare affatto idonea a porre nel nulla il fondamentale rilievo antiabuso che tale clausola possiede nell'ordinamento fiscale internazionale”.
Partendo da questi principi, i giudici piemontesi hanno quindi argomentano le proprie conclusioni andando “oltre” il citato rilievo fondamentale anti-abuso posto dalla clausola del beneficiario effettivo nell'ordinamento tributario internazionale. Ovvero, pur in assenza di una specifica menzione della clausola nella Convenzione tra Italia e Ungheria, i giudici hanno ritenuto di qualificare ad ogni modo la società ungherese quale beneficiaria effettiva degli interessi passivi percepiti dalla società italiana, valorizzando una serie di elementi probatori emersi nel corso del procedimento, tra cui si citano: le informazioni raccolte dalle autorità fiscali estere sul ruolo della società ungherese nel progetto denominato “Italian financing”, lo sfasamento temporale tra i flussi finanziari in entrata/uscita tra la società delle isole Bermuda e la società ungherese (e, da questa, verso la società italiana) che denotavano un certo grado di indipendenza intersocietaria sull'operazione in questione, la diversità delle metodologie di pagamento delle somme erogate e/o rimborsate tra le varie società, finanche il margine positivo di intermediazione realizzato dalla società ungherese come differenza tra i tassi corrisposti alla società paradisiaca e quelli praticati alla società italiana Osservazioni
La sentenza commentata pone nuovamente un problema interpretativo sulla portata della clausola del beneficiario effettivo all'interno dello scenario internazional-tributario. In via specifica si ritiene di poter accogliere con favore l'approccio mantenuto dai giudici di seconde cure, che valorizzano il dato fattuale del caso analizzato evitando di cadere nell'errato esercizio di attribuire in ogni caso al soggetto da cui promana la fonte originaria del flusso reddituale (in questo caso, la società localizzata presso le isole Bermuda) la titolarità finale delle somme maturate. Malgrado ciò, in via generale l'orientamento adottato dalla Corte non sembra pienamente condivisibile nel momento in cui conferisce alla clausola del beneficiario effettivo forza di generale disposizione antielusiva.
A parere di chi scrive, questa tesi è oltremodo avvalorata dall'introduzione, a livello Ocse, di uno standard anti-abuso per prevenire fenomeni di “treaty shopping”: con il nuovo art. 29 (Entitlement to benefits) nella versione 2017 del modello Convenzionale e con l'art. 7 (Prevenzione dell'abuso dei trattati) della Convenzione Multilaterale siglata lo scorso 7 giugno a Parigi. L'Italia, nello specifico, ha optato per la de-minimis rule nella forma di principle purpose test, per cui il riconoscimento di un beneficio convenzionale è subordinato alla condizione che uno degli obiettivi fondamentali della transazione posta in essere non sia quello di trarre vantaggi fiscali dalla disposizione pattizia. Confermando, indirettamente, che al momento non è individuabile una clausola generale anti-abuso nell'ordinamento convenzionale. Altrimenti non sarebbe stato necessario prevedere un nuovo standard che, sui trattati già in vigore, sarà operativo una volta concluso il processo di deposito degli strumenti di ratifica della Convenzione Multilaterale sui Covered Tax Agreements individuati dai singoli Stati partecipanti, restituendo così alla clausola del beneficiario effettivo il suo ruolo “naturale” di specifica norma anti-abuso con riguardo agli articoli 10, 11 e 12 del modello Convenzionale (sul punto, si segnala anche il Commentario 2017 con l'articolo 1, paragrafo 63). |