Risarcibilità delle due componenti della sofferenza umana

12 Aprile 2018

Sono sempre risarcibili il danno morale e quello esistenziale in caso di lesione di qualsiasi diritto dotato di copertura costituzionale?
Massima

Ogni lesione di interessi tutelati dalla Costituzione giustifica il risarcimento sia del danno esistenziale-relazionale, sia di quello morale.

Il caso

Il ricorrente, vittima di un sinistro stradale per essere stato investito da un'auto mentre conduceva il suo scooter, aveva lamentato la violazione di legge da parte della Corte d'appello, a causa del mancato risarcimento, tra gli altri, del danno esistenziale subito a causa dell'evento.

La questione

Sono sempre risarcibili il danno morale e quello esistenziale in caso di lesione di qualsiasi diritto dotato di copertura costituzionale?

Le soluzioni giuridiche

La suprema Corte ha rigettato il ricorso, osservando che il giudice d'appello nella “personalizzazione del danno non patrimoniale” aveva già adeguatamente considerato, seppure per implicito, “tutte le sue componenti”.

Attraverso il richiamo delle c.d. sentenze di San Martino (Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008, nn. 26972, 26973, 26974 e 26975), vengono ripresi i concetti di unitarietà e omnicomprensività del danno non patrimoniale. Il primo per spiegare che non c'è alcuna differenza nell'accertamento e liquidazione del danno da lesione di diritti costituzionalmente protetti e diversi da quello alla salute (ad es. reputazione, libertà sessuale, riservatezza, rapporto parentale ecc.); il secondo per ricordare che nella liquidazione del danno non patrimoniale il giudice deve tener conto di tutte le conseguenze pregiudizievoli prodotte dall'evento dannoso. Su questa premessa, con un linguaggio un po' enfatico e ridondante la sentenza segnala al giudice la via da seguire per accertare e liquidare correttamente il danno alla persona.

Va evitato «il ricorso ad astratte tassonomie classificatorie», dovendosi invece considerare la «reale fenomenologia del danno alla persona», così da prevenire il rischio «di sostituire una (meta)realtà giuridica ad una realtà fenomenica». Viene propugnata una lettura delle note sentenze del 2008 «prima ancora che secondo una logica interpretativa di tipo formale-deduttivo, attraverso una ermeneutica di tipo induttivo»; e ciò per l'identificazione della situazione soggettiva costituzionalmente protetta, la cui lesione giustifichi l'analisi giudiziale sia dell' «aspetto interiore del danno (la sofferenza morale)», sia «del suo impatto modificativo in pejus con la vita quotidiana (il danno c.d. esistenziale, in tali sensi rettamente inteso, ovvero, se si preferisca un lessico meno equivoco, il danno alla vita di relazione)».

A fronte della lesione di un diritto tutelato dalla Costituzione, la «reale natura e la vera, costante essenza del danno alla persona» vanno rinvenuti tanto nella «sofferenza interiore», quanto nelle «dinamiche relazionali di una vita che cambia». Tale analisi fa individuare distintamente «due aspetti essenziali della sofferenza: il dolore interiore e/o la significativa alterazione della vita quotidiana».

Si tratta di «danni diversi e perciò solo entrambi autonomamente risarcibili» sulla base di distinti accertamenti. Difatti, da un lato va verificato il «vulnus arrecato alla vita di relazione del soggetto», mentre «altra e diversa indagine andrà compiuta in relazione alla patita sofferenza interiore».

Conclusivamente, ogni lesione di interessi costituzionalmente protetti comporta una «doppia dimensione del danno relazionale/proiezione esterna dell'essere, e del danno morale/interiorizzazione intimistica della sofferenza».

La conferma che il danno non patrimoniale presenta tale, costante “morfologia” si trova nella sentenza n. 235/2014 della Corte Costituzionale; la quale osserva che l'art. 139 cod. ass., pur non menzionando il danno morale, ne può legittimare il risarcimento. Nel rimarcare che tale norma «non è … chiusa … alla risarcibilità anche del danno morale», la Corte chiarisce che, in presenza dei relativi presupposti il giudice ben può incrementare la misura del danno biologico, seppure nei limiti fissati dal comma 3. Nel fissare il tetto del 20 per cento, la norma non incrina il principio dell'integralità del risarcimento del danno alla persona, ma attua un contemperamento di interessi che giustifica la ragionevolezza della disciplina in chiave costituzionale. Infatti all'interesse risarcitorio particolare del danneggiato si giustappone l'interesse generale degli assicurati ad avere un livello accettabile e sostenibile di premi assicurativi nel campo dell'assicurazione della responsabilità civile da circolazione di veicoli. Nel ragionamento della Corte Costituzionale, la percentuale del 20 per cento rappresenta la quantificazione concreta di tale contemperamento.

Pertanto la sentenza in esame, con una certa solennità, muovendo dal rilievo che le «sovrastrutture giuridiche» non possono «sovrapporsi alla fenomenologia del danno alla persona», sottolinea che anche nell'ambito delle micropermanenti resta ferma la distinzione concettuale tra sofferenza interiore e incidenza sugli aspetti relazionali della vita del soggetto. Una distinzione ripresa con insistenza e singolare sovrabbondanza lessicale, laddove si parla ad es. di «proiezione tutta (e solo) esterna al soggetto, un vulnus a tutto ciò che è ‘altro da se' rispetto all'essenza interiore della persona».

A definitiva conferma di questa ineluttabile “morfologia” del danno non patrimoniale, la suprema Corte richiama l'art. 138, comma 2, lett. e, cod. ass., che prevede l'incremento della quota corrispondente al danno biologico (stabilita secondo i criteri di cui alle lett. a, b, c, d), al fine di considerare la «componente del danno morale».

Osservazioni

Seppure con un eccesso di enfasi, la sentenza rimarca giustamente l'esigenza che il giudice, nell'accertamento e liquidazione del danno alla persona, analizzi tutti i pregiudizi concretamente derivati dall'illecito, nessuno escluso; e ciò a prescindere dalle qualificazioni e classificazioni in tema di danno. Ciò che rileva ai fini del risarcimento è la sostanza del pregiudizio effettivamente subito dalla vittima, al di là dell'intitolazione del profilo di danno prospettato in causa. Le costruzioni dogmatiche e classificatorie non devono fare velo in alcun modo all'oggetto della valutazione giudiziaria: la sofferenza umana derivante dalla lesione di un valore costituzionalmente protetto. Ciò che conta è la “semplice realtà naturalistica” leggibile dal giudice nei casi di danno alla persona, cosicché la ricerca della sua essenza non venga alterata o ‘inquinata' da schematismi teorici o vincoli definitori.

Perciò rilevano esclusivamente l'allegazione e prova degli specifici elementi fattuali idonei a dare conto, rispettivamente su base presuntiva o documentale o tecnica (CTU) o testimoniale, dell'effettività dei pregiudizi. Va riposta la massima attenzione nella puntuale descrizione degli elementi di fatto variamente rivelatori dei risvolti dannosi, poiché se dall'istruzione probatoria emerge l'effettività del pregiudizio, l'eventuale errore attoreo nella qualificazione del tipo di pregiudizio è affatto irrilevante (per tutte, Cass. civ., 17 luglio 2012, n. 12236).

Non si contano oramai le pronunce di legittimità che sottolineano a tinte forti, quasi con forza didattica, la necessità di adempiere puntualmente l'onere di allegazione, e cioè di illustrare con accuratezza le circostanze di fatto che delineano la vicenda dannosa. Soltanto il corretto adempimento di tale onere può legittimare il giudice all'apertura dell'istruzione probatoria. È appena il caso di rammentare che l'attività istruttoria non può in alcun modo surrogare le carenze assertive, sicché per es. i quesiti della CTU medico-legale vanno formulati mantenendosi rigorosamente nel perimetro delle affermazioni in fatto delle parti; non di rado è necessario indirizzare correttamente quei medici legali inclini – nel segno di una sorta di indebito giustizialismo risarcitorio – ad allargare lo spettro di indagine a profili di danno affatto estranei al thema decidendum come perimetrato dall'insieme delle allegazioni.

Per cogliere eventuali, indebite duplicazioni risarcitorie non ci si deve arrestare così alle ‘etichette' apposte sui differenti profili del danno sia dalle parti, sia dal giudice di merito; si è ripetutamente chiarito che in tema di liquidazione del danno non patrimoniale,al fine di stabilire se il risarcimento sia stato duplicato o erroneamente sottostimato, «rileva non il nome assegnato dal giudicante al pregiudizio lamentato dall'attore (biologico, morale, esistenziale) ma unicamente il concreto pregiudizio preso in esame dal giudice. Si ha pertanto duplicazione di risarcimento solo quando il medesimo pregiudizio sia stato liquidato due volte, sebbene con l'uso di nomi diversi» (per tutte, Cass. civ., 2 aprile 2012, n. 5230).

Proprio perché va assicurata sempre l'integralità del risarcimento del danno alla persona – trattandosi oramai di principio di portata generale –, ciascuno dei concreti risvolti pregiudizievoli che di volta in volta ne formano il contenuto deve trovare ristoro giudiziale. Quasi a dissipare i frequenti equivoci sulla portata pratica della degradazione delle varie categorie di danno a voci con valenza solo descrittiva – onde prevenire il timore di una conseguente degradazione risarcitoria –, si ripete sistematicamente che il giudice deve accertare «l'effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione»; e si ricorda con insistenza che il giudice deve«tenere conto dei diversi aspetti in cui il danno si atteggia nel caso concreto» (per tutte, Cass. civ., 26 maggio 2011, n. 11609).

Con la sentenza in commento, come visto, la Cassazione descrive variamente le due ‘facce' della sofferenza umana, riconoscibili in ogni ipotesi di lesione di valori costituzionalmente protetti.

L'affermata generalizzazione di questo duplice risvolto risarcitorio però non basta a guidare il giudice nella liquidazione del danno alla persona. Accertamento e liquidazione del danno non patrimoniale sono «questioni concrete e non astratte», come ricorda giustamente la stessa sentenza in esame, che però lascia irrisolto il vero problema della liquidazione del danno esistenziale o morale ‘abbinato' al biologico.

La questione della rilevanza di una voce di danno come categoria autonoma o meno ha un'indubbia dignità teorico-sistematica (S. PATTI, Il danno, in Diritto Privato, Milano, 2016, 821 ss.), ma non è evidentemente decisiva sul piano della quantificazione risarcitoria. Spesso l'attribuzione della ‘patente' di autonomia a questa o quella voce di danno non comporta nessuna conseguenza pratica e contribuisce solo ad alimentare un dibattito per certi versi stucchevole.

In pratica non cambia nulla se si raggiunge la stessa cifra sommando le liquidazioni autonome corrispondenti alle varie voci di danno, ovvero ‘personalizzando' la liquidazione principale del danno biologico in ragione della rilevanza di tutte le conseguenze pregiudizievoli concretamente derivate. E' indifferente che si pervenga alla quantificazione risarcitoria conclusiva (ad es. 10) aggiungendo alla voce danno biologico (8) la distinta voce danno morale (2), piuttosto che incrementando per personalizzazione l'unica voce del biologico (da 8 a 10). Ferma la rilevanza dogmatica della distinzione tra liquidazioni autonome e personalizzazione in aumento dell'unica liquidazione, sul piano della tutela della vittima non cambia nulla: con un metodo o l'altro le viene risarcito un danno di 10.

È invece decisivo accertare quali tra i pregiudizi concretamente verificatisi debbano ritenersi già ricompresi nel grado di invalidità permanente che i barémes medico legali associano alle menomazioni. Le Sezioni Unite hanno ben spiegato che nel danno biologico sono già ricompresi i pregiudizi attinenti agli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato (Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972). È un'affermazione coerente con la ‘lettura' che del danno biologico dà la medicina legale, la quale pone costantemente l'accento sulla compromissione delle attività ordinariamente svolte dalla vittima (il profilo dinamico-relazionale). È questa la via maestra che permette davvero di evitare sovrapposizioni e duplicazioni risarcitorie.

Lo evidenzia con la consueta, straordinaria lucidità Marco Rossetti (Il danno alla salute, Milano, 2017): bisogna valutare, con riguardo alle attività compromesse, quali siano le conseguenze pratiche inevitabili di una certa invalidità permanente. Infatti la misura percentuale indicata dai barémes medico legali non è altro che la rappresentazione sintetica dell'insieme di limitazioni e disfunzioni subite dal soggetto nel suo modo di essere; corrisponde alla misura della compromissione delle attività quotidiane, sintetizza entità e portata delle conseguenze negative nella vita della vittima a causa della menomazione – per es. la percentuale di invalidità correlata alla perdita di funzionalità di un arto inferiore esprime la compromissione della capacità di camminare e correre, sicché costituirebbe duplicazione risarcitoria il riconoscimento di una voce di danno (‘esistenziale' o ‘relazionale') ulteriore rispetto al biologico per tale limitazione –.

Anche sul fronte del ‘danno morale', ciò che davvero rileva in concreto non è la sua qualificazione come voce autonoma o meno. È invece la distinzione tra i pregiudizi morali necessariamente ricompresi nel grado di invalidità permanente espresso dal baréme medico legale concretamente utilizzato e quelli che ne sono estranei (sicché vanno monetizzati a parte). A seconda della menomazione considerata nel baréme di riferimento, il correlato grado di invalidità permanente può includere o meno alcune o tutte le sofferenze morali causalmente collegate alla lesione.

Per esempio, la percentuale di invalidità permanente correlata a un certo sfregio del volto è fissata nei barémes medico legali considerando le conseguenze normali e ordinarie di tale menomazione: cioè il comprensibile disagio nei rapporti con gli altri e la sofferenza morale per il peggioramento estetico. Dunque la liquidazione del danno biologico deve esaurire la pretesa risarcitoria. Non così invece se la menomazione deriva da un'aggressione animale, perché in tal caso il pregiudizio morale da spavento non può ritenersi ragionevolmente incluso nella percentuale di invalidità correlata a quel tipo di menomazione nei barémes. E allora il danno biologico va incrementato a causa di tale pregiudizio morale (Rossetti, cit., 795).

L'indifferenziata correlazione del duplice profilo risarcitorio – sofferenza interiore e alterazione della vita relazionale – a tutti i casi di lesione di un diritto a copertura costituzionale dovrebbe però suggerire grande prudenza in sede applicativa; soprattutto in questi tempi, così ricchi di giurisprudenza risarcitoria ‘generosa' e assai fantasiosa. A fronte di forzature risarcitorie rinvenibili in certa giurisprudenza di merito incline a individuare ‘coperture costituzionali' anche per interessi concretamente risibili, vengono in mente certe ‘feroci' e autorevoli critiche dottrinali alla lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. da parte della Cassazione. Non certo per confutare la consolidata scelta giurisprudenziale di intendere il rinvio dell'art. 2059 c.c. come riferito anche alle previsioni della legge fondamentale sui diritti inviolabili della persona, pur se non espressamente sanciti (art. 2 Cost.); ma per tener ben presente il rischio concreto che la certezza del diritto possa venir surrogata dalle “pulsioni interpretative del giudice”, talora incline a risarcire il danno semplicemente invocando una norma costituzionale in qualche modo collegata al sentire sociale, anche quando il collegamento è molto vago. E rimanda alla sagace metafora riportata dalla dottrina in parola nel censurare icasticamente la manipolazione giurisprudenziale dell'art. 2059 c.c.; laddove rinvia alla fulminante immagine del grande Satta, secondo cui la Costituzione «fa in molti giuristi l'effetto che su Don Chisciotte facevano i libri di Cavalleria» (F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2017, 740 ss.).

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