Non basta il vincolo di parentela per presumere l'esistenza di una società di fatto

19 Aprile 2018

La semplice messa a disposizione di beni aziendali, per consentire l'esercizio di un'attività di impresa, in assenza di ulteriori elementi illustrativi di una reale comunione di intenti imprenditoriali, non è di per sé sintomatica di una società di fatto, qualora, in presenza di un vincolo parentale, possa giustificarsi sulla base della sola affectio familiaris.
Massima

La semplice messa a disposizione di beni aziendali, per consentire l'esercizio di un'attività di impresa, in assenza di ulteriori elementi illustrativi di una reale comunione di intenti imprenditoriali, non è di per sé sintomatica di una società di fatto, qualora, in presenza di un vincolo parentale, possa giustificarsi sulla base della sola affectio familiaris.

Il caso

La vicenda sottoposta al vaglio della Commissione Tributaria Regionale di Salerno concerneva l'impugnativa di alcuni avvisi di accertamento emessi dall'Agenzia delle Entrate, per diverse annualità, nei confronti di una società di fatto e delle persone dei soci.

In particolare, con i suddetti atti impositivi - scaturiti da una verifica fiscale intrapresa nei riguardi di un singolo contribuente, imprenditore individuale - l'ufficio accertatore aveva presunto l'esistenza di una società di fatto costituita dallo stesso con il proprio genitore (poi deceduto nel corso del processo, con conseguente estensione del contradittorio agli eredi), recuperando a tassazione il maggior reddito societario determinato induttivamente ex art.39, comma 2, d.P.R. n.600/1973 (stante l'omessa presentazione della dichiarazione) ed imputandolo per trasparenza al socio di fatto ai sensi dell'art.5 TUIR.

Gli avvisi in questione erano stati impugnati sia dalla s.d.f. che dal socio di fatto con distinti ricorsi indirizzati alla Commissione Tributaria Provinciale di Salerno, con i quali i ricorrenti avevano eccepito, tra l'altro, la mancata instaurazione di un valido contraddittorio preventivo, l'inosservanza del termine di sessanta giorni per l'emissione degli atti impositivi, nonché la mancanza di una reale società di fatto per l'assenza dei requisiti costitutivi di tale fattispecie (fra i quali, in particolare, l'affectio societatis).

Il giudice di primo grado aveva respinto i ricorsi, ritenendo - quanto alle eccezioni preliminari - che la tipologia di accertamento emanato (classificabile come "induttivo puro") non implicasse l'obbligo del contraddittorio preventivo tra le parti, né tanto meno il rispetto del termine dei sessanta giorni di cui all'art. 12 L. n. 212/2000 (trattandosi di accertamento scaturito da una verifica "a tavolino"), mentre, nel merito, la prova dell'esistenza di una società di fatto tra i contribuenti avrebbe potuto desumersi da molteplici elementi indiziari, dimostrativi di "una struttura sopraindividuale indiscutibilmente consociativa".

La sentenza in questione veniva appellata dagli eredi del (presunto) socio di fatto, nel frattempo deceduto, i quali reiteravano le eccezioni proposte in primo grado dal de cuius, ribadendo, in particolare, la tesi dell'assenza dei requisiti necessari per ritenere esistente la società di fatto ipotizzata dall'Amministrazione finanziaria.

La questione

Come è stato osservato in premessa, le questioni giuridiche sottoposte alla cognizione dei giudici di merito involgono due profili procedimentali (assenza di un valido contraddittorio preventivo ed inosservanza del termine dei sessanta giorni previsto dall'art. 12 comma 7 dello Statuto del Contribuente) ed uno sostanziale, concernente la problematica dell'esistenza di una società di fatto tra l'imprenditore e un suo familiare stretto (padre, nonché proprietario dell'immobile utilizzato dal primo per l'esercizio dell'attività), con le relative implicazioni fiscali.

La Commissione Tributaria Regionale, dopo avere respinto, in modo alquanto sbrigativo, i primi due motivi di impugnazione, si è soffermata su quest'ultimo aspetto, reputando fondata la questione sollevata dagli appellanti e dunque capovolgendo l'esito del giudizio di primo grado.

Le soluzioni giuridiche

Tralasciando i profili procedimentali, che non offrono significativi spunti di interesse rispetto al trend giurisprudenziale dominante, è il caso di focalizzare l'attenzione sul tema della tassazione della società di fatto, attesa la sua centralità nella motivazione della sentenza.

Sul punto il collegio salernitano aderisce alla tesi difensiva del contribuente, attribuendo un rilievo decisivo alla mancanza, nella fattispecie, di qualsiasi atto di esteriorizzazione dell'attività di impresa in forma societaria, che segnatamente individua nella "manifestazione del compimento di atti nell'interesse di un'impresa collettiva", nella "distribuzione dei compiti nelle relazioni con fornitori o istituti di credito", nonché nell'"impiego di risorse con corrispondente ritorno di utili o perdite". Più avanti, nel prosieguo della motivazione, viene precisato che la "rilevazione dei beni aziendali, strumentale all'esercizio dell'attività imprenditoriale, appare essere dettata più da un'affectio familiaris che da una precipua affectio societatis".

Sotto questi profili la sentenza si colloca nell'alveo della prevalente giurisprudenza tributaria di legittimità, la quale si è sforzata di individuare i criteri di identificazione della società di fatto ai fini dei rapporti tributari, anche se - è bene precisarlo subito - questi sforzi non sempre hanno portato a risultati univoci sul piano interpretativo. Vediamo perché.

Come è noto, con il termine "società di fatto" viene tradizionalmente definito il tipo di società che nasce ed opera senza alcun atto costitutivo, nel mentre si considera "irregolare" la società costituita senza l'osservanza delle forme di pubblicità prescritte dalla legge. In tali casi, secondo l'opinione tradizionalmente consolidata a livello di dottrina e giurisprudenza civilistica, l'esistenza della struttura societaria può essere desunta aliunde, ossia dal complesso di circostanze idonee a rivelare - per facta concludentia - l'esercizio in comune tra i soci di un'attività imprenditoriale, nonché l'esistenza di un'affectio societatis, intesa come intenzione dei contraenti di vincolarsi e collaborare per l'esercizio dell'impresa.

Secondo questa opinione, la società di fatto può esistere anche indipendentemente dal patto scritto intervenuto tra i soci, che risulterà indispensabile, a pena di invalidità, soltanto nell'ipotesi di conferimento di beni immobili o diritti reali immobiliari (così Cass. civ., 14 febbraio 2000 n.1613; ma vedi anche Cass. civ., 19 maggio 2006, n. 11817, ove si afferma la tassabilità con imposta proporzionale di registro dell'atto di regolarizzazione di una società di fatto in società in nome collettivo, il quale includa nel patrimonio sociale beni immobili in precedenza acquistati dai soci "uti singuli", senza spendita del nome della società, trattandosi di atto che assume consistenza incrementativa, non ricognitiva, del patrimonio sociale).

È stato perciò osservato che «la mancanza della prova scritta del contratto di costituzione di una società di fatto o irregolare (non richiesta dalla legge ai fini della sua validità) non impedisce al giudice del merito l'accertamento "aliunde", mediante ogni mezzo di prova previsto dall'ordinamento, ivi comprese le presunzioni semplici, dell'esistenza di una struttura societaria, all'esito di una rigorosa valutazione (quanto ai rapporti tra soci) del complesso delle circostanze idonee a rivelare l'esercizio in comune di una attività imprenditoriale, quali il fondo comune costituito dai conferimenti finalizzati all'esercizio congiunto di un'attività economica, l'alea comune dei guadagni e delle perdite e l'"affectio societatis", cioè il vincolo di collaborazione in vista di detta attività nei confronti dei terzi; peraltro, è sufficiente a far sorgere la responsabilità solidale dei soci, ai sensi dell'art. 2297 c.c., l'esteriorizzazione del vincolo sociale, ossia l'idoneità della condotta complessiva di taluno dei soci ad ingenerare all'esterno il ragionevole affidamento circa l'esistenza della società» (Cass. civ., sez. VI, 5 maggio 2016 n. 8981, ord.; Cass. civ., 11 marzo 2010 n. 5961).

Se però si pongono a confronto gli orientamenti della giurisprudenza civilistica e di quella tributaria, emerge una diversità di impostazione che ha generato conseguenze non sempre omogenee sul piano dei risultati interpretativi, nel senso che in taluni casi la S. Corte ha adottato un approccio estremamente rigoroso (dunque maggiormente garantista per i contribuenti, quanto meno sotto il profilo probatorio), in altri casi meno.

Sul primo versante si segnalano, ad esempio, Cass. civ., 16 dicembre 2005 n. 27775 («in materia tributaria, i criteri di identificazione della società di fatto sono diversi da quelli che assumono rilevanza nei rapporti contrattuali di diritto privato, giacché in questi ultimi l'esigenza è quella di tutelare l'affidamento senza colpa dei terzi basato sul comportamento dei soci che, perciò, si assumono il rischio relativo; mentre nei rapporti di diritto tributario l'esigenza è quella di verificare l'esistenza dei presupposti per applicare norme impositive, sicché è necessario accertare l'effettiva esistenza degli elementi costitutivi del vincolo sociale, non essendo sufficiente la mera apparenza di tale vincolo, sia pure accompagnata dal ragionevole convincimento della sua esistenza») e Cass. civ., 13 novembre 2008 n. 27088in materia tributaria, perché un'attività imprenditoriale possa qualificarsi come societaria sono necessari - oltre al requisito dell'apparenza del vincolo societario nei confronti di terzi, quale indice rivelatore della reale esistenza della società - gli elementi richiesti dall'art. 2247 cod. civ. per la sussistenza di una società di fatto, e cioè l'intenzionale esercizio in comune fra i soci di un'attività commerciale, anche occasionale, a scopo di lucro ed il conferimento a tal fine dei necessari beni e servizi») ed in generale tutte quelle decisioni che reputano essenziale, ai fini della configurabilità della fattispecie della s.d.f., la dimostrazione dell'effettiva sussistenza degli elementi dell'affectio societatis e della costituzione del fondo comune prescritti dall'art. 2247 c.c. (cfr. anche Cass. civ., 17 dicembre 2008 n. 29437; Cass. civ., 26 agosto 1998 n.8488; Cass. civ., 23 aprile 1991 n. 4415).

Sul secondo versante si collocano, invece, quelle pronunzie, più recenti, che tendono ad attribuire un peso dirimente alle manifestazioni comportamentali delle persone dei (presunti) soci di fatto, siccome rivelatrici di una struttura consociativa sopraindividuale, ravvisandole per l'appunto «nella esteriorizzazione del vincolo sociale, rilevante nei rapporti esterni, più che negli elementi essenziali del contratto di società, ossia la costituzione di un fondo comune e l'affectio societatis» (in questi termini Cass. civ., 13 aprile 2017 n. 9604; Cass. civ., 20 gennaio 2006 n.1127), anche a prescindere dalla effettiva ricorrenza dei requisiti previsti dalla norma codicistica.

Per vero, sebbene tale profilo non sia messo a fuoco in modo sufficientemente nitido nelle suddette sentenze, la questione dell'accertamento dell'esistenza di una società di fatto sembra risolversi più che altro in un problema di ripartizione dell'onere probatorio, onere che, quanto meno nei suoi arresti più recenti, la S. Corte reputa assolto dall'Amministrazione finanziaria anche attraverso il ricorso ad elementi indiziari «in ordine alla sussistenza del legame di fatto tra soggetti unitariamente interessati alla gestione dell'ente, attraverso l'esercizio in comune dell'attività economica, salva la prova contraria offerta dal contribuente» (Cass. civ., sez. VI-T, 16 giugno 2016 n. 12500).

In ogni caso prevale in apicibus, anche in campo tributario (aggiungerei: per fortuna) l'idea che, laddove ci si trovi al cospetto di una società di fatto (che si assuma) intercorrente tra consanguinei, la prova della esteriorizzazione del vincolo dovrà essere particolarmente rigorosa, dovendo essa basarsi su elementi e circostanze concludenti, tali da escludere che l'intervento del familiare possa essere motivato dalla semplice "affectio familiaris". In simili ipotesi, infatti, la S. Corte ha sentito il dovere di precisare che, ai fini della configurabilità della fattispecie in esame, non è di per sé sufficiente la dimostrazione di finanziamenti e/o pagamenti ai creditori dell'impresa da parte del congiunto dell'imprenditore, costituendo questi atti neutri, spiegabili anche in chiave di solidarietà familiare (Cass. civ., sez. I, 5 luglio 2013 n. 16829; Cass. civ. sez. I, 26 luglio 1996 n. 6770; Cass. civ., 16 dicembre 2005 n. 27775).

Osservazioni

La decisione annotata ha fatto un uso corretto dei principi di diritto enucleabili dalla giurisprudenza tributaria di legittimità, laddove ha ritenuto che il quadro indiziario emergente dagli atti processuali fosse inidoneo a suffragare l'ipotesi accertativa di una società di fatto costituita tra l'imprenditore e suo padre (poi deceduto nel corso del processo, con conseguente coinvolgimento degli eredi).

Nel caso di specie, infatti, il collegio ha dato conto dell'assenza degli elementi sintomatici dell'esercizio in forma associata di un'attività di impresa (quali, in particolare, la distribuzione dei compiti nelle relazioni con fornitori e banche e l'impiego di risorse comuni con il corrispondente ritorno di utili o perdite), soggiungendo che l'utilizzo da parte del figlio artigiano dei beni paterni (si parlava di un immobile ricevuto in comodato d'uso ed adibito dal figlio ad autocarrozzeria) avrebbe potuto tranquillamente giustificarsi in chiave di normale affectio familiaris (anziché societatis), dunque al di fuori dello schema della società di fatto di cui all'art. 2247 c.c..

Esiste, tuttavia, un ulteriore profilo problematico che, sebbene non esplorato nella sentenza annotata, sembra meritare qualche riflessione aggiuntiva, sia pure nei limiti del presente commento.

Mi riferisco al problema dei rapporti intercorrenti tra l'accertamento societario e gli accertamenti personali a carico dei soci di fatto, nell'ipotesi di annullamento del primo.

La Suprema Corte ha infatti sancito in diverse pronunzie che l'annullamento dell'accertamento emesso nei confronti della s.d.f. rivelatasi inesistente, non determina l'automatica caducazione degli atti impositivi notificati ai pretesi soci: "in ipotesi di accertata esistenza di una società di fatto tra più persone, queste sono soggetti passivi (proporzionalmente alla quota di partecipazione agli utili di ognuna) dell'imposta sui redditi mentre ai fini ILOR il soggetto passivo è la società. In ipotesi di accertata inesistenza della società di fatto, il soggetto passivo di entrambe le imposte sul reddito prodotto dall'attività economica ascritta (in origine) alla società di fatto (risultata inesistente), va individuato (nei limiti quantitativi della contestazione dell'ufficio) nella persona cui sia riconducibile quell'attività: la mancanza, nella società di fatto, di una personalità distinta da quella dei pretesi soci, infatti, impone di ritenere comunque riferito (già nella contestazione dell'ufficio) individualmente, quindi anche ad ogni ipotizzato socio, l'avvenuto svolgimento di quell'attività economica produttiva di reddito imponibile e, di conseguenza, l'assunzione ex lege da parte del medesimo, della qualità di soggetto passivo di entrambe le imposte" (Cass. civ., 10 giugno 2011 n. 12763).

La Cassazione ha inoltre subordinato la riferibilità degli effetti dell'accertamento tributario emesso nei confronto di una s.d.f. alle persone dei (presunti) soci, alla verifica da parte del giudice che le operazioni economiche ascritte alla società siano state compiute dai soci singolarmente od anche solo da alcuno di essi (Cass. civ., 10 giugno 2011 n. 12765; Cass. civ., 12 luglio 2013 n. 17228). Secondo questo orientamento, in pratica, la mancata individuazione di una s.d.f. non precluderebbe comunque al giudice di "ribaltare" sulle persone fisiche dei (presunti) soci gli effetti dell'accertamento (nei limiti del quantum contestato): una volta acclarato che costoro hanno concorso a porre in essere l'attività economica generatrice del maggiore imponibile accertato, il giudice non potrebbe sottrarsi al compito di stabilire in che misura ciascuno di essi abbia partecipato all'esercizio dell'attività di impresa e, conseguentemente, alla produzione dell'imponibile, da assoggettare individualmente ad IRPEF (ed anche ad IRAP ed IVA, in presenza dei relativi presupposti).

Si tratta di un'impostazione teorica discutibile, non a caso sottoposta a serrata critica da parte di un'autorevole dottrina, la quale non ha mancato di rilevare come essa esorbiti dai limiti dell'accertamento tributario, che ha disposto in relazione ad un soggetto specifico (una società di persone), rilevante sia dal punto di vista sostanziale, sia sotto il profilo procedimentale: «una volta ritenuto inesistente il soggetto, la conseguenza non può essere quella di rinvenire in sede giudiziale i soggetti passivi "effettivi", deviando su questi gli effetti dell'accertamento, ma solo quella di considerare l'atto invalido, forse anche inesistente o nullo», con la conseguenza che gli effetti del giudicato favorevole circa l'invalidità dell'atto societario dovrebbero riverberarsi anche sugli accertamenti consequenziali in capo ai soci [così M. Nussi, L'attività di supplenza del giudice tributario oltre i limiti dell'atto impositivo (nuovi paradossi nell'accertamento del reddito di società di persone) in G.T. 12/2011].

In particolare, è stato osservato che il ragionamento svolto dalla S. Corte nelle sentenze citate non tiene conto del fatto che l'applicazione del diritto sostanziale è pur sempre mediata dalle norme sul procedimento di imposizione, le quali «impongono il rispetto di specifici presupposti di legittimità dell'atto accertativo» (Nussi, op. cit.), oltre logicamente alla necessità di una specifica motivazione, la quale non è suscettibile di essere modificata in sentenza.

In realtà l'approccio dogmatico enucleabile dalle sentenze sopra richiamate è fortemente debitore della concezione teorica che ricostruisce l'accertamento tributario in termini di provocatio ad opponendum.

E tuttavia, anche i più accesi fautori della teoria dichiarativa dell'obbligazione tributaria, che pure considerano il processo tributario alla stregua di un processo di accertamento (c.d. impugnazione-merito) non si spingono sino al punto di affermare che in fase di decisione il giudice possa prescindere dal contenuto dell'atto impositivo, ove è racchiusa la motivazione della pretesa, modificando i termini della contestazione, compresa la qualificazione del maggior reddito accertato. Al riguardo non deve sfuggire che, una volta esclusa l'esistenza della s.d.f., la deviazione degli effetti dell'accertamento sulle persone fisiche dei (presunti) soci non è affatto scontata, allorché debbano essere risolti una serie di problemi che attengono alla qualificazione della fattispecie imponibile ed alla individuazione del corretto regime di prelievo.

Così stando le cose, appare evidente che la questione concernente la latitudine degli effetti dell'accertamento emesso nei confronti di una s.d.f. della quale sia (erroneamente) supposta l'esistenza, non è declinabile in termini puramente quantitativi, dal momento che il mutamento della fattispecie è destinato ad incidere sia sulla disciplina sostanziale applicabile, sia sulle forme procedimentali di determinazione dell'imponibile.

Detto in altre parole: qualora il venir meno della struttura societaria comporti la necessità di modificare l'inquadramento del reddito in una differente categoria reddituale (ad es. da reddito di impresa a reddito di lavoro, di capitale, diverso, ecc.), con tutto quel che ne consegue in termini di regime impositivo applicabile (leggi: imputazione temporale, deducibilità dei costi ecc.), oltre che di modalità di accertamento, siffatta operazione, incidendo sul contenuto della motivazione dell'atto impositivo, non potrebbe mai realizzarsi in sede contenziosa, siccome implicherebbe la violazione di uno principi fondamentali ai quali è informato il rapporto fisco-contribuente e cioè il principio in base al quale l'Amministrazione finanziaria non può porre a base della propria pretesa ragioni diverse e/o modificare, nel corso del giudizio, quelle emergenti dalla motivazione dell'atto (sulla non modificabilità della motivazione dell'atto di accertamento v. ex multis Cass. civ., 8 febbraio 2017 n. 3414; Cass. civ., 31 ottobre 2014 n. 23248; Cass. civ., 30 marzo 2016 n. 6103. Cass. civ., 7 maggio 2014 n. 9810).

Bibliografia:

P. Spera, La società di fatto, Milano, 2008.

M. Nussi, L'attività di supplenza del giudice tributario oltre i limiti dell'atto impositivo (nuovi paradossi nell'accertamento del reddito di società di persone, in G.T., 12/2011, 1059.

R. Botta, Motivazione dell'atto impositivo e valori costituzionali, in Riv. dir. trib.

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