Nascita indesiderata: anche il padre ha diritto al risarcimento del danno?

Giampaolo Di Marco
23 Maggio 2018

Fino a che punto il medico, quando riceve dalla sola madre l'incarico di compiere degli accertamenti clinici sul feto, può individuare nell'uomo una potenziale vittima delle sue ipotetiche inottemperanze, tanto più se il danno derivi dall'impossibilità per la gestante di ricorrere all'aborto?
Massima

Qualora il medico ometta erroneamente di diagnosticare la patologia affettante il feto, sì da impedire alla madre di interrompere volontariamente la gravidanza, il risarcimento del pregiudizio da nascita indesiderata può essere preteso anche dal padre, trattandosi di uno dei soggetti beneficiari delle norme a tutela del diritto alla procreazione cosciente e responsabile.

Il caso

La pronuncia in esame trae origine dalla vicenda in cui una donna, rimasta, incinta aveva deciso con il coniuge, per ragioni di età, di procedere con l'interruzione della gravidanza. Procedendo all'intervento di raschiamento in una struttura sanitaria, questo non era stato correttamente eseguito, con la conseguenza che la gravidanza era andata avanti e, in seguito, non potendo più procedere all'interruzione della gravidanza perché superati i termini previsti dalla legge, era nata una bambina che presentava evidenti problemi fisici. Entrambi i coniugi, quindi, avevano dovuto cambiare completamente il loro stile di vita: la madre aveva dovuto rinunciare alla propria attività lavorativa per accudire la neonata, il padre aveva rassegnato le dimissioni dal posto di lavoro per ottenere liquidità attraverso il Tfr maturato, necessario per provvedere ai mutati bisogni della famiglia.

La questione

I giudici di prime cure – in maniera del tutto incomprensibile – hanno rigettato la richiesta del risarcimento avanzata dal padre perché non era stato dimostrato, né che egli avesse osteggiato la gravidanza, né che anche la madre della bambina avesse espresso la sicura intenzione di abortire.

Non è così agevole, infatti, stabilire sino a che punto il medico, al momento in cui riceva dalla sola madre l'incarico di compiere degli accertamenti clinici sul feto, possa individuare nell'uomo una potenziale vittima delle sue ipotetiche inottemperanze, tanto più se il danno, nella specie, deriverebbe dall'impossibilità per la gestante di ricorrere all'aborto.

Le soluzioni giuridiche

La decisione in commento si caratterizza, non tanto per le ragioni di annullamento della pronunzia di merito, censurata ex art. 360, 1 comma, n. 4), c.p.c., per motivazione soltanto apparente, quanto per il principio di diritto che la Suprema Corte ha formulato ed imposto all'osservanza del Giudice del rinvio: «in tema di responsabilità del medico per erronea diagnosi concernente il feto e conseguente nascita indesiderata, il risarcimento dei danni che costituiscono conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento della struttura sanitaria all'obbligazione di natura contrattuale spetta non solo alla madre ma anche al padre, atteso il complesso di diritti e doveri che, secondo l'ordinamento, si incentrano sulla procreazione cosciente e responsabile, considerato che, agli effetti negativi della condotta del medico ed alla responsabilità della struttura in cui egli opera, non può ritenersi estraneo il padre, il quale deve, perciò, considerarsi tra i soggetti ‘protetti' e, quindi, tra coloro rispetto ai quali la prestazione mancata o inesatta e qualificabile come inadempimento, con il correlato diritto al risarcimento dei conseguenti danni, immediati e diretti, fra i quali deve ricomprendersi il pregiudizio di carattere patrimoniale derivante dai doveri di mantenimento dei genitori nei confronti dei figli».

Osservazioni

L'affermazione si colloca senz'altro nel solco di un orientamento giurisprudenziale sostanzialmente consolidato, che include il padre tra i soggetti a tutela dei quali viene eseguita la diagnosi prenatale, legittimandolo, al contempo, a dolersi da eventuali errori o omissioni imputabili al personale sanitario nell'esecuzione di tale prestazione.

Contro simile approdo ermeneutico possono essere ragionevolmente mosse diverse obiezioni, talune delle quali affrontate e confutate nei precedenti giurisprudenziali in termini.

a) Si eccepisce, innanzitutto, che la l. 22 maggio 1978, n. 194 assegna soltanto alla madre il diritto all'aborto, di tal ché il suo mancato esercizio, ancorché dipendente dalla ricezione di incompleta o fuorviante informazione sanitaria, non può produrre alcun danno ingiusto a carico del padre, che, conseguentemente, non può diventare titolare di alcun diritto risarcitorio verso il medico inadempiente. In quest'ottica, non sposterebbe alcunché la possibilità per l'uomo di esaminare, unitamente alla donna, la possibile soluzione dei problemi economici, sociali o famigliari incidenti sulla salute della gestante (cfr. art. 5, comma 1), visto che il coinvolgimento dell'uomo è comunque subordinato all'autorizzazione della donna, alla quale, in ogni caso, è rimessa la decisione insindacabile e definitiva.

b) In secondo luogo, si evidenzia che l'aborto è consentito soltanto se funzionale a garantire il diritto alla salute della donna, da considerarsi, pertanto, quale unico bene giuridico suscettibile di prevalere sul diritto alla vita del concepito. Di contro, non potendo la gravidanza essere interrotta per ragioni attinenti al padre, i pregiudizi patiti da quest'ultimo per la nascita indesiderata non saranno risarcibili.

c) Da ultimo, si sottolinea che tra l'errore medico e la nascita (censurata come) indesiderata si frappone necessariamente la decisione della donna di abortire o di proseguire la gravidanza, la quale, risultando assolutamente dirimente per la verificazione dell'evento lesivo, interrompe drasticamente la sequenza causale. In altri termini, atteso che la madre avrebbe potuto continuare la gestazione anche qualora il sanitario avesse diagnosticato la patologia e, al contempo, avrebbe potuto interromperla pure se il nascituro fosse stato sano, allora sarebbe apprezzare la nascita indesiderata come conseguenza immediata e diretta dell'errore medico.

L'insieme di tali critiche è stato giudicato ininfluente dalla giurisprudenza di legittimità sulla base dell'assunto secondo cui, sebbene la l. n. 194/1978 assegni soltanto alla madre il diritto di ricevere le informazioni necessarie per autodeterminarsi in ordine alla prosecuzione o all'interruzione della gravidanza, la violazione di tale diritto può generare degli effetti nocivi anche ai danni di terzi, primo tra tutti il padre del nascituro. In altre parole, l'attribuzione alla sola madre del potere di ricorrere all'aborto in maniera libera e consapevole non esclude che i danni derivanti dalla lesione di tale diritto si producano in capo a terzi che siano soltanto occasionalmente o indirettamente protetti dalla l. n. 194/1978, primo fra tutti il padre, titolare del diritto ad una procreazione cosciente e responsabile.

È evidente che la tematica si presta ad una serie di considerazioni etiche e metagiuridiche di ampio respiro, troppo vaste per essere trattate nell'odierno sintetico contributo.

In una prospettiva di diritto squisitamente positivo, invece, possono essere formulate alcune riflessioni, specialmente con riferimento alla ricostruzione della connessione logica fra l'errore commesso dal sanitario nell'esecuzione della diagnosi prenatale ed il danno patrimoniale protestato dal padre, consistente nelle spese per il mantenimento e l'educazione del figlio.

Un dubbio può sorgere, prima di tutto, nell'inquadramento del padre all'interno del rapporto contrattuale (o da contatto sociale) costituitosi fra la madre ed il sanitario. Potrebbe apparire calzante la figura del contratto in favore del terzo, ipotizzando che la donna, conferendo al medico il compito di effettuare la diagnosi, miri a tutelare anche il diritto dell'uomo ad essere informato sulle condizioni di salute del nascituro.

In questo senso, il ginecologo, con l'esecuzione della prestazione commissionatagli, soddisferebbe l'interesse del padre ad apprendere anticipatamente delle notizie sulla situazione del figlio.

Tuttavia, l'orientamento giurisprudenziale in disamina compie, seppur implicitamente, un passo ulteriore, postulando che l'interesse paterno protetto dalla prestazione sanitaria sia rappresentato dalla possibilità di sottrarsi ai doveri genitoriali. Ma tale facoltà è espressamente negata dalla legge n. 194/1978, che assegna alla sola gestante ogni determinazione sul ricorso all'aborto, con previsioni normative che la Consulta ha reputato impermeabili a qualunque censura di illegittimità costituzionale (Corte Cost, ord. 31 marzo 1988, n. 389 e Corte Cost., 5 maggio 1994, n. 171).

Altra problematica, che non risulta esser stata censita con particolare rigore dagli arresti giurisprudenziali in materia, concerne il giudizio sulla prevedibilità del danno da inadempimento contrattuale, che, ai sensi dell'art. 1225 c.c., deve necessariamente ricorrere affinché al danneggiato possa essere attribuito il risarcimento (salvo il caso di dolo o di colpa grave del danneggiante, nel qual caso la prevedibilità del pregiudizio risulta ininfluente).

Non è così agevole, infatti, stabilire sino a che punto il medico, al momento in cui riceva dalla sola madre l'incarico di compiere degli accertamenti clinici sul feto, possa individuare nell'uomo una potenziale vittima delle sue ipotetiche inottemperanze, tanto più se il danno, nella specie, deriverebbe dall'impossibilità per la gestante di ricorrere all'aborto.

In buona sostanza, la produzione del danno in capo al padre è subordinato alla verificazione di una serie di accadimenti – e, in modo particolare, al fatto, deducibile soltanto a livello prognostico, che la madre, ove avesse conosciuto la patologia del feto, avrebbe abortito – che, difficilmente, possono essere preveduti dal ginecologo, sia al momento del ricevimento dell'incarico, che all'epoca di commissione dell'errore diagnostico.

La valutazione di quali sarebbero state le conseguenze dell'immediato apprendimento, da parte della madre, delle reali condizioni del feto appare ancor più complicata se sol si consideri come la probabile anormalità del concepito, singolarmente apprezzata, non costituisce una causa legittimante l'interruzione volontaria di gravidanza, assumendo un rilievo soltanto se e nei limiti in cui essa possa incidere negativamente sulla salute della gestante. Indiscutibile, infatti, è che l'aborto eugenico non trova alcun diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento costituzionale (Cass. civ., sez. III, 11 maggio 2009, n. 10741), con la conseguenza che le anomalie del nascituro non possono essere ragionevolmente percepite dalla generalità dei consociati come una ragione di probabile rifiuto della maternità da parte della donna.

In estrema sintesi, la concentrazione sulla sola madre del diritto di decidere sul ricorso all'aborto non interrompe il rapporto di consequenzialità diretta ed immediata fra l'errore medico e l'evento lesivo, ma attenua sensibilmente la possibilità che, dal punto di vista psicologico e soggettivo, il sanitario possa prevedere che la conseguenza di una diagnosi inesatta possa essere la produzione di danni (sub specie, di danni da nascita indesiderata) a discapito della figura paterna.

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