Applicabilità e limiti del principio della c.d. compensatio lucri cum damno
29 Maggio 2018
Massima
Il danno da fatto illecito deve essere liquidato sottraendo dall'ammontare del danno risarcibile l'importo dell'indennità assicurativa derivante da assicurazione contro i danni che il danneggiato-assicurato abbia riscosso in conseguenza di quel fatto (Cass. civ., Sez. Un., 22 maggio 2018 n. 12565).
Il caso
Le decisioni in esame riguardano tre vicende completamente differenti.
La questione
La Terza Sezione della Corte, con ordinanze interlocutorie, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l'assegnazione dei ricorsi alle Sezioni Unite al fine di risolvere il contrasto di giurisprudenza sulle tre seguenti specifiche questioni: - se nella liquidazione del danno da fatto illecito debba tenersi conto in detrazione del vantaggio sotto forma di indennizzo assicurativo che il danneggiato abbia comunque ottenuto in conseguenza di quel fatto, e quindi, in particolare, se, nella liquidazione del danno da fatto illecito, dal computo del pregiudizio sofferto dalla compagnia aerea titolare del velivolo abbattuto nel disastro aviatorio di Ustica vada defalcato quanto essa abbia ottenuto a titolo di indennizzo assicurativo per la perdita dell'aeroplano (n. 12565/2018); - se dall'ammontare del danno risarcibile si debba scomputare la rendita per l'inabilità permanente riconosciuta dall'INAIL a seguito di infortunio occorso al lavoratore durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro e quindi, in particolare, se dal computo del pregiudizio sofferto dal lavoratore a seguito di infortunio sulle vie del lavoro causato dal fatto illecito di un terzo, vada defalcata la rendita per l'inabilità permanente costituita dall'INAIL (n. 12566/2018); - se nella liquidazione del danno patrimoniale relativo alle spese di assistenza che una persona invalida sarà costretta a sostenere vita natural durante, debba tenersi conto, in detrazione, della indennità di accompagnamento erogata dall'Istituto nazionale della previdenza sociale, ed in particolare quindi se dall'ammontare del danno subito da un neonato in fattispecie di colpa medica, e consistente nelle spese da sostenere vita natural durante per l'assistenza personale, debba sottrarsi il valore capitalizzato della indennità di accompagnamento erogata al minore dall'Inps (n. 12567/2018).
In realtà, alla base di queste tre domande, vi è un tema unico, di carattere più generale, che attiene alla individuazione della attuale portata del principio della compensatio lucri cum damno e richiede una risposta all'interrogativo se e a quali condizioni, nella determinazione del risarcimento del danno da fatto illecito, accanto alla poste negative si debbano considerare, operando una somma algebrica, le poste positive che, successivamente al fatto illecito, si presentano nel patrimonio del danneggiato.
Il quesito, che è di portata più ampia di quello riguardante la detraibilità o meno dell'indennità di assicurazione, o della rendita Inail o dell'importo del vantaggio economico collegato all'erogazione dell'indennità accompagnamento, è dunque:
Le soluzioni giuridiche
Le Sezioni Unite, in tutte e tre le decisioni, hanno dedicato la parte centrale della motivazione ad una trattazione unitaria del problema, dirimente poi per risolvere i tre singoli quesiti posti alla sua attenzione.
L'esistenza dell'istituto della compensatio, inteso come regola di evidenza operativa per la stima e la liquidazione del danno, non è in realtà mai stata messa in discussione nella giurisprudenza della Suprema Corte (vedi anche Cass. civ., sez. III, 11 luglio 1978, n. 3507), in quanto «il risarcimento deve coprire tutto il danno cagionato, ma non puoò oltrepassarlo, non potendo costituire fonte di arricchimento del danneggiato, il quale deve invece essere collocato nella stessa curva di indifferenza in cui si sarebbe trovato se non avesse subito l'illecito: come l'ammontare del risarcimento non può superare quello del danno effettivamente prodotto, così occorre tener conto degli eventuali effetti vantaggiosi che il fatto dannoso ha provocato a favore del danneggiato, calcolando le poste positive in diminuzione del risarcimento».
Controversi, invece, sono stati “la portata e l'ambito di operatività” di questa figura, ossia «i limiti entro i quali la compensatio può trovare applicazione, soprattutto là dove il vantaggio acquisito al patrimonio del danneggiato in connessione con il fatto illecito derivi da un titolo diverso e vi siano due soggetti obbligati, appunto sulla base di fonti differenti».
Le vicende concrete portate all'attenzione delle Sezioni Unite si collocano per l'appunto in quest'ambito. Il duplice rapporto bilaterale è rappresentato: - per un verso, dalla relazione creata dal fatto illecito, permeata dalla disciplina della responsabilità civile, e, per l'altro verso, dal rapporto discendente dal contratto di assicurazione (nella vicenda oggetto della sentenza n. 12565/2018); - dal welfare garantito dal sistema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, che da titolo ad ottenere le prestazioni dell'assicurazione da un lato e dall'altro dalla relazione creata dal fatto illecito del terzo, permeata dalla responsabilità civile (nella vicenda oggetto della sentenza n. 12566/2018); - dal titolo di responsabilità della struttura ospedaliera e del medico per la colpa di questo per negligenza al parto, da cui discende l'obbligo di risarcire il danno subito dal minore, consistente, per quanto qui rileva, nelle spese da sostenere per l'assistenza personale vita natural durante da un canto e d'altro canto dalla relazione discendente dalla legislazione statale di assistenza sociale, la quale, attraverso l'indennità di accompagnamento erogata dall'Inps, assicura a quel minore vittima di lesioni personali una forma di sostegno e di sussidio anche quando l'invalidità dipenda dalla responsabilità di terzi (nella vicenda oggetto della sentenza n. 12567/2018).
In tutte queste vicende ed in altre fattispecie similari si tratta allora di stabilire «se l'incremento patrimoniale realizzatosi in connessione con l'evento dannoso per effetto del beneficio collaterale avente un proprio titolo e una relazione causale con un diverso soggetto tenuto per legge o per contratto ad erogare quella provvidenza, debba restare nel patrimonio del danneggiato cumulandosi con il risarcimento del danno o debba essere considerato ai fini della corrispondente diminuzione dell'ammontare del risarcimento». Rimangono invece pacificamente al di fuori questo ambito tutte «le ipotesi in cui, pur in presenza di titoli differenti, vi sia unicità del soggetto responsabile del fatto illecito fonte di danni ed al contempo obbligato a corrispondere al danneggiato una provvidenza indennitaria». In tali circostanze, infatti, vi è piena operatività della compensatio: «vale la regola del diffalco, dall'ammontare del risarcimento del danno, della posta indennitaria avente una cospirante finalità compensativa». Le Sezioni Unite in proposito ricordano il caso dell'indennizzo corrisposto al danneggiato, ai sensi della l. 25 febbraio 1992, n. 210, a seguito di emotrasfusioni con sangue infetto (il medesimo soggetto responsabile/obbligato è il Ministero della salute: Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 584; Cass. civ., sez. III, 14 marzo 2013, n. 6573) e la recente decisione della giurisprudenza amministrativa in cui è stato affermato come la somma dovuta dal datore di lavoro pubblico ad un proprio dipendente per la lesione della salute conseguente alla esalazione di amianto nei luoghi di lavoro non sia cumulabile con l'indennizzo percepito a seguito del riconoscimento della dipendenza dell'infermità da causa di servizio (Cons. Stato, sent. n. 1/2018). Ma venendo ai limiti di operatività della compensatio «in presenza di una duplicità di posizioni pretensive di un soggetto verso due soggetti diversi tenuti, ciascuno, in base ad un differente titolo», le Sezioni Unite rilevano come, sino ad oggi, la prevalente giurisprudenza della Suprema Corte ritenga che «per le fattispecie rientranti in questa categoria valga la soluzione del cumulo del vantaggio conseguente all'illecito, non quella del diffalco». La compensatio, infatti, potrebbe operare «solo quando il pregiudizio e l'incremento discendano entrambi, con rapporto immediato e diretto, dallo stesso fatto», mentre non potrebbe operare «quando il vantaggio derivi da un titolo diverso ed indipendente dall'illecito stesso, il quale costituisce soltanto la condizione» (la mera occasione e non la causa) «perchè il diverso titolo spieghi la sua efficacia» (Cass. civ., sez. III, 15 aprile 1993, n. 4475; Cass. civ., sez. III, 28 luglio 2005, n. 15822).
Le tre diverse ordinanze di rimessione (n. 15535, 15536 e 15537/2017), tuttavia, hanno fatto presente come sia: «assai raro che le poste attive e passive abbiano entrambe titolo nel fatto illecito», proponendo quindi di «superare l'inconveniente di una interpretazione "asimmetrica" dell'art. 1223 c.c.» con una «verifica in tema di assorbimento del beneficio nel danno in base a un test eziologico unitario, secondo il medesimo criterio causale prescelto per dire risarcibili le poste dannose».
Le Sezioni Unite non condividono questa impostazione che potrebbe: «spingersi fino al punto di attribuire rilevanza a ogni vantaggio indiretto o mediato, perchè ciò condurrebbe ad un'eccessiva dilatazione delle poste imputabili al risarcimento, finendo con il considerare il verificarsi stesso del vantaggio un merito da riconoscere al danneggiante» (si pensi all'ipotesi della nuova prestazione lavorativa da parte del superstite, prima non occupato, in conseguenza della morte del congiunto oppure agli effetti favorevoli derivanti dall'acquisto dell'eredità da parte degli eredi della vittima). Di conseguenza: «affidare il criterio di selezione tra i casi in cui ammettere o negare il cumulo all'asettico utilizzo delle medesime regole anche per il vantaggio», finisce: «per ridurre la quantificazione del danno, e l'accertamento della sua stessa esistenza, ad una mera operazione contabile, trascurando così la doverosa indagine sulla ragione giustificatrice dell'attribuzione patrimoniale entrata nel patrimonio del danneggiato». In realtà, sempre a parere delle Sezioni Unite, è proprio questa “indagine” ad essere fondamentale per accertare se il beneficio collaterale sia compatibile o meno con una imputazione al risarcimento: la funzione di cui il beneficio collaterale si rivela essere espressione.
In altre parole: «in tanto le prestazioni del terzo incidono sul danno in quanto siano erogate in funzione di risarcimento del pregiudizio subito dal danneggiato». La prospettiva «non è quindi quella della coincidenza formale dei titoli, ma quella del collegamento funzionale tra la causa dell'attribuzione patrimoniale e l'obbligazione risarcitoria» (prospettiva peraltro comune all'elaborazione della dottrina civilistica Europea). Per essere ancora più chiari, non esiste «una regola categoriale destinata ad operare in modo "bilancistico"», ma occorre svolgere «un confronto tra il danno e il vantaggio che di volta in volta viene in rilievo, alla ricerca della ragione giustificatrice del beneficio collaterale e, quindi, di una ragionevole applicazione del diffalco». La selezione tra i casi in cui ammettere o negare la compensatio deve essere fatta, dunque, per «classi di casi, passando attraverso il filtro di quella che è stata definita la "giustizia" del beneficio e, in questo ambito, considerando la funzione specifica svolta dal vantaggio» (ad esempio nel caso di assicurazione sulla vita non si avrà mai alcuna compensatio tra l'indennità ed il risarcimento «perchè si è di fronte ad una forma di risparmio posta in essere dall'assicurato sopportando l'onere dei premi, e l'indennità, vera e propria contropartita di quei premi, svolge una funzione diversa da quella risarcitoria ed è corrisposta per un interesse che non è quello di beneficiare il danneggiante»). Ai fini dell'applicabilità o meno della compensatio, peraltro, le Sezioni Unite esigono la sussistenza di un altro requisito dopo quello della “verifica per classi di casi”, e cioè «se l'ordinamento abbia coordinato le diverse risposte istituzionali, del danno da una parte e del beneficio dall'altra, prevedendo un meccanismo di surroga o di rivalsa, capace di valorizzare l'indifferenza del risarcimento, ma nello stesso tempo di evitare che quanto erogato dal terzo al danneggiato si traduca in un vantaggio inaspettato per l'autore dell'illecito». Difatti è solo se esiste un diritto di surroga o di rivalsa «teso ad assicurare che il danneggiante rimanga esposto all'azione di "recupero" ad opera del terzo da cui il danneggiato ha ricevuto il beneficio collaterale», che potrà aversi detrazione della posta positiva dal risarcimento. Se così non fosse: «se cioè il responsabile dell'illecito, attraverso il non-cumulo, potesse vedere alleggerita la propria posizione debitoria per il solo fatto che il danneggiato ha ricevuto, in connessione con l'evento dannoso, una provvidenza indennitaria grazie all'intervento del terzo, e cio' anche quando difetti la previsione di uno strumento di riequilibrio e di riallineamento delle poste, si avrebbe una sofferenza del sistema, finendosi con il premiare, senza merito specifico, chi si e' comportato in modo negligente». La sottrazione del vantaggio, in altre parole, non sarà mai: «consentita in tutte quelle vicende in cui l'elisione del danno con il beneficio pubblico o privato corrisposto al danneggiato a seguito del fatto illecito finisca per avvantaggiare esclusivamente il danneggiante, apparendo preferibile in tali evenienze favorire chi senza colpa ha subito l'illecito rispetto a chi colpevolmente lo ha causato».
La motivazione addotta dalle Sezioni Unite, del resto, è perfettamente conforme alle indicazioni fornite anche dal pubblico ministero, il quale: «nel rifiutare la prospettiva "totalizzante" del computo nella stima del danno di vantaggi che, prima della liquidazione, siano pervenuti o certamente perverranno alla vittima, ha delineato "i due presupposti essenziali per poter svolgere la decurtazione del vantaggio": accanto al contenuto, "per classi omogenee o per ragioni giustificatrici", del vantaggio, la previsione, appunto, di un meccanismo di surroga, di rivalsa o di recupero, che "instaura la correlazione tra classi attributive altrimenti disomogenee».
Le Sezioni Unite, dopo queste fondamentali premesse, risolvono le tre specifiche questioni, ritenendo sempre applicabile la c.d. compensatio.
A) Nell'assicurazione contro i danni (decisione n. 12565/2018), la funzione dell'indennità assicurativa è quella di risarcire il pregiudizio subito dall'assicurato in conseguenza del verificarsi dell'evento dannoso. In pratica: «soddisfa, neutralizzandola in tutto o in parte, la medesima perdita al cui integrale ristoro mira la disciplina della responsabilità risarcitoria del terzo autore del fatto illecito». Quando si verifica un sinistro per il quale sussiste la responsabilità di un terzo, i due diritti di credito spettanti al danneggiato «pur avendo fonte e titolo diversi, tendono ad un medesimo fine: il risarcimento del danno provocato dal sinistro all'assicurato-danneggiato», ovvero «l'eliminazione del danno causato nel patrimonio dell'assicurato-danneggiato per effetto della verificazione del sinistro». L'assicurato-danneggiato «non può tuttavia pretendere dal terzo responsabile e dall'assicuratore degli indennizzi che nel totale superino i danni che il suo patrimonio ha subito». Da ciò ne consegue che «quando il danneggiato, prima di percepire l'indennizzo assicurativo, ottiene il risarcimento integrale da parte del responsabile, cessa l'obbligo di indennizzo dell'assicuratore (Cass. civ., Sez. II, 25 ottobre 1966, n. 2595); se invece è l'assicuratore a indennizzare per primo l'assicurato, quando il risarcimento da parte del terzo responsabile non ha ancora avuto luogo, allora, ai sensi dell'articolo 1916 c.c., l'assicuratore è surrogato, fino alla concorrenza dell'ammontare dell'indennità corrisposta, nel diritto dell'assicurato verso il terzo medesimo». La surrogazione ex art. 1916 «funge da meccanismo di raccordo», ed è fondamentale, in quanto «mentre consente all'assicuratore di recuperare aliunde quanto ha pagato all'assicurato-danneggiato, impedisce a costui di cumulare, per lo stesso danno, la somma già riscossa a titolo di indennità assicurativa con quella ancora dovutagli dal terzo responsabile a titolo di risarcimento, e di conseguire così due volte la riparazione del pregiudizio subito». Viene rispettato così il c.d. principio indennitario (desumibile dagli artt. 1882, 1904 e 1905 c.c., art. 1908, comma 1, c.c., art. 1909 c.c., art. 1910, comma 3, c.c.), per cui la prestazione assicurativa non può mai trasformarsi in una fonte di arricchimento per l'assicurato e determinare, in suo favore, una situazione economica più vantaggiosa di quella in cui egli verserebbe se l'evento dannoso non si fosse verificato (vedi Cass. civ., sez. III, 29 gennaio 1973, n. 293; Cass. civ., sez. III, 7 giugno 1977, n. 2341; Cass. civ., sez. III, 7 maggio 1979, n. 2595). Senza la surrogazione, peraltro «l'assicurato danneggiato conserverebbe l'azione di risarcimento contro il terzo autore del fatto illecito anche per l'ammontare corrispondente all'indennità assicurativa ricevuta: ma l'articolo 1916 gliela toglie, perchè la trasmette all'assicuratore. Il risarcimento resta tuttavia dovuto dal danneggiante per l'intero, essendo questi tenuto a rimborsare all'assicuratore l'indennità assicurativa e a risarcire l'eventuale maggior danno al danneggiato». Viene salvaguardato, in questo modo, «il principio di responsabilità (artt.1218 e 2043 c.c.), per cui l'autore del danno è in ogni caso tenuto all'obbligazione risarcitoria, senza possibilità di vedere elisa o ridotta l'entità della relativa prestazione per effetto di una assicurazione non da lui, o per lui, stipulata». L'azione di surrogazione, oltre a queste due finalità (principio indennitario e di responsabilità) avrebbe, secondo parte della dottrina una terza finalità, cioè «quella di consentire all'ente assicuratore, attraverso il recupero della perdita costituita dalla somma erogata a titolo di indennità, una riduzione dei costi di gestione del ramo e quindi, tendenzialmente, un contenimento del livello dei premi nei limiti in cui l'assicuratore sia in grado di recuperare dai terzi responsabili quanto erogato in forza dei propri impegni contrattuali». Tuttavia, secondo quella parte consistente della giurisprudenza che ha sempre ammesso la cumulabilità, in capo all'assicurato che ha riscosso l'indennità dalla propria compagnia, dell'intero ammontare del risarcimento del danno dovuto dal terzo responsabile, la surrogazione opererebbe solo se e nel momento in cui l'assicuratore comunichi al terzo responsabile l'avvenuta solutio e manifesti contestualmente la volontà di surrogarsi nei diritti dell'assicurato verso il medesimo terzo, al fine appunto di rivalersi su questo della somma pagata a quello (Cass. civ., sez. I, 23 ottobre 1954, n. 4019; Cass. civ., sez. III, 29 marzo 1968, n. 971; Cass. civ., sez. III, 7 aprile 1970, n. 961; Cass. civ., sez. III, 8 settembre 1970, n. 1347; Cass. civ., sez. I, 9 dicembre 1971, n. 3562; Cass. civ., sez. III, 21 agosto 1985, n. 4473; Cass. civ., sez. III, 26 febbraio 1988, n. 2051; Cass. civ., sez. III, 10 febbraio 1999, n. 1135; Cass. civ., sez. III, 23 dicembre 2003, n. 19766; Cass. civ., Sez. Un., 13 marzo 1987 n. 2639). Se l'assicuratore rinuncia alla surroga o comunque rimane inerte, non vi potrebbe essere alcuna compensatio: «il pagamento dell'indennizzo lascerebbe immutato il diritto dell'assicurato di agire per ottenere l'intero risarcimento del danno nei confronti del terzo responsabile senza che questi possa opporgli in sottrazione - essendo diverso il titolo di responsabilità aquiliana rispetto alla fonte del debito indennitario gravante sull'assicuratore - l'avvenuta riscossione dell'indennità assicurativa». Orbene, le Sezioni Unite hanno ritenuto di non condividere questa lettura dell'art. 1916 c.c., in quanto «il codice condiziona il subingresso al semplice fatto del pagamento dell'indennità per quel danno di cui è responsabile il terzo, senza richiedere, a tal fine, la previa comunicazione da parte dell'assicuratore della sua intenzione di succedere nei diritti dell'assicurato verso il terzo responsabile». Di conseguenza, «poichè nel sistema dell'art. 1916 c.c. è con il pagamento dell'indennità assicurativa che i diritti contro il terzo si trasferiscono, ope legis, all'assicuratore, deve escludersi un ritrasferimento o un rimbalzo di tali diritti all'assicurato per il solo fatto che l'assicuratore si astenga dall'esercitarli». Non è stato tra l'altro ritenuta condivisibile dalle Sezioni Unite neppure la tesi (sostenuta peraltro dal Pubblico Ministero) che giustificherebbe il cumulo dell'intero risarcimento del danno al già conseguito indennizzo assicurativo per il fatto che l'assicurato ha versato all'assicuratore dei regolari premi, che sarebbero altrimenti sine causa. Nella assicurazione contro i danni, infatti, «la prestazione dell'indennità non è in rapporto di sinallagmaticità funzionale con la corresponsione dei premi da parte dell'assicurato, essendo l'obbligo fondamentale dell'assicuratore quello dell'assunzione e della sopportazione del rischio a fronte della obiettiva incertezza circa il verificarsi del sinistro e la solvibilità del terzo responsabile». Il pagamento dei premi, in altri termini «è in sinallagma con il trasferimento del rischio, non con il pagamento dell'indennizzo».
Da ultimo, anche l'art. 1589 c.c., conferma tale impostazione, in quanto il locatore, una volta ricevuto l'indennizzo dal proprio assicuratore, non può agire contro il conduttore responsabile dell'incendio se non per la differenza, ma il conduttore non é affatto liberato perchè egli, in forza della disciplina sulla surrogazione, dovrà prestare il risarcimento all'assicuratore e non al locatore. In definitiva, dunque, «Il danno da fatto illecito deve essere liquidato sottraendo dall'ammontare del danno risarcibile l'importo dell'indennità assicurativa derivante da assicurazione contro i danni che il danneggiato-assicurato abbia riscosso in conseguenza di quel fatto».
Il danneggiato, pertanto, «una volta che abbia riscosso l'indennizzo dal proprio assicuratore, non può agire contro il responsabile se non per la differenza, non essendovi spazio per una doppia liquidazione a fronte di un pregiudizio identico».
B) Nell'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (decisione N. 12566/2018), la rendita INAIL costituisce una prestazione economica a contenuto indennitario erogata in funzione di copertura del pregiudizio (l'inabilità permanente generica, assoluta o parziale, e, a seguito della riforma apportata dal d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, anche il danno alla salute) occorso al lavoratore in caso di infortunio sulle vie del lavoro. È vero che: «il ristoro del danno coperto dall'assicurazione obbligatoria può presentare delle differenze nei valori monetari rispetto al danno civilistico (Cass. civ., sez. lav., 11 gennaio 2016, n. 208; Cass., Sez. lav., 10 aprile 2017, n. 9166). Nondimeno, la rendita corrisposta dall'INAIL soddisfa, neutralizzandola in parte, la medesima perdita al cui integrale ristoro mira la disciplina della responsabilità risarcitoria del terzo, autore del fatto illecito, al quale sia addebitabile l'infortunio in itinere subito dal lavoratore». Non solo la funzione è dunque analoga tra rendita Inail e danno civilistico, ma: «il sistema normativo prevede un meccanismo di riequilibrio idoneo a garantire che il terzo responsabile dell'infortunio sulle vie del lavoro, estraneo al rapporto assicurativo, sia collateralmente obbligato a restituire all'INAIL l'importo corrispondente al valore della rendita per inabilità permanente costituita in favore del lavoratore assicurato». Questo meccanismo è regolato dagli artt. 1916 c.c. e 142 cod. ass. che, addirittura, al comma 2 prevede «un articolato meccanismo di interpello del danneggiato, con la richiesta di una dichiarazione attestante che lo stesso non ha diritto ad alcuna prestazione da parte di istituti che gestiscono assicurazioni sociali obbligatorie, e di comunicazione al competente ente di assicurazione sociale, ove il danneggiato dichiari di avere diritto a tali prestazioni». La surrogazione «mentre consente dall'istituto di recuperare dal terzo responsabile» (in tal modo impedendo che il responsabile civile, avvantaggiandosi ingiustamente dell'intervento della protezione previdenziale in favore dell'infortunato, paghi soltanto il danno differenziale al lavoratore) «le spese sostenute per le prestazioni assicurative erogate al lavoratore danneggiato, impedisce a costui di cumulare, per lo stesso danno, la somma già riscossa a titolo di rendita assicurativa con l'intero importo del risarcimento del danno dovutogli dal terzo, e di conseguire così due volte la riparazione del medesimo pregiudizio subito». Le somme che il danneggiato si è visto liquidare dall'INAIL a titolo di rendita per l'inabilità permanente, pertanto «vanno detratte dall'ammontare dovuto, allo stesso titolo, dal responsabile al predetto danneggiato» (cfr. Cass. civ., sez. III, 23 novembre 2017, n. 27869). In definitiva «L'importo della rendita per l'inabilità permanente corrisposta dall'INAIL per l'infortunio in itinere occorso al lavoratore va detratto dall'ammontare del risarcimento dovuto, allo stesso titolo, al danneggiato da parte del terzo responsabile del fatto illecito».
C) La l. 11 febbraio 1980, n. 18 (dec. n. 12567/2018), che riconosce l'indennità di accompagnamento a favore di coloro, anche minori di diciotto anni, che si trovano nella impossibilità di deambulare senza l'aiuto permanente di un accompagnatore o che, non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita, abbisognano di un'assistenza continua, ha sicuramente una funzione: “solidaristica ed assistenziale”. Lo Stato Italiano, «con l'erogazione di quell'indennità a chi si trova in condizioni di bisogno, corrisponde ad un interesse di tutta la collettività, garantendo l'esistenza delle condizioni necessarie all'effettivo godimento dei diritti fondamentali e realizzando la tutela della persona umana in situazione di difficoltà». Tale «afflato solidaristico della comunità», tuttavia: «di per sè non esclude il computo di quel beneficio ai fini dell'operazione di corretta stima del danno». Secondo le Sezioni Unite, peraltro, per applicare la c.d. compensatio in tale ipotesi, deve ricorrere una duplice condizione.
L'esito di queste verifiche nel caso di specie induce a ritenere «applicabile lo scomputo da compensatio, con la sottrazione, dall'ammontare del risarcimento del danno, del valore capitalizzato della indennità di accompagnamento». Da un lato, infatti, l'indennità di accompagnamento «è rivolta a fronteggiare e a compensare direttamente - e non mediatamente - il medesimo pregiudizio patrimoniale causato dall'illecito: appunto, quello consistente nella necessità di dover retribuire un collaboratore od assistente per le necessità della vita quotidiana del minore reso disabile per negligenza al parto».
D'altro canto, «la presenza di uno strumento di riequilibrio, idoneo ad escludere che l'autore della condotta dannosa finisca per giovarsi di quella erogazione solidaristica e nello stesso tempo a mantenere la stima del danno entro i binari della ragionevolezza e della proporzionalità, è rappresentato dalla l. 4 novembre 2010, n. 183, articolo 41», che consente all'ente erogatore di pensioni, assegni ed indennità, spettanti agli invalidi civili ai sensi della legislazione vigente e corrisposti in conseguenza del fatto illecito di terzi, di recuperarle nei riguardi del responsabile civile e della compagnia di assicurazioni. Tale disposizione normativa conferma: «la funzione compensativa dell'indennità di accompagnamento corrisposta all'invalido civile», avendo la: «specifica finalità di concorrere a rimuovere le conseguenze prodottesi nel patrimonio del danneggiato per effetto dell'illecito o dell'inadempimento e del danno che ne è derivato. In tanto, infatti, si giustifica il "recupero" da parte dell'ente erogatore del valore capitale dell'indennità di accompagnamento nei confronti del terzo autore della condotta dannosa, in quanto l'erogazione assistenziale condivide, con il risarcimento del danno, la finalità di riparare il pregiudizio rappresentato dagli oneri di assistenza». Ma vi è di più. L'art. 41 della l. n. 183 del 2010 «determina i presupposti non solo per il recupero da parte dell'istituto erogatore, ma anche per una imputazione del beneficio collaterale al risarcimento, non potendo l'autore della condotta colposa essere tenuto a rispondere due volte per lo stesso fatto, una volta (verso il danneggiato) per un importo pari all'intero ammontare del danno risarcibile, l'altra (verso l'amministrazione pubblica) per un importo corrispondente al valore capitalizzato dell'indennità di accompagnamento erogato dall'Inps». La percezione del beneficio dell'indennità di accompagnamento, essendo rivolta alla medesima copertura degli oneri di assistenza provocati dal fatto illecito del terzo, assume in buona sostanza la valenza di un anticipo per l'assistito-danneggiato della somma che potrà essere ottenuta dal terzo a titolo di risarcimento del danno. In definitiva, «Dall'ammontare del danno subito da un neonato in fattispecie di colpa medica, e consistente nelle spese da sostenere vita natural durante per l'assistenza personale, deve sottrarsi il valore capitalizzato della indennità di accompagnamento che la vittima abbia comunque ottenuto dall'Inps in conseguenza di quel fatto». Osservazioni
Le Sezioni Unite, in queste tre vicende (del tutto differenti tra loro), hanno cercato di delineare una volta per tutte i confini e l'ambito di applicabilità dell'istituto della c.d. compensatio lucri cum damno nell'ambito della responsabilità civile. In altre parole, si è tentato di capire se, al momento di procedere al risarcimento di un danno provocato da un fatto illecito, si debba procedere sempre ad una riduzione dell'ammontare del danno civilistico, detraendo tutti quei benefici economici che, successivamente al verificarsi dell'illecito, si sono prodotti per il danneggiato stesso (benefici erogati da soggetti pubblici o privati), oppure se questi benefici possano essere cumulati al risarcimento, soprattutto laddove questi vantaggi derivino da un titolo diverso dal fatto illecito (un contratto, una disposizione normativa, ecc.) e vi siano due soggetti obbligati, appunto sulla base di fonti differenti. Se vi è unicità del soggetto responsabile del fatto illecito fonte di danni e che contestualmente è obbligato a corrispondere al danneggiato un beneficio (una provvidenza, un vantaggio), non vi sono dubbi che operi sempre il principio della compensatio (o diffalco che dir si voglia), come del resto era stato di recente statuito anche dal Consiglio di Stato (Cons. Stato, sent. n. 1/2018).
In tutti gli altri casi, invece, non è possibile dare una regola generale (“totalizzante”), ma occorrerà valutare caso per caso che sussistano due presupposti fondamentali per poter decidere se ritenere applicabile la compensatio al caso di specie.
In primo luogo, si dovrà “per classi di casi” (o “classi omogenee”), considerare la funzione specifica svolta dal vantaggio, cioè: «instaurare un confronto tra il danno e il vantaggio che di volta in volta viene in rilievo, alla ricerca della ragione giustificatrice del beneficio collaterale, e quindi di una ragionevole applicazione del diffalco». In secondo luogo, la previsione da parte del Legislatore di un meccanismo di surroga, rivalsa o recupero che dir si voglia. Meccanismo che, peraltro, non richiede la previa comunicazione da parte dell'assicuratore della sua intenzione di succedere nei diritti dell'assicurato verso il terzo responsabile ma il semplice fatto del pagamento dell'indennità per quel danno di cui è responsabile il terzo.
Le Sezioni Unite, sulla base di questi due presupposti, hanno ritenuto applicabile l'istituto della compensatio lucri cum damno (e quindi la detrazione dei benefici) alle tre singole ipotesi a loro poste.
Di conseguenza:
Possiamo quindi dire che ogni discussione in punto compensatio lucri cum damno è terminata ? Crediamo di poter dare una risposta negativa a tale domanda.
Le stesse Sezioni Unite, hanno tenuto a precisare che, innanzitutto, pur essendo sottesa alle tre specifiche questioni: «una richiesta indistinta e omologante di tutte le possibili evenienze legate al sopravvenire, al fatto illecito produttivo di conseguenze dannose, di benefici collaterali al danneggiato», i quesiti sono stati esaminati nei soli limiti della loro rilevanza, e cioè fino al punto, in cui essi hanno rappresentato: «un presupposto o una premessa sistematica indispensabile per l'enunciazione, a risoluzione del contrasto di giurisprudenza, di un principio di diritto legato all'orizzonte di attesa della fattispecie concreta» (la soluzione di questioni di principio di valenza nomofilattica sono del resto pur sempre riferibili alle specificità del singolo caso della vita, vedi anche art. 363 c.p.c.).
In secondo luogo, come si è visto, è stato chiaramente detto che non è possibile dare una regola generale (“totalizzante”), ma occorrerà valutare caso per caso che sussistano i due presupposti fondamentali per poter decidere se ritenere applicabile la compensatio al caso di specie. Si pensi, a mero titolo di esempio, che nella decisione n. 12567/2018, l'indennità di accompagnamento è stata ritenuta scomputabile solo perché: «è rivolta a fronteggiare e a compensare direttamente - e non mediatamente - il medesimo pregiudizio patrimoniale causato dall'illecito: appunto, quello consistente nella necessità di dover retribuire un collaboratore od assistente per le necessità della vita quotidiana del minore reso disabile per negligenza al parto», mentre non sono stati ritenuti ammissibili i ricorsi presentati relativi alla mancata detrazione anche del valore delle prestazioni a domicilio erogate dal Servizio sanitario regionale.
A tale proposito, è stato anzi evidenziato che: «quelle prestazioni sono limitate ad alcuni accessi e non riducono ne' elidono la necessità di una continua assistenza, diurna e notturna, i cui oneri costituiscono il danno emergente liquidato dal giudice del merito. Di qui la non rilevanza, nella specie, di un problema di compensatio, posto che, appunto, quei servizi domiciliari non sono in sostanza rivolti alla copertura del medesimo pregiudizio ritenuto risarcibile dal giudice del merito». Questo è per dire che la questione dell'applicabilità della compensatio lucri cum damno, ad esempio alle polizze private infortuni, rimane ancora aperta e da valutare caso per caso. Per brevità di spazio in questa sede non è possibile approfondire quest'ultimo tema, a proposito peraltro del quale non possiamo esimerci dal rilevare che è tutto ancora da chiarire quale sia la funzione del beneficio dato da una polizza privata infortuni. Anche perché le polizze infortuni cosa coprono in realtà? Certamente non il danno non patrimoniale, così come definito dalla giurisprudenza e dal Legislatore (vedi, in particolare, gli artt. 138 e 139 cod. ass.). Le Tabelle di valutazione medico-legale sono differenti (Ania/Inail in sede di polizza privata infortuni) ed i criteri monetari di liquidazione pure (le stesse Sezioni Unite nella ormai lontana decisione n. 5119/2002, evidenziarono le peculiarità delle polizze infortuni sottolineando la liceità di tali contratti che prevedessero «una manifesta sproporzione» tra l'indennità prevista in polizza e le conseguenze negative - danni sotto il profilo civilistico - realmente subiti dall'infortunato). Le polizze private infortuni, in verità, fanno riferimento a quello che una volta era definito danno alla «capacità lavorativa generica» («generica attitudine lavorativa»), non certo al danno non patrimoniale (biologico e/o morale e/o esistenziale).
Aggiungiamo che le polizze private infortuni (che tra l'altro, prevedono quasi tutte una rinuncia alla rivalsa) non spiegano in alcun modo agli assicurati che, laddove vi sia un civilmente responsabile, potrebbero non ricevere alcun indennizzo o comunque vederselo ridotto (con conseguenti evidenti riflessi su di una necessaria rideterminazione delle tariffe e dei premi, ove l'indennità non venisse pagata in presenza di un civilmente responsabile).
In ogni caso, va ricordato comunque che nel valutare l'applicabilità della compensatio alla polizza privata infortuni, la stessa sentenza che ha sollevato la questione a suo tempo (Cass. civ., n. 13233/2014) concluse affermando che: «Resta solo da aggiungere, per completezza, che la detrazione dal risarcimento del danno aquiliano dell'indennizzo assicurativo percepito dalla vittima in virtù di una assicurazione contro gli infortuni esige che il danno patito ed il rischio assicurato coincidano: se l'assicurazione copre il danno da perdita della capacità di lavoro (danno patrimoniale), e la vittima del fatto illecito abbia subito soltanto un danno biologico (danno non patrimoniale), nessuna detrazione sarà possibile, a nulla rilevando che l'assicuratore abbia, per effetto di particolari clausole contrattuali che ammettano l'indennizzabilità d'un danno presunto, pagato ugualmente l'indennizzo».
Ed ancora, le stesse Sezioni Unite affermano che uno dei due requisiti imprescindibili per l'applicabilità della compensatio è che si deve: «instaurare un confronto tra il danno e il vantaggio che di volta in volta viene in rilievo, alla ricerca della ragione giustificatrice del beneficio collaterale, e quindi di una ragionevole applicazione del diffalco».
Ad una attenta lettura di tutte e tre le decisioni qui esaminate, del resto, si può notare che quando viene concessa la compensatio, si parla di “pregiudizio identico” (n. 12565/2018), “stesso titolo” (n. 12566/2018), “medesimo pregiudizio” (n. 12567/2018). La domanda a questo punto sorge spontanea, quando il danno patito civilisticamente ed il rischio assicurato nella polizza privati infortuni coincidono ? Quando sussistono “pregiudizio identico” o “stesso titolo” o “medesimo pregiudizio” ? Lasciamo ai lettori trarre le debite conclusioni.
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