Morte del familiare e presunzione della sofferenza morale per i congiunti superstiti

Francesco Agnino
06 Giugno 2018

In caso di morte di un familiare, il dolore del congiunto sopravvissuto può presumersi?
Massima

L'assenza di convivenza o la distanza rispetto alla vittima del sinistro non esclude di per sé il risarcimento in favore dei prossimi congiunti. L'uccisione di una persona fa presumere da sola, ex art. 2727 c.c., una conseguente sofferenza morale in capo ai genitori, al coniuge, ai figli od ai fratelli della vittima, a nulla rilevando né che la vittima ed il superstite non convivessero, né che fossero distanti (circostanze, queste ultime, le quali potranno essere valutate ai fini del "quantum debeatur"). Nei casi suddetti è pertanto onere del convenuto provare che vittima e superstite fossero tra loro indifferenti o in odio, e che di conseguenza la morte della prima non abbia causato pregiudizi non patrimoniali di sorta al secondo.

Il caso

I parenti - segnatamente moglie, figli, madre e fratelli - di un pedone deceduto a seguito dell'investimento di un autocarro, citavano in giudizio la compagnia assicurativa dell'automezzo ed i responsabili dell'evento al fine di vederli condannati al risarcimento dei danni rispettivamente patiti. Nei due gradi di merito le domande della madre e dei fratelli era rigettata sul presupposto dell'assenza di prova di un'effettiva compromissione del rapporto affettivo in essere al momento del fatto, mentre quella della moglie e dei figli era accolta, ma il danno non patrimoniale sofferto da costoro doveva essere ragguagliato alla realtà socio-economico in cui vivono i soggetti danneggiati (Romania). La Corte di Cassazione accoglieva il ricorso ed annullava la sentenza di seconde cure rilevando da un lato che la realtà socio-economica nella quale vive la vittima di un fatto illecito era del tutto irrilevante ai fini della liquidazione del danno aquiliano, dall'altro che in caso di morte di un prossimo congiunto, la sofferenza del familiare superstite può presumersi.

La questione

La questione in esame è la seguente: in caso di morte di un familiare, il dolore del congiunto sopravvissuto può presumersi?

Le soluzioni giuridiche

Nella pronuncia in commento, fermo restando che secondo il riparto dell'onere della prova ex art. 2697 c.c., spetta al danneggiante dimostrare i fatti costitutivi della sua pretesa, e di conseguenza l'esistenza del danno, tuttavia per la Suprema Corte, tale prova può essere fornita anche attraverso presunzioni semplici, ovvero invocando massime di esperienza e l'id quod plerumque accidit.

Da quanto precede, la Corte di Cassazione trae la conseguenza che in caso di danno per perdita del rapporto parentale (uccisione di coniuge, genitore, figlio, fratello), l'esistenza stessa del rapporto di parentela deve far presumere, secondo l'id quod plerumque accidit, la sofferenza del familiare superstite, giacché tale conseguenza è per comune esperienza è, di norma, connaturale all'essere umano.

Naturalmente si tratterà pur sempre d'una praesumptio hominis, con la conseguente possibilità per il convenuto di dedurre e provare l'esistenza di circostanze concrete dimostrative dell'assenza di un legame affettivo tra la vittima ed il superstite.

Ne consegue che, nella fattispecie esaminata, non spettava alla madre ed ai fratelli della vittima provare di avere sofferto per la morte del rispettivo figlio e fratello, ma sarebbe stato onere dei convenuti provare che, nonostante il rapporto di parentela, la morte del congiunto aveva lasciato indifferente la madre ed i fratelli della vittima.

Da tempo i giudici di legittimità hanno affermato che la morte di un congiunto, conseguente a fatto illecito, configura per i superstiti del nucleo familiare un danno non patrimoniale diretto ed ingiusto, costituito dalla lesione di valori costituzionalmente protetti e di diritti umani inviolabili, quali la perdita di affetti e di solidarietà inerenti alla famiglia come società naturale e, tale danno, incidendo esclusivamente sulla psicologia, sugli affetti e sul legame parentale esistente tra la vittima dell'atto illecito e i superstiti, non è riconoscibile se non attraverso elementi indiziari e presuntivi che, opportunamente valutati, con il ricorso ad un criterio di normalità, possano determinare il convincimento del giudice in ordine alla sussistenza di un bene leso e da tutelare (quello derivante del vincolo familiare), senza che un requisito in via esclusiva o condizionante (la coabitazione), ne determini la sussistenza o meno (Cass. civ., n. 15019/2005).

La sentenza in commento si pone in linea con l'orientamento secondo il quale in tema di danno non patrimoniale - nel caso di specie dovuto ai parenti della vittima del delitto di cui all'art. 589 c.p. - non è necessaria la prova specifica della sussistenza di tale danno, ove sia esistito tra di essi un legame affettivo di particolare intensità, potendo a tal fine farsi ricorso anche a presunzione.

In tali casi (uccisione di un prossimo congiunto) ciò che rileva ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale è, fondamentalmente, il legame affettivo tra i congiunti, perfettamente idoneo a fondare, già di per sé (salvo prova contraria), la legittimazione attiva a pretendere il danno da morte del congiunto.

Con la conseguenza che il peculiare rapporto di ciascun familiare con la vittima, l'intensità del vincolo familiare, le abitudini di vita, le effettive sofferenze individualmente patite, l'eventuale sussistenza di una situazione di convivenza tra i soggetti in questione ed ogni altro elemento della fattispecie, possono incidere esclusivamente sul quantum, in modo da rendere la somma riconosciuta adeguata al particolare caso concreto.

La prova del danno morale è, infatti, correttamente desunta dalle indubbie sofferenze patite dai parenti, sulla base dello stretto vincolo familiare, di coabitazione e di frequentazione, che essi avevano avuto, quando ancora la vittima era in vita (Cass. civ., n. 16018/2010; Cass. civ., n. 10823/2007).

Non può essere obliterato quell'orientamento di legittimità che al fine di scongiurare il pericolo di dilatazione ingiustificata della platea delle vittime secondarie, ritiene che sebbene il fatto illecito, costituito dall'uccisione del congiunto, dia luogo ad un danno non patrimoniale presunto, consistente nella perdita del rapporto parentale, allorché colpisce soggetti legati da uno stretto vincolo di parentela, la cui estinzione lede il diritto all'intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che caratterizza la vita familiare nucleare, tuttavia, la risarcibilità della lesione del rapporto parentale subita da soggetti estranei a tale ristretto nucleo familiare (quali i nonni, i nipoti, il genero, o la nuora) è subordinata alla sussistenza di una situazione di convivenza.

In tale ipotesi la convivenza rappresenta quel connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l'intimità delle relazioni di parentela, anche allargate, contraddistinte da reciproci legami affettivi, pratica della solidarietà e sostegno economico, solo in tal modo assumendo rilevanza giuridica il collegamento tra danneggiato primario e secondario, nonché la famiglia intesa come luogo in cui si esplica la personalità di ciascuno, ai sensi dell'art. 2 Cost. (Cass. civ., n. 4253/2012).

Sotto altro aspetto, non può essere obliterato altro orientamento di legittimità a mente del quale, il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza che deve essere allegato e provato, neppure potendo condividersi la tesi che trattasi di danno in re ipsa, sicché dovrà al riguardo farsi ricorso alla prova testimoniale, documentale e presuntiva.

Così, è stato riconosciuto il risarcimento del danno non patrimoniale in favore del coniuge ancorché separato legalmente, purché si accerti che l'altrui fatto illecito abbia provocato quel dolore e quelle sofferenze morali che solitamente si accompagnano alla morte di una persona cara, pur essendo necessario a tal fine dimostrare che, nonostante la separazione, sussistesse ancora un vincolo affettivo particolarmente intenso (Cass. civ., n. 1025/2013), ed è stato pure precisato che lo status di separato - connettendosi alla sua non definitività e alla possibile ripresa della comunione familiare, oltre che, comunque, alla pregressa esistenza di un rapporto di coniugio nei suoi aspetti spirituali e materiali, e alla eventuale esistenza di figli - non è in astratto incompatibile con la posizione di danneggiato secondario (Cass. civ., n. 25415/2013). Inoltre, va pure rimarcato che ancorare il risarcimento del danno non patrimoniale da lesione del rapporto parentale alla convivenza tra il congiunto non ricompreso nella cd. famiglia nucleare e la vittima potrebbe essere fodero di un automatismo risarcitorio sicuramente da bandire.

Va da sé che per evitare la dilatazione ingiustificata dei soggetti danneggiati secondari e possibilità di prove compiacenti è sufficiente che sia fornita la prova rigorosa degli elementi idonei a provare la lamentata lesione e l'entità dei danni (Cass. civ., n. 23917/2013; Cass. civ., n. 1410/2011) e che tale prova sia correttamente valutata dal giudice.

Osservazioni

ll fatto illecito, costituito dalla uccisione del congiunto, dà luogo ad un danno non patrimoniale presunto, consistente nella perdita del rapporto parentale, allorché colpisce soggetti legati da uno stretto vincolo di parentela, la cui estinzione lede il diritto all'intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che caratterizza la vita familiare nucleare (Cass. civ., n. 4253/2012; Cass. civ., n. 16018/2010), con la precisazione che nella liquidazione del danno non patrimoniale da uccisione d'un familiare deve tenersi conto dell'intensità del relativo vincolo e di ogni ulteriore circostanza, quale la consistenza del nucleo familiare, le abitudini di vita, la situazione di convivenza (Cass. civ., n. 23917/2013).

In altri termini, l'uccisione di un congiunto, ponendo fine al rapporto parentale e quindi alla possibilità di essere genitore/fratello/coniuge della vittima, lede i superstiti nell'interesse alla intangibilità degli affetti reciproci e alla scambievole solidarietà che connota la vita familiare: questa preclusione delle reciproche relazioni interpersonali, conseguenza della lesione di diritti inviolabili che la Costituzione appresta nel quadro delle relazioni familiari, è inevitabilmente connessa al fatto storico della perdita, trovando fondamento la risarcibilità di danno ex art. 2059 c.c. proprio nella titolarità di una situazione qualificata dal contatto con la vittima (Cass. civ., Sez. Un., n. 9556/2002), contatto cui ha posto fine il decesso.

Per quanto riguarda i componenti del nucleo familiare deve ritenersi che il danno da perdita del rapporto parentale, conseguenza della lesione dei diritti costituzionali afferenti alla famiglia trova sufficiente supporto probatorio nella mera allegazione del fatto storico dell'uccisione del congiunto: provato il fatto-base della sussistenza dello stretto rapporto parentale con la vittima dell'illecito, può ritenersi provato presuntivamente non solo il dolore, ma anche che la privazione di quel rapporto determini negative ripercussioni interne ed esterne al nucleo familiare, ossia per l'appunto il danno da perdita del rapporto parentale, sicché il risarcimento di tale profilo di danno non pone ulteriori oneri probatori a carico dei superstiti danneggiati.

Pertanto, i parenti della vittima possono far valere iure proprio il danno ingiusto, patrimoniale e non patrimoniale, e possono domandarlo come danno conseguenza, valorizzando le prove indiziarie ed i fatti di comune esperienza in relazione ad un rapporto parentale costituzionalmente tutelato.

Al contrario, la fine di scongiurare il rischio che la prova presuntiva del danno possa avvantaggiare soggetti legati con il defunto da rapporti parentali per così dire diluiti, in tali casi utile aiuto può essere offerto dal rapporto di convivenza che se non può assurgere a connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l'intimità dei rapporti parentali ovvero a presupposto dell'esistenza del diritto in parola, la stessa costituisce elemento probatorio utile, unitamente ad altri elementi, a dimostrare l'ampiezza e la profondità del vincolo affettivo che lega tra loro i parenti e a determinare anche il quantum debeatur.