Possesso: anche tra coeredi gli atti di mera tolleranza escludono l'acquisto della proprietà per usucapione

Maurizio Tarantino
08 Giugno 2018

Chiamata ad accertare il regolare acquisto degli immobili per usucapione a seguito di possesso ininterrotto da parte dei coeredi, la Corte di Cassazione ha evidenziato che, nella vicenda in esame, il possesso non era stato esercitato in modo esclusivo e che non erano stati compiuti atti di estensione del possesso nei confronti dei gli altri eredi compossessori...
Massima

La transitorietà e saltuarietà del godimento del bene usufruito da parte del coerede rimasto nel possesso degli immobili rende equivoco il rapporto della stessa con la res, privando così il possesso di un elemento indefettibile. Difatti, la semplice tolleranza da parte dei legittimati, postula occasionalità e non già un esercizio sistematico e reiterato del potere di fatto sulla cosa. Ne consegue che il possesso esercitato in modo non esclusivo e in mancanza di atti di estensione del possesso nei confronti dei compossessori, rende invalido l'acquisto degli immobili per usucapione.

Il caso

Tizia aveva chiesto al giudice adito che fosse dichiarato per usucapione l'acquisto degli immobili. In particolare l'attrice evidenziava che i beni in esame risultavano intestati a Mevia (suocera di Tizia) e che, dal 1958 e continuativamente anche dopo il decesso di Mevia avvenuto nel 1979, gli immobili erano stati utilizzati esclusivamente dall'attrice e dal coniuge Filano, senza alcuna opposizione degli eredi e dei loro successori e ciò fino alla proposizione del giudizio.

Costituendosi in giudizio, i convenuti avevano contestato la domanda, asserendo che gli immobili erano stati abitati anche da altro erede (Calpurnio) fino al 1984 e che comunque l'attrice e Filano avevano utilizzato i beni per ragioni di ospitalità e in virtù del vincolo di parentela con la proprietaria; che anche dopo il decesso di Mevia, essi avevano occupato l'immobile senza compiere atti di interversione e per mera tolleranza degli altri eredi.Pertanto, i convenuti avevano chiesto di respingere la domanda e di procedere alla divisione dell'asse ereditario.

In primo grado, il Tribunale di Treviso ha rigettato la domanda di usucapione.

In secondo grado, la Corte d'Appello di Venezia ha confermato la sentenza di primo grado, asserendo che Tizia e Filano non avevano appreso il bene in via originaria ed autonoma ma avevano iniziato ad occuparlo quali detentori: dapprima quali ospiti della Mevia e quindi, dopo la morte di quest'ultima, per mera tolleranza degli altri eredi.

La Corte territoriale aveva precisato che fino al 1984 l'immobile era stato occupato anche dai convenuti e che gli altri chiamati avevano accettato l'eredità, acquisendo di diritto il possesso dei beni rientranti nell'asse.

Avverso tale pronuncia, Tizia ha proposto ricorso per cassazione, evidenziando che il rapporto con i beni poteva essere iniziato solo a titolo di possesso pieno in virtù della presunzione dell'art. 1141 c.c., non occorrendo atti di interversione, considerato che il coniuge di Tizia era nel possesso dei beni dal 1979. Inoltre, la ricorrente eccepiva che la sentenza aveva asserito che il possesso ad usucapionem era stato interrotto dalla coabitazione con gli altri eredi della de cuius, non considerando che tale interruzione poteva aver rilievo solo ove protratta per almeno un anno. Infine, secondo la ricorrente, la sentenza in esame non aveva considerato che gli atti di straordinaria manutenzione effettuati sugli immobili erano idonei ad estendere l'intero possesso.

La questione

Le questioni in esame sono le seguenti: la disponibilità dell'immobile non in forza di un atto di apprensione autonoma ma per ragioni di solidarietà familiare e di ospitalità, comporta l'acquisto della proprietà per usucapione? Gli atti di straordinaria manutenzione compiuti sugli immobili sono idonei a determinare l'estensione del possesso?

Le soluzioni giuridiche

Nel giudizio in esame, in merito al mutamento della detenzione in possesso (art. 1141 c.c.), gli ermellini hanno escluso che potesse invocarsi la presunzione di possesso pieno, la quale, difatti, non opera quando la relazione con il bene derivi da un atto o da un fatto del proprietario a beneficio del detentore, poiché in tal caso l'attività del soggetto che dispone del bene non corrisponde all'esercizio di un diritto reale, non essendo svolta in opposizione al proprietario.

Pertanto - secondo la Suprema Corte - una volta stabilito che il potere di fatto era iniziato a titolo di detenzione, correttamente la sentenza di merito ha ritenuto necessario un atto d'interversione idoneo a provare, con il compimento di idonee attività materiali, il possesso utile ad usucapionem in opposizione al proprietario concedente, atto di cui i giudici di legittimità hanno però escluso che vi fosse prova (Cass. civ., sez. II,14 ottobre 2014, n. 21690; Cass. civ., sez. II, 15 marzo 2005, n. 5551; Cass. civ., sez. II, 13 settembre 2004, n. 18360; Cass. civ., sez. II, 22 gennaio 1994, n. 622; Cass. civ., sez. II, 4 dicembre1995, n. 12493).

Quanto all'altra censura (interruzione del possesso per la coabitazione degli altri eredi), gli ermellini hanno evidenziato che dalla documentazione in atti, era emerso che gli attori avevano iniziato a detenere l'immobile per spontanea concessione della proprietaria e che non avevano posseduto in forma esclusiva neppure dopo l'apertura della successione di Mevia. Difatti solo da tale momento Filano e Tizia avevano acquistato il possesso (quale erede accettante) e limitatamente alla quota ereditaria. Sicché era da escludersi che questi avessero esteso il possesso all'intero tanto da usucapire le altre quote.

Per meglio dire - secondo la Cassazione - il possesso non era stato esercitato in modo esclusivo e che non erano stati compiuti atti di estensione del possesso nei confronti dei compossessori. Infine, quanto agli atti di straordinaria manutenzione compiuti sugli immobili in esame, la Corte di legittimità ha precisato che si trattava di meri atti di gestione della massa, inidonei ad estendere il possesso all'intero, non considerando che non poteva esserci alcuna massa ereditaria prima del decesso di Mevia; mentre, per il periodo successivo all'apertura della successione, tali attività costituivano atti di signoria esclusiva sull'immobile. Per le ragioni esposte, con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso di Tizia e per l'effetto ha confermato la sentenza della Corte territoriale di Venezia.

Osservazioni

Chi usucapisce un bene lo fa perché lo ha posseduto (in modo chiaro e percepibile da tutti) per un determinato periodo di tempo. In particolare per la configurabilità del possesso ad usucapionem, è necessaria la sussistenza di un comportamento continuo e non interrotto, inteso inequivocabilmente ad esercitare sulla cosa, per tutto il tempo all'uopo previsto dalla legge, un potere corrispondente a quello del proprietario o del titolare di uno ius in re aliena (Cass. civ., sez. II, 9 agosto 2001, n. 11000); quindi, un potere di fatto, corrispondente al diritto reale posseduto, manifestato con il compimento puntuale di atti di possesso conformi alla qualità e alla destinazione della cosa e tali da rilevare, anche esternamente, una indiscussa e piena signoria sulla cosa stessa contrapposta all'inerzia del titolare del diritto (Cass. civ., sez. II, 23 maggio 2012 n. 8158).

Tuttavia, in ambito di possesso, occorre considerare anche un aspetto importante: i c.d. atti di tolleranza. In argomento l'art. 1144 c.c. precisa che «gli atti compiuti con l'altrui tolleranza non possono servire di fondamento all'acquisto del possesso». In altri termini, se un soggetto esercita un potere di fatto su di un bene per mera tolleranza del proprietario, la condotta del primo non integra gli estremi del possesso e conseguentemente non vale ai fini del possesso ad usucapionem.

La giurisprudenza di legittimità, in più occasioni, ha specificato che gli atti di tolleranza sono quelli che implicano un elemento di transitorietà e saltuarietà. In pratica, secondo l'orientamento giurisprudenziale, questi atti comportano un godimento di modesta portata, incidente molto debolmente sull'esercizio del diritto da parte dell'effettivo titolare o possessore, e soprattutto traggono la loro origine da rapporti di amicizia o familiarità.

Dunque, tali atti, mentre a priori ingenerano e giustificano la permissio, a posteriori conducono per converso ad escludere nella valutazione la presenza di una pretesa possessoria sottostante al godimento derivatone (Cass. civ., sez. II, 20 febbraio 2008, n. 4327). Diversamente, nel caso dei rapporti di amicizia e di buon vicinato, se l'utilizzazione del bene altrui dura per un lungo periodo, la situazione si evolverebbe in vero e proprio “possesso”, il che legittimerebbe la formazione dell'usucapione (Cass. civ. sez. II, 4 agosto 2015, n. 16371).

Alla luce di tutto quanto innanzi esposto, si evidenzia che le indagini volte a stabilire se determinate attività pongano in essere una situazione di possesso utile ai fini dell'usucapione, ovvero siano dovute a mera tolleranza di chi potrebbe opporvisi (ai sensi dell'art. 1144 c. c.), è attività riservata al giudice di merito e implica un apprezzamento di fatto.

Quindi, con riferimento ai beni in comunione ai fini dell'usucapione del bene non è sufficiente il solo possesso perché possa maturare l'usucapione a favore di uno dei partecipanti, occorrendo un comportamento materiale che esteriorizzi sin dall'inizio in maniera non equivoca l'intento di possedere il bene in maniera esclusiva (in tal senso, v. Cass. civ., sez. II,18 luglio 2013, n. 17630).

Guida all'approfondimento

De Giorgi, L'usucapione. Aspetti sostanziali e profili processuali controversi, Milano, 2012, 192;

Bregante, Le azioni a tutela del possesso, Torino, 2012, 69;

Mazzon, Il possesso, Padova, 2011, 18;

Gennari, Successioni e donazioni: percorsi giurisprudenziali, Milano, 2009, 35.

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