Rinuncia “diffusa e sistematica” ai compensi per le prestazioni professionali: valido l'accertamento induttivo

13 Giugno 2018

L'elevato numero di prestazioni gratuite rese dal professionista nei confronti di terzi clienti e la complessità delle stesse, sono elementi idonei a far ritenere inattendibile la contabilità e, conseguentemente, a consentire di procedere con l'accertamento induttivo ai sensi dell'articolo 39, comma 2, del d.P.R. n. 600/1973.
Massima

La rinuncia “diffusa e sistematica” ai compensi per le prestazioni professionali, anche di non modico valore, rese sia dinanzi ai giudici di pace che al Tribunale, civile ed amministrativo, connota di gravità, precisione e concordanza le presunzioni di maggiori redditi accertati induttivamente dall'Amministrazione finanziaria ai sensi dell'art. 39, secondo comma, del d.P.R. n. 600/1973, trattandosi di comportamento che, tenuto conto del numero esiguo delle fatture emesse e dell'esiguità del reddito dichiarato, confligge con le elementari regole di ragionevolezza, non superabili dalle dichiarazioni rese da alcuni clienti, in quanto prive di intrinseca credibilità.

Il caso

Nel caso che ha formato oggetto dell'ordinanza in esame, l'Agenzia delle Entrate aveva provveduto a determinare il maggior reddito di un professionista (avvocato), reo di aver emesso poche fatture e dichiarato un reddito esiguo rispetto alle cause effettivamente trattate, facendo applicazione della modalità di accertamento induttiva.

L'avvocato, all'opposto, si era difeso adducendo di aver rinunciato a molti compensi.

Tale tesi era condivisa dal Primo Giudice.

Come noto, la determinazione del reddito derivante dall'esercizio per professione abituale di un'attività di lavoro autonomo sia per (1) i componenti positivi, sia per (2) i componenti negativi di reddito, è ispirata, ai sensi dell'art. 54 co. 1 d.P.R. n. 917/1986 al c.d. “principio di cassa” (cfr. R.M. 26.5.2000 n. 74/E), tanto potendosi evincere dalle espressioni (i) “percezione dei compensi” e (ii) “sostenimento di spese” (v. Cass. civ., n. 22579/2012).

Avverso tale decisione, l'Ufficio proponeva atto di appello principale presso la compente Commissione Regionale, la quale accoglieva l'appello proposto.

Nello specifico, la CTR campana riteneva che la rinuncia “diffusa e sistematica” da parte di un avvocato “ai compensi per le prestazioni professionali, anche di non modico valore, rese sia dinanzi ai Giudici di Pace che al Tribunale, civile ed amministrativo, connotava di gravità, precisione e concordanza, le presunzioni di maggiori redditi accertati induttivamente dall'Amministrazione finanziaria, d.P.R. n. 600/1973, ex art. 39, comma 2.

Quanto detto, in ragione del fatto che trattavasi di comportamento che, tenuto conto del numero esiguo delle fatture emesse e dell'esiguità del reddito dichiarato, confliggeva con le elementari regole di ragionevolezza, non superabili “dalle dichiarazioni rese da alcuni clienti, in quanto prive di intrinseca credibilità”.

Avverso tale decisione di secondo grado, il professionista proponeva Ricorso per Cassazione sulla base di tre motivi.

In particolare, con il secondo motivo, il ricorrente lamentava il presunto “cattivo esercizio da parte del giudice di merito del prudente apprezzamento delle prove”, giacché la decisione di secondo grado, era fondata su “circostanze niente affatto decisive”.

Difatti, a detta del contribuente, non poteva considerarsi decisivo il numero di prestazioni gratuite rese dal professionista, numero ritenuto erroneamente elevato dalla CTR Campania.

È ciò, anche in ragione del fatto che la retribuzione è un diritto patrimoniale disponibile (v. Cass. civ., n. 20269/2010, Cass. civ., n. 14227/2004 e Cass. civ., n. 7144/1998) e che l'onerosità del contratto d'opera intellettuale (v. art. 2330 c.c.), costituisce un elemento normale, ma non essenziale ai fini della sua validità (v. Cass. civ., n. 8787/2000 e Cass. civ., n. 7741/1999).

Ad ogni buon conto, la conclusione della CTR Campania, era condivisa dalla Cassazione la quale affermava, che la rinuncia “diffusa e sistematica” da parte di un avvocato ai compensi per le prestazioni professionali, anche di non modico valore, ne giustificava l'accertamento induttivo effettuato dall'Ufficio, trattandosi di comportamento che, “tenuto conto del numero esiguo delle fatture emesse e dell'esiguità del reddito dichiarato, configgeva con le elementari regole di ragionevolezza”.

Laddove sussista un considerevole differenziale tra la realtà “raccontata” dalle scritture contabili e quella desunta a contrario secondo regole di ragionevolezza, infatti, non v'è dubbio che la metodologia induttiva di accertamento, sia quella più appropriata.

Tanto premesso, nell'ottica di eseguire controlli fiscali mirati, l'Amministrazione Finanziaria può controllare – verosimilmente mediante terminale, tramite accesso alle iscrizioni a ruolo che ormai avvengono in via telematica – i contenziosi instaurati dinanzi al Tribunale, civile e amministrativo, anche di valore elevato e confrontandole con le fatture emesse dal professionista.

Sulla scorta dell'esiguità dei compensi dichiarati nel periodo di imposta preso a riferimento è possibile – dice la Cassazione – ritenere inattendibile la contabilità e procedere con la rideterminazione induttiva dei maggiori redditi professionali.

Secondo l'ordinanza qui in commento, l'elevato numero di prestazioni gratuite rese nei confronti di terzi clienti e la relativa giustificazione addotta dal professionista di «rinuncia al compenso», sono elementi idonei a far ritenere inattendibile la contabilità e, conseguentemente, a consentire di procedere con l'accertamento fiscale.

E ciò vale, anche, nei confronti di quei professionisti che dichiarano, comunque, compensi congrui e coerenti agli studi di settore.

Ad avviso dei Giudici supremi, infatti, il ridotto numero delle fatture emesse e l'esiguità degli importi fatturati a titolo di compenso, a fronte delle numerose prestazioni di servizio professionale rese, confliggono con le più elementari regole di ragionevolezza.

Le questioni

Le questioni giuridiche sottese nel caso in esame, sono essenzialmente due.

La prima, invero, verte nello stabilire quale sia la metodologia corretta di accertamento per i soggetti obbligati alla tenuta delle scritture contabili.

L'Agenzia delle Entrate emetteva due differenti avvisi di accertamento in capo ad un professionista (avvocato), reo d'aver emesso un ridotto numero di fatture e dichiarato ridotti compensi a fronte di un considerevole numero di contenziosi trattati presso le competenti autorità giurisdizionali.

Data la peculiare fattispecie, l'Ufficio rettificava il dato dei compensi dichiarati, ricorrendo alla metodologia accertativa induttiva, ossia prescindendo interamente dalle scritture contabili del professionista.

Tale procedura di rettifica del reddito e del volume d'affari, sebbene contestata dal professionista fin dalle prime battute, era confermata tanto dalla Commissione Regionale, quanto dalla Suprema Corte.

Le seconda questione, invece, consiste nell'accertare se il Fisco possa contestare al professionista e, di conseguenza, riprendere a tassazione, le prestazioni d'opera rese a titolo gratuito.

Le soluzioni giuridiche

I° questione

Per i soggetti obbligati alla tenuta delle scritture contabili, il metodo ordinario di accertamento è quello analitico basato sulle risultanze della contabilità (c.d. metodo analitico-contabile, v. art. 39 co. 1 lett. a), b), c) d.P.R. n. 600/1973 e 54 co. 1 d.P.R. n. 633/1972).

Tale metodo è utilizzato dagli uffici qualora non sussistano i presupposti per l'utilizzo del metodo “analitico-induttivo” (es. attività non dichiarate) e “induttivo” (scritture irregolari o inesistenti).

Il metodo analitico, quindi, presuppone una contabilità nel complesso attendibile, alle cui risultanze sono apportate rettifiche che investono singole componenti positive o negative di reddito. Presuppone, altresì, maggiori garanzie, giacché il contribuente può beneficiare di una motivazione che chiarisce i motivi delle singole riprese, consentendo un più puntuale esercizio del diritto di difesa, nell'ambito di un contraddittorio analitico e non inseguendo vaghe presunzioni.

Il metodo analitico si basa, dunque, esclusivamente sulla contabilità ufficiale del contribuente, sulle relative risultanze di bilancio e del conto economico (per i soggetti tenuti alla redazione di questi documenti), nonché su quella delle dichiarazione dei redditi e, ai fini IVA, sul confronto fra la dichiarazione annuale e la liquidazione del tributo.

Accanto a tale metodo, è tuttavia previsto il c.d. metodo “analitico-induttivo”, secondo il quale l'esistenza di attività non dichiarate o l'inesistenza di passività dichiarate, è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti.

Trattasi di una sorta di “sottocategoria” rappresentata dagli accertamenti cosiddetti “analitico-induttivi” (co. 1 lett. d), secondo periodo, dell'art. 39 d.P.R. n. 600/1973 e al co. 2, secondo periodo, dell'art. 54 d.P.R. n. 633/1972.

A differenza dell'accertamento analitico, ove la censura sull'evasione deriva dalla violazione diretta di una norma, nell'accertamento presuntivo la suddetta censura prende le mosse dal ragionamento, appunto, presuntivo, effettuato dall'Agenzia delle Entrate.

Il contribuente, in tale ipotesi, deve riuscire a dimostrare che il ragionamento dell'Ufficio non è convincente, ovvero che le presunzioni non sono né gravi, né precise, né concordanti. In sostanza, partendo da alcuni dati analitici (contabili, oggettivi, vicende aziendali, ecc.), l'Ufficio determina induttivamente il reddito dell'impresa. Tali metodologie di controllo incidono sulla determinazione di singoli componenti, ma la qualificazione del reddito continua ad essere effettuata sulla base delle risultanze della contabilità di cui non viene contestata la complessiva attendibilità.

Proprio questa residua valenza della contabilità, è tale da distinguere gli accertamenti sopra descritti da quelli c.d. induttivi-extracontabili (previsti dall'art. 39, comma 2, d.P.R. n. 600/1973) nei quali, invece, la gravità delle violazioni contabili, è tale da consentire all'Ufficio di prescindere completamente dalle risultanze della contabilità stessa.

In tal caso, il maggior reddito può essere accertato sulla base di presunzioni semplici, anche prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.

Ciò premesso, nel caso oggi in commento l'Ufficio aveva provveduto a rettificare induttivamente reddito e volume d'affari del professionista, atteso che il reddito dichiarato era esiguo e il numero delle fatture emesse erano ridotto, soprattutto se tale dato era confrontato col numero di contenziosi trattati.

In breve, l'Ufficio aveva ritenuto che l'omessa fatturazione di corrispettivi conseguiti nello svolgimento di attività professionale, giustificava ampiamente il ricorso al tipo di accertamento induttivo espletato, poiché si era al cospetto d'irregolarità contabili talmente gravi da determinare un'inattendibilità globale delle stesse scritture.

Per l'effetto, i funzionari erano autorizzati a prescindere interamente dalle stesse ed a procedere in via induttiva, avvalendosi anche di semplici indizi, sforniti dei requisiti necessari per costituire prova presuntiva.

Tale tesi è stata ampiamente condivisa dalla Suprema Corte, la quale ha affermato che laddove il numero delle prestazioni rese a titolo gratuito dal professionista sia talmente elevato da rendere inattendibile l'impianto contabile (v. Cass. civ., n. 13735/2016), è legittimo il ricorso da parte dell'Ufficio al metodo d'accertamento induttivo (v. Cass. civ., n. 6215/2018).

II° questione

Tanto premesso, l'onerosità del contratto d'opera (cioè il contratto di lavoro autonomo che lega, ad esempio, l'avvocato, alle varie parti assistite), pur essendo un elemento normale dello stesso, non ne costituisce un elemento essenziale (v. Cass. civ., n. 21251/2007 e Cass. civ., n. 16966/2005), in quanto le parti possono escludere il diritto del professionista al compenso (v. Cass. civ., n. 7003/2001).

Addirittura conforme giurisprudenza di legittimità, ha ritenuto che l'inderogabilità delle tariffe (v. art. 24, L. 794/1942), non comporta l'illegittimità (v. Cass. civ., n. 14227/2004 e Cass. civ., n. 7144/1998) della rinuncia, totale o parziale, al compenso laddove essa sia motivata da particolari esigenze etico-sociali, oltre che di amicizia e parentela, anche di semplice convenienza (v. Cass. civ., n. 17975/2017).

La prestazione d'opera del professionista può, infatti, essere gratuita - in tutto o in parte - per ragioni, oltre che di amicizia e parentela (v. Cass. civ., n. 21972/2015), anche di convenienza (v. Cass. civ., n. 20269/2010) e ciò in ragione dell'autonomia delle proprie scelte professionali, le quali possono trovare un'adeguata giustificazione nell'affectio, come nella benevolentia, ovvero ancora in considerazioni di ordine sociale o di convenienza, anche con riguardo ad un personale ed indiretto vantaggio (v. Cass. civ., n. 10393/1994).

Addirittura il professionista, nell'arco dell'anno, potrebbe svolgere attività professionale senza richiedere alcun compenso, anche al fine d'aumentare la propria notorietà (CTR Lombardia Milano 99/4/2010) o per altri personali motivi.

Lo stesso Consiglio di Stato, di recente, si è pronunciato favorevolmente sulla possibilità in capo alla P.A. di procedere all'interno di un bando di gara, al conferimento d'incarichi professionali a titolo gratuito (v. Consiglio di Stato n. 4614/2017).

A detta dell'organo giudicante, infatti, è possibile ritenere che l'operatore economico presenti legittimamente un'offerta gratuita, perché potrebbe mirare non al corrispettivo in denaro ma ad altri vantaggi, non direttamente finanziari ma comunque economicamente apprezzabili, potenzialmente derivanti dal contratto quali, ad esempio, il ritorno di immagine o la crescita in termini d'esperienza professionale.

A maggior ragione che la determinazione del reddito derivante da attività di lavoro autonomo è ispirata, ai sensi dell'art. 54 del TUIR (d.P.R. n. 917/1986), al cosiddetto “principio di cassa”, secondo il quale i componenti di reddito assumono rilievo, solo nel momento in cui avvengono i pagamenti e gli incassi (v. Cass. civ., n. 8626/2011).

Ed ancora, le prestazioni rese dai professionisti a titolo gratuito, non sono assoggettate ad IVA: difatti, dette prestazioni di servizi sono escluse dall'applicazione dell'IVA, in quanto nell'art. 3, comma 3, d.P.R. n. 633/1972, si afferma la rilevanza soltanto di quelle di valore superiore ad € 50,00, rese per finalità estranee all'esercizio dell'impresa.

Ad ogni modo preme segnalare che nonostante l'atteggiamento dell'Amministrazione finanziaria nei confronti delle prestazioni gratuite rese dai professionisti, sia di un certo scetticismo, la stessa Agenzia, in passato, ne ha riconosciuto la possibilità, consigliando agli uffici periferici di verbalizzare la giustificazione del professionista e provvedere alla verifica di quanto asserito, tramite controlli incrociati (v. Circolare n. 84/E del 28 settembre 2001, parte n. 12).

Per completezza di narrazione deve evidenziarsi che in alcune isolate e sporadiche pronunzie, i Giudici hanno sostenuto che, laddove il professionista intenda declinare il pagamento dei compensi, dovrebbe egualmente fatturare la prestazione ed accollarsi l'onere fiscale (v. CTP Ancona n. 1279/3/2016).

Ne conseguiva la legittimità dell'accertamento dei maggiori compensi in capo ad un professionista, il quale aveva dichiarato di aver prestato la propria opera a titolo gratuito (v. Cass. civ., n. 1915/2008).

Tornando al caso esaminato dai Supremi Giudici, nel caso del professionista ricorrente, a fronte di un rilevante numero di prestazioni gratuite, il secondo Giudice aveva valorizzato tale dato al fine di rendere non attendibile la contabilità e legittimare la rettifica induttiva.

Tale indirizzo è stato condiviso dal Supremo Consesso.

Le conclusioni della Suprema Corte di Cassazione

Sul punto, la Suprema Corte di Cassazione ha affermato che nonostante non siano contestabili, da parte degli Uffici delle Entrate, le prestazioni rese a titolo gratuito a favore di parenti, amici, soci di società già clienti a pagamento dello studio e di altre persone in grado di incrementare la clientela (v. Cass. civ., n. 21972/2015), la rinuncia “diffusa e sistematica” ai compensi per le prestazioni professionali, anche di non modico valore, rese sia dinanzi ai giudici di pace che al Tribunale, civile ed amministrativo, connota di gravità, precisione e concordanza, le presunzioni di maggiori redditi accertati induttivamente dall'Amministrazione finanziaria ai sensi dell'art. 39, secondo comma, del d.P.R. n. 600/1973, trattandosi di comportamento che, tenuto conto del numero esiguo delle fatture emesse e dell'esiguità del reddito dichiarato, confligge con le elementari regole di ragionevolezza (v. Cass. civ., n. 6215/2018).

Osservazioni

Con la sentenza in commento, i Giudici della Sezione Tributaria prendono posizione sulla gratuità delle prestazioni professionali.

In breve, se per un professionista è senz'altro possibile lavorare gratis per parenti o amici, soprattutto se si verificano certe condizioni (ad esempio la semplicità della prestazione o la necessità di farsi conoscere), deve segnalarsi che qualora il numero di prestazioni rese gratuitamente, sia in un rapporto di maggioranza rispetto a quelle a titolo oneroso e/o che tali prestazioni siano, per lo più, “complesse”, l'atteggiamento di scetticismo dell'AF, appare giustificato.

In tali circostanze, a detta della Suprema Corte, sarà legittima la rettifica induttiva, volta a riprendere a tassazione eventuali compensi in nero.

Ciò premesso, data la possibilità per il professionista di rendere prestazioni gratuite, appare legittimo chiedersi quali mezzi di prova (preventivi), egli potrà predisporre, al fine di sovvertire l'avversa ricostruzione dei compensi.

In tal senso, è sicuramente utile la predisposizione di lettere di incarico professionale avente data certa ove si evinca, chiaramente, la gratuità della prestazione e le motivazioni per le quali non è previsto uno specifico corrispettivo a fronte delle prestazioni rese, può essere un valido elemento probatorio. A tal proposito deve ricordarsi che l'Amministrazione finanziaria - in quanto terzo - è pienamente legittimata a disconoscere ex art. 2704 c.c., gli effetti delle scritture private opposte per difetto di data certa (v. Cass. civ., n. 3404/2015, Cass. civ., n. 3937/2014, Cass. civ., n. 8535/2014 e Cass. civ., n. 29451/2008).

Concetto ribadito dalla Suprema Corte (v. Cass. civ., n. 7621/2017) che, di recente, ha affermato che “l'atto è opponibile all'Erario, ai sensi dell'art. 2704, cod. civ., solo quando ha data certa poiché solo la registrazione impedisce fittizie retrodatazioni con conseguente pregiudizio degli interessi erariali”.

In aggiunta, nel caso di prestazioni rese dai professionisti nei confronti di società, la documentazione societaria (es. delibere che stabiliscono il compenso dell'amministratore, lo statuto, mastrini contabili di cassa o banca e quelli riferiti al professionista), rappresenta un elemento difficilmente superabile dall'Agenzia delle Entrate.

Nei confronti dei soggetti privati, non tenuti ad obblighi di contabilità e/o di conservazione di documenti, oltre alla predisposizione di lettere di incarico professionale, il professionista potrà far ricorso alle dichiarazioni rese dagli stessi, che confermino la gratuità delle prestazioni rese nei loro confronti.

Tali dichiarazioni rivestono, però, valore di elementi indiziari, che richiedono, di conseguenza, la presenza ai fini probatori, di ulteriori elementi (v. Cass. civ., n. 6616/2018), quali potrebbero essere ravvisati nella congruità e la coerenza del professionista rispetto agli studi di settore o in eventuale documentazione bancaria, che possa comprovare la mancata percezione dei compensi richiesti dall'Agenzia delle Entrate.

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