Proporzionalità delle sanzioni tributarie e principio di colpevolezza

14 Giugno 2018

La condotta, per essere sanzionabile, deve essere rivelatrice di una volontà di occultare l'imposta, ovvero tesa al pagamento del dovuto secondo arbitrio o mera convenienza personale e non in ragione di differenti interpretazioni della disciplina di riferimento.
Massima

La condotta, per essere sanzionabile, deve essere rivelatrice di una volontà di occultare l'imposta, ovvero tesa al pagamento del dovuto secondo arbitrio o mera convenienza personale e non in ragione di differenti interpretazioni della disciplina di riferimento. Se tali interpretazioni, anche laddove non condivisibili, sono sorrette da argomentazioni logiche sostenibili in punto di diritto, non tenerne canto in sede di irrogazione della sanzione, comporterebbe la violazione del principio di proporzionalità.

Il caso

La Commissione Tributaria Provinciale di Firenze, con la sentenza n. 336/1/18 dell'11 aprile del 2018, ha espresso rilevanti principi che meritano un approfondimento.

Nel caso di specie, una società ricorreva avverso l'avviso di accertamento col quale l'Agenzia delle Entrate, contestando l'omessa presentazione della dichiarazione IVA nel corretto anno di imposta (anno 2011) e, quindi, ii ritardato pagamento della stessa nell'anno fiscale di pertinenza, aveva proceduto ad elevare sanzioni per importo pari a più di € 600.000,00.

La ricorrente impugnava quindi l'avviso di accertamento sotto molteplici profili, chiedendone l'annullamento per ragioni di diritto e comunque invocando l'inapplicabilità delle sanzioni ex artt. 8 D.lgs. n. 546/1992, e 10 dello Statuto dei Contribuenti, per violazione del principio di "proporzionalità".

Secondo la Commissione Tributaria Provinciale il ricorso era parzialmente fondato e le sanzioni irrogate andavano annullate per manifesta violazione del principio di proporzionalità.

I giudici di merito, evidenziano infatti che risultava comunque acclarato che, seppur in tempistiche diverse rispetto a quanto previsto dalla normativa di riferimento, l'IVA inerente le forniture oggetto di contestazione, era stata poi versata all'Erario.

E non emergevano contestazioni di condotte fraudolente, o in termini di omessa esibizione di documentazione.

La questione

La CTP sottolinea poi che il principio di proporzionalità è principio giuridico pacificamente applicabile all'Ordinamento tributario interno, diretta emanazione del principio di cui all'art. 6 CEDU, per cui, ove violato, ben possono essere disapplicate le norme interne e le relative sanzioni.

E, ai fini della corretta applicazione del citato principio, occorre ricordare come sia richiesto che la sanzione debba avere una duplice funzione, dissuasiva e repressiva, al fine di eliminare o ridurre comportamenti dolosi del contribuente, laddove, in ogni caso, deve sussistere una "proporzione" tra interesse pubblico tutelato e sanzione irrogata, di modo che questa non risulti irragionevolmente afflittiva (dei beni economici del contravventore) rispetto all'interesse tutelato.

E occorre, inoltre, afferma ancora la CTP, la sussistenza di un atteggiamento soggettivo adeguato in relazione alla condotta tenuta, tale da giustificare (cioè, rendere ragionevole) non solo l'applicazione della sanzione, ma altresì la sua "quantità".

Diversamente, le sanzioni elevate si rivelerebbero irragionevolmente lesive degli interessi (economici) del privato, nonchè (seppur in seconda battuta) della comunità e, quindi, non ammissibili.

Le soluzioni giuridiche

Tanto premesso, tornando al caso di specie, la CTP evidenzia che l'IVA in questione risultava comunque essere stata assolta, seppur in tempi non coincidenti con quelli corretti, risultando chiaro come la condotta tenuta dalla ricorrente non fosse stata improntata ad una volontà di occultare, ovvero tesa al pagamento del dovuto secondo arbitrio o mera convenienza personale, bensì solo basata su differenti interpretazioni della disciplina di riferimento.

Interpretazioni che, seppur non condivise (anche dalla CTP), pur tuttavia erano sorrette da argomentazioni logiche sostenibili in punto di diritto, con la conseguenza che non tenerne canto in sede di irrogazione della sanzione, avrebbe comportato la violazione del rispetto del citato principio di proporzionalità, sotto il duplice profilo della "colpevolezza", ed in particolare dell'elemento soggettivo posto a sostegno della condotta contestata e della corretta entità della sanzione.

La sanzione irrogata, nel caso di specie, si atteggiava invece come "oggettiva", applicata cioè per il solo fatto di avere "errato" nella corretta osservanza della norma impositiva, senza che fosse contestata alcuna condotta fraudolenta, o comunque dolosa, in capo al contribuente, non potendosi intendere come tale semplicemente quella di non aver proceduto al versamento IVA ed omesso la dichiarazione IVA.

Secondo la CTP, inoltre, l'irrogazione della sanzione era censurabile anche sotto il profilo della mancanza di motivazione, non potendosi ritenere assolto l'obbligo di motivazione per il solo fatto che la sanzione era stata applicata nella quota minima.

Peraltro, sottolineano i giudici, allorquando si acclari che la ragione sottesa all'asserita violazione è dipesa da serie considerazioni di diritto e non già da semplicistiche ragioni interpretative (queste sì rivelatrici di una volontà di arbitrio o di interesse economico proprio), necessariamente, di questo si deve tener canto nella graduazione della sanzione da elevarsi.

In conclusione, la colpevolezza che deve sorreggere la condotta contestata deve essere esplicitata, dovendosi comprendere le ragioni che hanno portato a ritenere meritevole di sanzione il contribuente ritenuto "colpevole" di avere volontariamente leso gli interessi economici di valenza pubblicistica.

Diversamente, come detto, secondo la CTP, la sanzione si rivelerebbe oggettiva ed irragionevole.

Oggettiva, in quanto solo ricollegata al fatto storico dell'omesso versamento nel corretto anno di riferimento.

Irragionevole, in quanto portatrice di un'afflittività slegata da ogni contestazione di condotta colpevolmente lesiva del bene pubblico tutelato dalle norme impositrici.

La CTP ritiene anche che lo stesso Legislatore interno reputa rilevante e necessaria la compresenza della lesione del bene tutelato e la colpevolezza nella relativa condotta violatrice.

E, a comprova di ciò, in tema di reati fiscali, richiama il recente intervento normativo di cui al D.lgs. n. 158/2015, che ha introdotto (art. 11) la modifica dell'art. 13 del D.lgs. n. 74/2000, prevedendo la non punibilità del fatto-reato in caso di successivo (prima dell'apertura del dibattimento) pagamento del debito tributario(comprensivo di sanzioni ed interessi).

La ratio sottesa a tale previsione, secondo la CTP, è quella per cui "riparato" il torto, non residua ragionevolezza nell'inflizione della sanzione penale, risultando prioritaria la tutela dell'integrità patrimoniale dello Stato (appunto ripristinata) e risultando sufficiente, a censura e punizione della condotta comunque occorsa, la "sanzione" amministrativa, con dunque rispetto della "proporzionalità" tra condotta del privato e reazione dello Stato.

Ma se così è, conclude la CTP, allora, anche in tema di (contestuale applicazione della) sanzione amministrativa (pagata dall'imputato unitamente al tributo) devono sussistere (coesistere) la colpevolezza, e la lesione patrimoniale all'Erario, la cui assenza non giustificherebbe la ragionevolezza dell'intervento punitivo (laddove, nel caso in esame, il versamento del dovuto, seppur in ritardo, era avvenuto).

La necessaria conseguenza della violazione dei criteri di proporzionalità, secondo la CTP, era dunque quella dell'annullamento delle sanzioni elevate, premessa la disapplicazione delle norme di riferimento (D.lgs. n. 472/1997).

Osservazioni

Tanto premesso, si evidenziano alcuni punti “deboli” del ragionamento del giudice di merito.

In primo luogo appare davvero troppo “soggettivo” lasciare alla valutazione di ciascun giudice quando la ragione sottesa all'asserita violazione sia dipesa da “serie considerazioni di diritto” (non sanzionabili), o da “semplicistiche ragioni interpretative” (sanzionabili), laddove tale valutazione è stata, evidentemente, già compiuta dal Legislatore, nell'ambito della previsione della sanzione adottabile.

In secondo luogo, sembra che la CTP non rilevi esattamente la differenza che comunque sussiste tra il piano delle sanzioni penali (a cui molti dei ragionamenti avanzati sembra fanno riferimento) e quello, invece, delle sanzioni amministrative/pecuniarie.

Non a caso, in base al principio del doppio binario, può del resto accadere che, proprio in vista delle differenti regole vigenti nei due processi (penale e tributario) in tema di presupposti della colpevolezza e di prova della stessa, il contribuente venga magari assolto in sede penale e condannato in sede tributaria.

E infatti l'efficacia vincolante del giudicato penale non opera automaticamente nel processo tributario, poichè in questo, da un lato, vigono limitazioni della prova (come il divieto della prova testimoniale) e, dall'altro, possono valere anche presunzioni inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna.

Anche laddove, quindi, il procedimento penale e quello tributario attengano alla medesima fattispecie, gli stessi fatti sono destinati intuitivamente ad assumere connotati differenti, attesi i differenti principi posti a presidio dell'elemento psicologico nei richiamati contesti.

Ed è su questo specifico aspetto che non bisogna fare confusione.

La responsabilità penale, infatti, quantomeno per ciò che attiene alla categoria dei delitti, cui appartengono tutte le fattispecie di cui al D.Lgs. n. 74/2000, è strettamente connessa alla coscienza e volontà dolosa dell'evento, fatte salve espresse eccezioni che possono risultare punite anche per effetto della negligenza, imprudenza ed imperizia, ossia solo per colpa.

La principale conseguenza che si viene a determinare in un simile scenario riguarda, appunto, l'onere della prova in ordine all'elemento soggettivo dell'agente, non potendo ipotizzarsi, in sede penale, un'inversione di tale onere.

Secondo quanto previsto dall'art. 1, comma 1, lettera f), dello stesso D.Lgs. n. 74/2000, risulterà, pertanto, in quel caso compito della pubblica accusa effettuare una compiuta ricostruzione probatoria sia delle varie fasi della condotta, che, con riferimento alla consapevolezza dell'antigiuridicità della stessa condotta, della volontà di ottenere l'evasione delle proprie imposte (come appunto sembra aver fatto il giudice tributario nella sentenza in commento).

Scenari assai differenti si prospettano invece per ciò che attiene all'ambito strettamente amministrativo di applicazione delle norme sanzionatorie tributarie, dove, in base all'art. 5, comma 1, del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472Nelle violazioni punite con sanzioni amministrative ciascuno risponde della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa”.

La previsione di sanzioni esclusivamente pecuniarie ha consentito infatti al legislatore di abbassare la soglia di “certezza” oltre la quale si perfeziona la punibilità fiscale del contribuente, prevedendosi anche forme indirette o presuntive di responsabilità.

Lo scenario è quindi del tutto diverso.

Tanto premesso, allora, le previsioni della CEDU, invocate nella sentenza in commento, non possono comportare uno stravolgimento del nostro sistema giuridico/processuale.

La ratio della sentenza in commento, probabilmente, si rifà invece proprio alla giurisprudenza CEDU, laddove numerose sentenze hanno stabilito, sulla base del concetto di ne bis ne idem, che il processo penale e il processo amministrativo tributario possono anche iniziare separatamente, ma, una volta che il primo (nel caso concreto il penale), è finito, questo impedisce di proseguire nel processo amministrativo (tributario), anche considerato che l'art. 4 del Protocollo della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo stabilisce che nessuno può essere perseguitato o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato.

E a tal proposito la CEDU, con le sentenze Grande Stevens contro Italia, del 04.03.2014, Nikanem/Finlandia 20.05.2014 e Luky Deu/Svezia del 27.12.2014, ha statuito infatti, come noto, che la soprattassa in materia fiscale ha, in linea generale, natura penale.

Il raffronto fra il diritto europeo e quello interno evidenzia però una sostanziale differenza, laddove, mentre l'art. 649 c.p.p. opera solo con riferimento ai processi penali, l'art. 4 Prot. n. 7 CEDU prescinde dalla formale qualificazione dell'illecito oggetto di giudizio come “reato”.

E infatti nel caso Grande Stevens il giudice di Strasburgo ha ritenuto che le conseguenze dell'illecito amministrativo (anche se, nel caso di specie, non tributario) fossero sanzioni sostanzialmente penali.

Solo seguendo tale impostazione si può dunque giustificare il ragionamento della CTP in commento, soprattutto in termini di inquadramento del principio di colpevolezza.

Secondo la consolidata giurisprudenza della Cassazione, tuttavia, il debito tributario non può dare origine a un'indebita duplicazione di procedimenti sostanzialmente penali, anche perché il nostro ordinamento, agli artt.19, 20 e 21 D.Lgs. n. 74/2000, disciplina espressamente i rapporti tra il sistema sanzionatorio amministrativo e i procedimenti penale e tributario.

In terzo e ultimo luogo (ma forse il più rilevante), la sentenza in commento desta perplessità anche sotto un altro profilo.

Il nostro Ordinamento (senza bisogno di ricorrere ai principi CEDU) già prevede quando le sanzioni possono essere disapplicate (combinato disposto art. 6, comma 2, del D.Lgs. n. 472/1997 e art. 8, D.Lgs, n. 546/1992).

E la Corte di Cassazione, in più occasioni, ha già chiarito quali debbano essere i presupposti in presenza dei quali le sanzioni, pur in presenza di violazione del precetto, non debbono essere comminate, specificando che il richiamo alla presunta buona fede è assolutamente inconferente, tenuto conto che le norme che escludono l'applicabilità delle sanzioni non fanno riferimento alla "buona fede", ma all'assenza di colpa, o all'obiettiva incertezza, o, infine, alla forza maggiore.

Con l'Ordinanza n. 21228 del 13.09.2017, per esempio, la Suprema Corte ha chiarito che il potere delle Commissioni tributarie di dichiarare l'inapplicabilità delle sanzioni sussiste quando la disciplina normativa si articoli in una pluralità di prescrizioni, il cui coordinamento appaia concettualmente difficoltoso, per l'equivocità del loro contenuto, derivante da elementi positivi di confusione, il cui onere di allegazione grava sul contribuente (cfr. Cass. civ., n. 22890/2006; Cass. civ., n. 7502/2009; Cass. civ., n. 3512/2012).

La Corte osserva poi che, in tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, l'incertezza normativa obiettiva, che costituisce causa di esenzione del contribuente dalla responsabilità amministrativa tributaria, postula una condizione di inevitabile incertezza sul contenuto, sull'oggetto e sui destinatari della stessa norma tributaria, ossia l'insicurezza ed equivocità del risultato conseguito attraverso la sua interpretazione.

E tale attività interpretativa, volta a chiarire il significato della disposizione tributaria, non è, tuttavia, riferibile ad un generico contribuente, né ai soggetti capaci di un'interpretazione qualificata e tanto meno all'Ufficio finanziario, bensì esclusivamente al giudice, in quanto rappresenta l'unico soggetto dell'ordinamento investito del potere-dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione normativa (cfr. Cass. civ., n. 24670/2007).

Pertanto, può ritenersi che una norma abbia un significato oggettivamente incerto, quando l'interpretazione che di essa abbia dato la giurisprudenza non sia appagante, in termine di certezza, poiché oscillante tra risultati ermeneutici differenti e non univoci.

La Suprema Corte ha inoltre provveduto a dettagliare i fatti indice configurabili come ipotesi di “incertezza oggettiva della norma tributaria”, individuandoli, tra gli altri:

1) nella difficoltà di individuazione delle disposizioni normative, dovuta al difetto di esplicite previsioni di legge;

2) nella difficoltà di confezione e determinazione del significato della formula dichiarativa della norma giuridica;

3) nella mancanza di una prassi amministrativa, o nell'adozione di prassi amministrative contrastanti;

4) nella mancanza di precedenti giurisprudenziali, o nella formazione di orientamenti giurisprudenziali contrastanti;

5) nel contrasto tra prassi amministrativa e orientamento giurisprudenziale.

6) nel contrasto tra opinioni dottrinali.

L'art. 8 del D.lgs. n. 546/1992 conferisce già, quindi, alle Commissioni Tributarie la possibilità di dichiarare non applicabili le sanzioni non penali previste dalle leggi tributarie quando la violazione è giustificata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull'ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferisce.

E tuttavia, non è ad una mera “ignoranza” soggettiva che il contribuente può fare appello, occorrendo, come detto, un'incertezza “oggettiva”, della cui qualificazione deve essere comunque arbitro il giudice, spettando peraltro al contribuente l'onere di allegare la ricorrenza degli elementi di confusione e dovendosi altrimenti escludere che il giudice possa decidere d'ufficio l'applicabilità dell'esimente, o che la questione possa essere tardivamente introdotta in corso di causa (cfr. Cassazione n. 20504 del 12 ottobre 2016).

Insomma, l'Ordinamento interno sembra già avere gli “anticorpi” per assicurare il rispetto del principio di proporzionalità.

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