No al contraddittorio obbligatorio se lo studio di settore è utilizzato come elemento di supporto

Francesco Brandi
09 Luglio 2018

Gli studi di settore costituiscono solo uno degli strumenti utilizzabili dall'Amministrazione finanziaria per accertare in via induttiva, pur in presenza di una contabilità formalmente regolare, ma intrinsecamente inattendibile, il reddito reale del contribuente: tale accertamento, infatti, può essere presuntivamente condotto anche sulla base del riscontro di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, a prescindere, quindi, dalle risultanze degli specifici studi di settore e dalla conformità alle stesse dei ricavi aziendali dichiarati.
Massima

Gli studi di settore costituiscono solo uno degli strumenti utilizzabili dall'Amministrazione finanziaria per accertare in via induttiva, pur in presenza di una contabilità formalmente regolare, ma intrinsecamente inattendibile, il reddito reale del contribuente: tale accertamento, infatti, può essere presuntivamente condotto anche sulla base del riscontro di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, a prescindere, quindi, dalle risultanze degli specifici studi di settore e dalla conformità alle stesse dei ricavi aziendali dichiarati. Altresì, l'Ufficio, ove consideri i dati desumibili dagli studi di settore, non è tenuto a verificare tutti i dati richiesti potendosi basare anche solo su alcuni elementi ritenuti sintomatici per la ricostruzione del reddito del contribuente.

Il caso

La vicenda riguarda un avviso di accertamento per Ires, Irap ed Iva, basato sull'indebita deduzione di costi fittizi per operazioni inesistenti e, quanto al lato dei componenti positivi, attraverso una ricostruzione corroborata dal dato dello studio di settore.

Sia la CTP che la CTR confermavano l'atto impositivo, rigettando le doglianze del contribuente che così proponeva ricorso per Cassazione denunciando, tra l'altro, violazione di legge (art. 39 d.P.R. n. 600/1973, 62-sexies del D.L. n. 331/1993, 2697 e 2729 c.c., 10 comma 3-bis della Legge n. 146/1998).

Secondo il contribuente la CTR avrebbe dovuto dichiarare l'illegittimità dell'accertamento in quanto basato sulle risultanze dello studio di settore ma senza l'instaurazione di un preventivo contraddittorio.

La questione

La questione fondamentale trattata dalla pronuncia in commento riguarda la valenza dello strumento dello studio di settore, in particolare quando venga utilizzato “solamente” come uno degli elementi atti a corroborare una ricostruzione induttiva dei ricavi. In questi casi uno degli interrogativi ce ci si pone è quello dell'obbligatorietà del contraddittorio preventivo: si tratta di una questione molto importante che potrebbe avere effetti dirompenti sul contenzioso pendente.

Le soluzioni giuridiche

Nel rigettare il ricorso la Cassazione rileva in primis che nel caso di specie l'accertamento è stato di tipo analitico-induttivo e non in base allo studio di settore, bensì, come rilevato dalla CTR, fondato sull'individuazione da parte dell'ufficio di fatture relative ad operazioni inesistenti.

Lo studio di settore è stato utilizzato solo quale criterio di valutazione della congruità della ricostruzione induttiva del reddito di impresa. Del resto, come ricorda un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, l'accertamento basato sugli studi di settore è solamente uno degli strumenti utilizzabili dall'amministrazione finanziaria per accertare in via presuntiva i ricavi dei contribuenti. In alternativa è possibile procedere al riscontro di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta. Di conseguenza, “anche a prescindere dagli studi di settore, è ben possibile all'amministrazione far leva su tali incongruenze a fini accertativi, essendo le stesse di per sé idonee ad evidenziare che le condizioni economiche della società presentano caratteristiche di stranezza, o comunque di singolarità, tali da renderle immediatamente percepibili come inattendibili secondo la comune esperienza”(cfr. Cass. civ., n. 20060/2014 e 6951/2017).

Inoltre l'Ufficio non è tenuto a verificare tutti i dati dello studio di settore, potendo basarsi anche solo su alcuni elementi ritenuti sintomatici per la ricostruzione del reddito del contribuente (cfr. Cass. civ., n. 16430/2011 e 10584/2013).

Nel caso affrontato da quest'ultima pronuncia l'Ufficio si era basato, in maniera del tutto legittima, sulle ore lavorative quali risultanti dallo studio di settore, ritenendo insufficiente il ricarico ad esse applicato; in tal modo rilevava un'incongruenza tale da legittimare l'inversione dell'onere probatorio. Tale modalità accertativa ha ricevuto l'avallo della giurisprudenza di legittimità che ha ribadito che l'Ufficio è legittimato a fondare le sue ricostruzioni anche soltanto su alcuni elementi risultanti dallo studio di settore (non ovviamente i ricavi), quando da questi si desuma un'incongruenza rispetto ai ricavi/compensi dichiarati.

In conclusione, il ricorso ai dati dello studio di settore è stato considerato nell'ambito di un accertamento analitico induttivo quale elemento presuntivo utilizzato assieme alla fittizietà delle operazioni ai fini della rideterminazione del reddito di impresa.

Non risulta violata quindi la disciplina sugli studi di settore.

Osservazioni

Con le sentenze n. 26635, n. 26636, n. 26637 e n. 26638, depositate il 18 dicembre 2009 la Cassazione ha definitivamente chiarito che la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l'applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sé considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell'accertamento, con il contribuente. In tale sede, quest'ultimo ha l'onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l'esclusione dell'impresa dall'area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o la specifica realtà dell'attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell'atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell'applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente.

L'esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l'impugnabilità dell'accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l'applicabilità degli “standards” al caso concreto, da dimostrarsi dall'ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all'invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte. In tal caso, però, egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto l'ufficio può motivare l'accertamento sulla sola base dell'applicazione degli “standards”, dando conto dell'impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all'invito (cfr Cass. civ., sez. un., n. 26635/2009 e 11633/2013).

Con circolare n. 19/E del 14 aprile 2010, l'Agenzia delle Entrate ha fornito istruzioni per la gestione del contenzioso pendente in materia di accertamento basato sugli studi di settore, alla luce dei principi sopraindicati.

Il documento di prassi ha evidenziato tra l'altro che:

  • nell'ambito della procedura di accertamento basato sugli studi di settore il contraddittorio rappresenta l'elemento determinante per adeguare alla concreta realtà economica del contribuente l'ipotesi dello studio di settore;
  • nel rispetto delle regole del giusto procedimento e del principio di cooperazione tra amministrazione finanziaria e contribuente, l'Ufficio ha l'obbligo di invitare il contribuente a fornire, in contraddittorio, i propri chiarimenti;
  • la mancata attivazione del contraddittorio comporta l'assenza di un elemento essenziale e imprescindibile del giusto procedimento che legittima l'azione amministrativa.

Nei casi in cui l'ufficio abbia effettivamente avviato la fase del contraddittorio, le Sezioni unite hanno affermato che la motivazione dell'atto di accertamento, per essere congrua, deve illustrare le “ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente in sede di contraddittorio”.

Al riguardo, nella Circolare n. 19/E del 2010 si è precisato che non è configurabile una carenza di motivazione dell'atto, quando dette ragioni siano state esplicitate dall'Ufficio in sede di contraddittorio e riportate nel relativo verbale ovvero siano comunque desumibili dal medesimo verbale, consegnato al contribuente e quindi da questi conosciuto.

Di contro, qualora a seguito dell'invito al contraddittorio il contribuente sia rimasto inerte, la motivazione dell'atto può basarsi unicamente sull'applicazione dello studio di settore, con riferimento allo standard utilizzato.

L'inerzia del contribuente – peraltro - potrà essere valutata dal giudice nel complessivo quadro probatorio.

La stessa Agenzia delle Entrate, anticipando per certi versi l'affermazione del principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite nel 2009, aveva avuto modo di precisare che “la motivazione degli atti di accertamento basati sugli studi di settore non deve essere di regola rappresentata dal mero, ‘automatico' rinvio alle risultanze degli studi di settore, ma deve dare conto in modo esplicito delle valutazioni che, a seguito del contraddittorio con il contribuente, hanno condotto l'ufficio a ritenere fondatamente attribuibili i maggiori ricavi o compensi determinati anche tenendo conto degli indicatori di normalità” (circolare 5/E del 2008).

Tale principio è stato ribadito anche successivamente, nella citata circolare n. 19/2010, dove emerge, con evidenza, la centralità del contraddittorio precontenzioso, la cui omissione vizia i conseguenti avvisi di accertamento.

In riferimento alla distribuzione dell'onere della prova in giudizio, invece, il documento di prassi sottolinea che, da una parte, l'ente impositore deve dimostrare l'applicabilità dello standard prescelto nel caso concreto oggetto dell'accertamento, dall'altra il contribuente deve provare le condizioni che giustificano l'esclusione dell'impresa dall'area dei soggetti cui possano essere applicati gli standard o della specifica realtà dell'attività economica nel periodo di tempo cui l'accertamento si riferisce.

Ad esempio è significativa una recente pronuncia della Cassazione secondo cui è nullo l'accertamento basato sugli studi di settore nel caso di non normale svolgimento dell'attività dovuta alla crisi economica del settore edile: in tal caso, infatti, l'amministrazione finanziaria avrebbe dovuto effettuare una specifica verifica (cfr. Cass. civ., n. 12273/2018).

Ancora, è illegittimo l'accertamento a carico del professionista basato sullo scostamento del reddito dichiarato da parametri o studi di settore qualora il contesto sociale in cui si trova lo studio sia degradato e la clientela abbia scarse capacità reddituali cfr. 25929/2017).

Infine con ordinanza 28563/2017 la Corte ha stabilito che è nullo l'accertamento che si fonda sugli studi di settore quando la società ha come cliente solo la pubblica amministrazione. Di fronte a una tale giustificazione da parte del contribuente l'Agenzia delle Entrate deve prendere atto che il reddito di impresa è senz'altro più basso rispetto a quello di chi fornisce i privati.

Di certo, l'Amministrazione finanziaria può procedere all'accertamento laddove lo scostamento tra valori dichiarati e quelli presunti (valore puntuale) rappresenti una grave incongruenza, come indicato dall'articolo 62-sexies, comma 3, del D.L. n. 331/1993, anche se gli scostamenti di più modesta entità “potranno essere considerati come elementi da utilizzare autonomamente da altri elementi disponibili o acquisibili con gli ordinari poteri istruttori” (circolare n. 31/2007).

A tal proposito si segnala anche una pronuncia della CTP di Caltanissetta (n. 174/1/15) secondo cui non può essere sufficiente un lieve scostamento a giustificare un avviso di accertamento basato sugli studi di settore. Per legittimare un'azione accertativa dell'amministrazione finanziaria, gli studi di settore (che rappresentano pur sempre un sistema di presunzioni semplici) devono rivelare una grave incongruenza rispetto ai dati dichiarati dal contribuente, spostando su quest'ultimo l'onere della prova contraria. Del resto è la legge stessa ad attribuire tale forza al predetto strumento: l'art. 62-sexies del D.L. n. 331/1993, nel suo combinato disposto con l'art. 39, comma 1, lettera d), del d.p.R. n. 600/1973, dispone che gli accertamenti analitico-induttivi previsti da quest'ultima disposizione possono essere fondati anche sull'esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli "studi di settore".

Per gravi incongruenze si intendono quei dati contabili e quei risultati di bilancio contrari ai canoni della ragionevolezza e di una sana gestione aziendale, non essendo certamente tali differenze contabili che, come nel caso di specie, hanno dato luogo ad uno scostamento in termini percentuali solamente del 7,8% rispetto ai ricavi dichiarati. Secondo i giudici, tale scostamento irrisorio, non accompagnato da altri elementi di riscontro della presunta evasione, non può giustificare l'avviso di accertamento.

Ad ogni modo lo studio di settore può anche essere utilizzato a supporto dell'avviso di accertamento basato su altri elementi. In questi casi è ormai pacifico, secondo la giurisprudenza di legittimità, che l'obbligatorietà del contraddittorio preventivo è richiesta unicamente in caso di utilizzo esclusivo degli studi di settore, non estendendosi all'ipotesi in cui l'accertamento sia motivato anche con riguardo ad elementi ulteriori, volti ad integrare i dati indice (cfr., da ultimo, Cass. civ., n. 12020/2018). Nel caso di specie la CTR aveva valorizzato il comportamento antieconomico tenuto dal contribuente nonché altre incongruenze desunte dall'anagrafe tributaria nel corso di una pluralità di anni presi in considerazione; tutti questi elementi erano stati valorizzati per desumere in via induttiva, sulla base di presunzioni semplici, ma gravi, precise e concordanti, il reddito del contribuente utilizzando le incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta.

Di conseguenza, dato che lo studio di settore rappresenta solo uno degli elementi utilizzati per l'accertamento, che si basava sostanzialmente sulla constatazione di una condotta antieconomica del contribuente desunta da vari indici, non andava applicata la regola del contraddittorio obbligatorio.