Criteri di liquidazione del danno ambientale ed ambito di estensione

Cesare Trapuzzano
30 Luglio 2018

Con riferimento al risarcimento del danno ambientale, sono sufficienti i meri dati relativi all'an, ai fini di ritenere che nel periodo oggetto della domanda vi sia stato un apprezzabile e significativo apporto di sostanze inquinanti?
Massima

La liquidazione del danno ambientale per equivalente è ormai esclusa alla data di entrata in vigore della l. n. 97 del 2013, ma il giudice può ancora conoscere della domanda pendente alla data di entrata in vigore della menzionata legge, in applicazione del nuovo testo dell'art. 311 d.lgs. n. 152 del 2006 (come modificato prima dall'art. 5 bis, comma 1, lett. b, d.l. n. 135 del 2009 e poi dall'art. 25 l. n. 97 del 2013), individuando le misure di riparazione primaria, complementare e compensativa e, per il caso di omessa o imperfetta loro esecuzione, determinandone il costo, da rendere oggetto di condanna nei confronti dei soggetti obbligati.

Il caso

Una società impegnata nel ramo delle attività diversificate, avente la forma di S.p.A., e i suoi dirigenti, nonché il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare (di seguito, per brevità, MATTM), hanno impugnato la sentenza del Tribunale di Torino, la quale, decidendo sulle domande avanzate dal MATTM, ha condannato la società e ciascun dirigente al risarcimento del danno arrecato all'ambiente durante l'attività svolta negli anni 1990-1996 nello stabilimento industriale sito in Pieve Vergonte. Per tale titolo il Tribunale ha condannato i citati convenuti al pagamento di consistenti somme, liquidate ai sensi dell'art. 18 della l. n. 349 del 1986; la società ed i dirigenti sono stati condannati anche al pagamento di tutte le spese del processo.

La società ed i dirigenti, spiegando appello in via principale, hanno censurato:

a. l'operata valutazione della contaminazione come danno all'ambiente, sostenendo la mancanza della prova di un aggravamento apprezzabile e, quindi, della prova del danno arrecato all'ambiente nei sette anni di gestione;

b. la mancanza della prova della quantità di inquinamento da DDT, alla falda ed al lago Maggiore, provocato dal dilavamento dei terreni e dalle carenze di manutenzione delle fogne;

c. la modestia-irrilevanza dell'inquinamento, tenuto conto dell'enorme differenza tra i Kg all'anno accertati dal CTU e le tonnellate di DDT immesso nell'ambiente prima del 1990, ed all'assenza di rischi per l'uomo, perché le acque erano risultate sempre potabili e balneabili;

d. il travisamento della nozione di danno ambientale, che non è punitivo ed esige «il previo accertamento dell'entità della compromissione della risorsa ambientale»;

e. la considerazione della sola “condotta soggettiva”, applicando una norma abrogata (l'art. 18), che comunque richiedeva l'accertamento del danno e del nesso causale tra l'azione ed il danno;

f. l'inerenza dell'accertamento del danno all'ambiente, prodotto dalla società sino al 2007 e dai dirigenti sino al 1996, alle acque superficiali inquinate dagli scarichi, all'intero comparto acquatico del lago Maggiore, comprensivo dei sedimenti e alle acque di falda.

Anche il MATTM ha interposto gravame in via incidentale.

Le questioni

Le questioni giuridiche affrontate dalla sentenza in commento possono essere così sintetizzate in termini interrogativi:

1) con riferimento al risarcimento del danno ambientale, sono sufficienti i meri dati relativi all'an, ai fini di ritenere che nel periodo oggetto della domanda vi sia stato un apprezzabile e significativo apporto di sostanze inquinanti, oppure è necessario che sia provata l'esatta quantità di sostanza contaminante presente nel sito inquinato (quantum)?

2) Il risarcimento del danno all'ambiente per equivalente monetario costituisce misura riparatoria subordinata rispetto al risarcimento in forma specifica (riparazione/ripristino), in base ai principi giuridici ed alle norme - anche comunitarie - che regolano la materia, ovvero le due forme di risarcimento sono cumulabili? I nuovi criteri di quantificazione del risarcimento del danno ambientale si applicano retroattivamente? È configurabile il concorso tra società e dirigenti, con conseguente responsabilità solidale nella causazione del danno all'ambiente?

Le soluzioni giuridiche

Secondo la pronuncia della Corte d'Appello di Torino, ai sensi dell'art. 18 della l. n. 349 del 1986, norma in vigore al tempo della proposizione della domanda, il danno all'ambiente consisteva in una compromissione dell'ambiente, in quanto alterato, deteriorato o distrutto, in tutto o in parte. La distruzione è un danno evidente, e dalla previsione della necessità della “compromissione” è chiaro che per il legislatore solo l'alterazione o il deterioramento importanti, significativi ed effettivamente incisivi sulle varie componenti dell'ambiente potevano configurare il danno all'ambiente. Nel luglio 2008, data della sentenza impugnata, l'art. 18 della l. n. 349 del 1986, salvo il comma 5, era stato abrogato dall'art. 318 del d.lgs. n. 152 del 2006. La definizione di danno ambientale era ed è contenuta nell'art. 300 del d.lgs. n. 152 del 2006 (T.U. ambiente), il cui primo comma ha il seguente contenuto «È danno ambientale qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell'utilità assicurata da quest'ultima».

La Cassazione penale, con la sentenza n. 46170 del 2016, ha precisato che per “misurabile”, in mancanza di ulteriori indicazioni, «può dirsi ciò che è quantitativamente apprezzabile o, comunque, oggettivamente rilevabile». Il Tribunale ha esaminato la questione sulla norma applicabile (art. 18 ; art. 300), giungendo alla conclusione che le fattispecie astratte sono sostanzialmente equipollenti e che la misurazione del danno non può essere effettuata ricorrendo alle usuali unità di misura (metri, chili, litri). La ritenuta sostanziale coincidenza tra le due norme, avendo il Tribunale ritenuto che il deterioramento corrisponda “alla elencazione di cui all'art. 18 ”, non ha formato oggetto di uno specifico motivo di impugnazione, sicché al Giudice del gravame spetta verificare se vi sia in atti la prova di un livello di contaminazione tale da comportare il deterioramento dell'ambiente.

La Cassazione penale, con la citata sentenza (Cass. pen., 21 settembre 2016 n. 46170), e sia pure interpretando la nuova fattispecie di cui all'art. 452-bis c.p., ha distinto tra “compromissione” e “deterioramento”, precisando che il primo termine si riferisce ad una condizione di rischio o pericolo definibile quale “rischio funzionale” mentre il deterioramento è definibile come “squilibrio strutturale”, “caratterizzato da un decadimento di stato o di qualità” della matrice ambientale o dell'ecosistema. La verifica implica l'individuazione dell'effettivo apporto all'ambiente derivato dai 7 anni di gestione, tenuto conto del preesistente pacifico inquinamento: la responsabilità è configurabile solo ed in quanto la violazione delle regole di condotta abbia effettivamente inciso in modo significativamente negativo sull'ambiente, aggravando la situazione preesistente. Orbene, nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che vi fosse in atti la prova sia dell'intervenuto aggravamento della situazione esistente nel 1990 sia del successivo miglioramento, anche rispetto al 1990, per effetto del recupero naturale e degli interventi eseguiti:

A. Con riferimento al comparto acquatico, è stato accertato che nei sette anni di gestione nelle acque superficiali è stato scaricato un quantitativo di DDT pari al doppio di quello considerato come limite consentito. Il superamento dei limiti di concentrazione non comporta automaticamente la prova del danno, anche se lo scostamento dagli standard costituisce un concreto elemento di giudizio; in proposito, la Corte ha considerato che il “DDT totale” indicato nelle tabelle dei sedimenti del periodo 1991-2001, riportate nella relazione di agosto 2007 ed esaminate dal ctu, è nettamente superiore sia al valore di DDT totale pari a 7 ng-g proposto quale soglia di non effetto dalla letteratura scientifica internazionale citata nella relazione APAT sia al limite massimo stabilito con il D.M. n. 471/1999 per i terreni inquinati adibiti ad uso pubblico e residenziale (10 ng/g), sia al limite di standard di qualità dei sedimenti di acque marino-costiere, lagune e stagni costieri fissato per il DDT-DDE DDD con il D.M. n. 367/2003 ( 0,5 ng/g). Anche dalle indagini eseguite nei 5 anni di campionamento successivi (2002-2006) è risultata una concentrazione superiore a tali limiti, anche se ridotta rispetto ai dati delle analisi compiute sulle carote prelevate nel 2001. L'Allegato 4 al T.U. ambiente contiene i criteri per valutare gli effetti negativi rispetto alle condizioni originarie ed il carattere “significativo” del danno alle specie o habitat protetti, precisando anche che non devono essere classificati come danni significativi il danno ripristinabile «entro breve tempo e senza interventi» mentre il danno con un provato effetto sulla salute umana «deve essere classificato come significativo».

B. Con riguardo all'acqua di falda, la Corte ha sostenuto che, agli effetti della sua contaminazione, le condizioni descritte dello stabilimento, la produzione in atto per sette anni, non limitata al DDT, gli interventi di messa in sicurezza e di rimozione degli inquinanti attuati dal 1996, costituiscono condizioni sufficienti per far ritenere apprezzabile la contaminazione veicolata attraverso il suolo e le fognature.

Ancora, la Corte ha evidenziato che il Tribunale ha condannato i convenuti al risarcimento del danno all'ambiente, utilizzando il criterio del risarcimento per equivalente monetario indicato dall'art. 18 citato. Il comma 8 dell'art. 18 prevedeva, ove possibile, anche la condanna del responsabile a ripristinare lo stato dei luoghi a sue spese ed il Tribunale ha ritenuto che, nel caso di specie, il ripristino fosse impossibile. Sennonché il criterio del risarcimento per equivalente monetario è ancora presente nel comma 1 dell'art. 311 come facoltà residuale (“se necessario”) e nell'art. 303, lettera f), è sempre prevista l'esclusione dell'applicazione della parte VI del d.lgs. n. 152/2006 (in cui è contenuto l'art. 311) alle emissioni anteriori al 29 aprile 2006.

Ma, ad avviso della Corte, l'attuale contenuto dell'art. 311 citato ed il costante orientamento della Cassazione impongono l'applicazione dei criteri risarcitori riparatori, anche se riguardanti fatti verificatisi in data anteriore al 29 aprile 2006, in sintonia con le indicazioni del legislatore comunitario. L'applicazione dei nuovi criteri impone la verifica dell'attualità del danno.

A. Quanto alle acque superficiali, la sentenza ha affermato che i dati risultanti anche dall'istruttoria svolta in primo grado consentono di ritenere che la sostanza contaminante immessa sia attraverso gli scarichi degli anni 90-96 sia attraverso i terreni dilavati sino al 2003 non sia attualmente presente in misura significativa nelle acque e che, conseguentemente, l'attuale stato delle acque, valutato in base a norme sopravvenute alla cessazione della produzione, non possa essere ricondotto all'attività degli anni 1990-1996.

B. Anche per i sedimenti del lago Maggiore, depositati dal 1991 al 1997 e poi dal 2000 al 2007, la pronuncia ha rilevato che in base alle risultanze di CTU, l'attuale situazione è migliore rispetto a quella del 1991, evidenziando che dall'esame dei valori di concentrazione di DDT nei sedimenti depositati dal 1963 risulta un forte decremento, passando dai sedimenti profondi a quelli superficiali. Una condanna al pagamento di una somma di danaro per un intervento “teorico”, tuttavia, non è consentita e la Corte ha osservato che, nel caso di specie, il recupero naturale costituisca idonea misura di riparazione primaria. Tale misura è prevista dall'Allegato 3, alla parte sesta, come opzione di riparazione primaria, ed è adeguata all'attuale situazione dei sedimenti, tenuto anche conto dei criteri di scelta delle opzioni di riparazione indicati nel punto 1.3 dell'Allegato 3, ed anche nella seconda parte dell'Allegato relativa al terreno. In particolare, la Corte ha segnalato che: tra i criteri di valutazione nella scelta delle opzioni vi è la necessità di considerare i danni collaterali a seguito dell'attuazione dell'opzione; l'autorità può decidere di non intraprendere ulteriori misure quando non esiste più un rischio significativo di causare effetti nocivi per l'uomo, l'acqua, le specie e gli habitat naturali protetti, ed i costi delle misure da adottare per raggiungere le condizioni originarie o un livello simile siano sproporzionati rispetto ai ricercati vantaggi all'ambiente.

C. Con riguardo alle perdite temporanee dell'intero comparto dell'ambiente acquatico (acque, sedimenti con la flora e fauna bentonica, pesci), ossia alle perdite delle funzioni ecologiche e dei servizi, ad altre risorse o al pubblico, sino al completo ritorno alle condizioni anteriori, per le acque del lago Maggiore la relazione di ctu ha evidenziato che l'attività di balneazione non ha subito interruzioni e che non vi è mai stata perdita di risorse idropotabili, di valori culturali e di servizi di regolazione.

Le idonee misure per compensare la perdita dei servizi ecologici o di supporto alla vita consistono:

  • nell'incremento della continuità ecologica del fiume e ripopolamento ittico delle acque con specie autoctone;
  • nel miglioramento degli habitat ripariali.

D. Con riferimento al danno alle acque di falda, la Corte ha osservato che nel corso del secondo grado di giudizio è stato approvato il POB (Progetto Operativo di bonifica del sito) con il D.M. del 21 ottobre 2013.

Infine, la Corte ha ammesso il concorso di responsabilità tra società e dirigenti, in ragione delle condotte concorrenti e non indipendenti nella causazione del danno ambientale.

Osservazioni

Al tempo della decisione l'art. 18 cit. era stato abrogato e l'art. 303, comma 1, lett. f), d.lgs. n. 152 del 2006 (versione originaria) escludeva l'applicazione della parte VI (norme in materia di tutela risarcitoria contro i danni all'ambiente) alle emissioni verificatesi prima della data di entrata in vigore del T.U. ambiente. Nella parte VI del T.U. ambiente, ove è contenuta la disciplina del risarcimento, l'art. 311, nella versione in vigore alla data della sentenza del Tribunale, era rubricato «Azione risarcitoria in forma specifica e per equivalente patrimoniale» e prevedeva che il Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio potesse agire, anche con azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale in forma specifica e se necessario per equivalente patrimoniale, o procedere in via amministrativa (comma 1). Il comma 2 prevedeva l'obbligo del responsabile del danno all'ambiente di ripristinare la situazione precedente e, in mancanza, di risarcire lo Stato per equivalente patrimoniale (la Corte ha puntualizzato che il comma 2 specificava, come l'art. 18 , che il danno all'ambiente poteva consistere in un'alterazione, un deterioramento o nella distruzione totale oparziale). Il comma 3 stabiliva che il Ministero provvedesse alla quantificazione del danno secondo i criteri enunciati negli Allegati 3 e 4 della parte VI del decreto, procedendo secondo quanto previsto dal titolo II della parte VI per l'accertamento delle responsabilità e per la riscossione delle somme dovute per equivalente monetario.

Alla data della decisione del Tribunale, pertanto, non potendosi applicare l'art. 18 , in quanto norma abrogata, e non potendosi applicare l'art. 311 per l'espressa esclusione contenuta nell'art. 303, lett. f), il danno ambientale avrebbe comunque potuto essere risarcito applicando i criteri di cui al c.c. (reintegrazione in forma specifica, corrispondente al ripristino e subordinato criterio dell'equivalente monetario).

Nel corso del processo, ed in conseguenza dell'avvio di due procedure di infrazione alla direttiva 2004/35/CE, sono intervenuti significativi mutamenti della tutela risarcitoria, finalizzati all'adeguamento della disciplina nazionale ai principi comunitari.

Il primo intervento è stato operato con l'art. 5-bis, comma 1, d.l. n. 135 del 2009, convertito dalla l. n. 166 del 2009, che ha modificato i commi 2 e 3 dell'art. 311, prevedendo al comma 2 l'obbligo:

  • «dell'effettivo ripristino” della precedente situazione a spese del responsabile» e, in mancanza, la «adozione di misure di riparazione complementare e compensativa di cui alla direttiva 2004/35/CE …»;
  • del risarcimento per equivalente patrimoniale in favore dello Stato “in via sostitutiva” per il caso di omissioni, impossibilità o eccessiva onerosità, attuazione incompleta o difforme.

In base al comma 3, modificato, il MATTM avrebbe dovuto provvedere alla quantificazione del danno secondo i criteri contenuti negli Allegati 3 e 4 della parte VI del decreto, e con apposito decreto da emanare entro 60 gg. il Ministero avrebbe dovuto definire i criteri di determinazione del risarcimento per equivalente, in conformità al punto 1.2.3 dell'Allegato II alla direttiva 2004/35/CE, «avendo riguardo anche al valore monetario stimato delle risorse naturali e dei servizi perduti e ai parametri utilizzati in casi simili o materie analoghe per la liquidazione del risarcimento per equivalente del danno ambientale in sentenze passate in giudicato pronunciate in ambito nazionale e comunitario».

L'art. 5-bis citato ha modificato anche la lett. f) del citato art. 303, prevedendo l'applicazione dei criteri di cui ai commi 2 e 3 dell'art. 311 anche alle domande proposte o da proporre ai sensi dell'art. 18 l. n. 349 del 1986 o ai sensi del titolo IX del libro IV c.c. Il legislatore è poi intervenuto nuovamente con l'art. 25 l. n. 97 del 2013 e la Corte sul punto ha sottolineato: - l'inserimento nella parte VI dell'art. 298-bis (Principi generali), con l'espressa previsione della riparazione del danno ambientale nel rispetto dei principi e dei criteri stabiliti nel titolo II e nell'allegato 3 alla parte VI, ove sono definiti e descritti i criteri riparatori;

- la soppressione dei riferimenti all'equivalente patrimoniale contenuti negli artt. 299, comma 5, e nella rubrica dell'art. 311;

- la sostituzione dei commi 2 e 3 dell'art. 311. Nel comma 3 è precisato che i criteri ed i metodi di determinazione delle misure di riparazione adottati dal MATTM, in conformità all'allegato 3 della parte VI (trattasi delle misure di riparazione primaria, complementari e compensative), si applicano anche ai giudizi pendenti e non ancora definiti con sentenza passata in giudicato alla data di entrata in vigore del decreto ministeriale. L'art. 25 ha anche soppresso la modifica dell'art. 303, lett. f), che consentiva l'applicazione dell'art. 311, commi 2 e 3, alle situazioni escluse dall'applicazione della parte VI.

Sull'incidenza delle nuove norme sui giudizi in corso si è pronunciata la Cassazione, a partire dal 2011, con le sentenze, Cass. civ., sez. III, 22 marzo 2011, n. 6551; Cass. civ., sez. I, 7 marzo 2013 n. 5705; Cass. civ., sez. III, 27 agosto 2014 n. 18352; Cass. civ.,sez. III, 6 maggio 2015 n. 9012; Cass. civ.,sez. III, 6 maggio 2015 n. 9013; Cass. civ., sez. III, 13 agosto 2015 n. 16806; Cass. civ., sez. I, 20 luglio 2016 n. 14935.

In proposito, la S.C. ha ripetutamente affermato che prima con il citato art. 5-bis e poi con l'art. 25 della l. n. 97 del 2013, il legislatore ha escluso la liquidazione per equivalente pecuniario nei giudizi risarcitori del danno ambientale pendenti; il giudice è tenuto ad individuare le misure di riparazione primaria, complementare e compensativa, determinandone il costo da “rendere oggetto di condanna nei confronti dei soggetti obbligati” per il caso di omessa o imperfetta esecuzione.

Con la sentenza n. 16806 del 2015 la Cassazione ha in particolare affermato che il nuovo criterio, basato sulla riparazione, deve essere applicato ai giudizi in corso, anche se si riferiscono a fatti anteriori alla data di applicabilità della direttiva comunitaria; se non residua un danno, perché vi è stato il ritorno allo stato preesistente, non vi è necessità di ulteriori misure; i danneggianti possono essere condannati al solo pagamento del costo delle misure; è inscindibile «l'identificazione dell'ambiente quale oggetto di tutela e delle modalità e dell'ambito del risarcimento della sua lesione».

In termini parzialmente diversi si è espressa la pronuncia di Cass. civ., sez. III, 4 aprile 2017 n. 8662, secondo cui non andrebbe applicata, in linea di principio, la disciplina vigente al tempo della decisione, bensì quella vigente all'epoca del fatto lesivo, salvo che per quei profili in cui la nuova disciplina assuma una portata retroattiva, fra i quali dovrebbero includersi gli aspetti relativi alla quantificazione del risarcimento.

Orbene, la definizione delle misure di riparazione del danno ambientale è contenuta nell'Allegato 3 alla parte VI del T.U. ambiente:

  • la prima parte (n. “1” articolato sino al punto 1.3.3) riguarda la riparazione del danno all'acqua e agli habitat naturali protetti e nelle lettere a-b-c contiene le definizioni della riparazione primaria, complementare e compensativa;
  • la seconda parte (n. “2”) riguarda la riparazione del danno al terreno. La riparazione “primaria” consiste in “qualsiasi misura di riparazione che riporta le risorse e/o i servizi naturali danneggiati alle o verso le condizioni originarie” (lettera a) e tra le misure di riparazione primaria vi è l'opzione del “ripristino naturale”.

La riparazione “complementare” consiste in «qualsiasi misura di riparazione intrapresa in relazione a risorse e/o i servizi naturali per compensare il mancato ripristino completo delle risorse e/o dei servizi naturali danneggiati» (lettera b).

La riparazione “compensativa” consiste in «qualsiasi azione intrapresa per compensare la perdita temporanea di risorse e/o servizi naturali dalla data del verificarsi del danno fino a quando la riparazione primaria non abbia prodotto un effetto completo» (lettera c).

Le perdite temporanee sono perdite che riguardano le funzioni ecologiche ed i servizi (ad altre risorse o al pubblico) «fino a che le misure primarie o complementari non abbiano avuto effetto» (la spiegazione è contenuta nella lettera d).

Il ripristino naturale («opzione senza interventi umani direttinel processo di ripristino») è indicato quale opzione da considerare anche per il danno al terreno.

In sintesi, dall'esame della sentenza torinese consegue:

A) Omologando le due discipline succedutesi nel tempo, la responsabilità è configurabile solo ed in quanto la violazione delle regole di condotta abbia effettivamente inciso in modo significativamente negativo sull'ambiente, aggravando o deteriorando o alterando la situazione preesistente, senza che questa interferenza esiga una specifica rilevazione in termini quantitativi. Si nega che l'alterazione o l'aggravamento implichino un peggioramento delle condizioni ambientali, rientrandovi qualsiasi modificazione di una caratteristica qualitativa della risorsa ambientale, né la violazione deve riguardare specificamente una previsione a tutela dell'ambiente, ricadendovi qualunque prescrizione riferita ad attività umana da cui possa derivare un'alterazione dell'ambiente.

B) Il criterio del risarcimento per equivalente monetario è una facoltà meramente residuale, essendo imposta l'applicazione delle misure di riparazione e, ove queste siano omesse o difformi, è ammessa la condanna del responsabile al pagamento dei costi necessari per la riparazione.

C) L'attuale contenuto dell'art. 311 citato ed il costante orientamento della Cassazione impongono l'applicazione dei criteri risarcitori riparatori, anche se riguardanti fatti verificatisi in data anteriore al 29 aprile 2006, in ragione dell'applicazione retroattiva della novella anche alle vicende soggette alla disciplina dell'art. 18 l. n. 349 del 1986 o addirittura precedenti, quale eccezione espressa al principio tempus regit actum.

D) In ultimo, la regola di cui all'art. 311, comma 3, penultimo periodo, del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, nel testo modificato dall'art. 25 l. 6 agosto 2013, n. 97 - per la quale «nei casi di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità personale» - mira ad evitare la responsabilità anche per fatti altrui, sicché opera nei casi di plurime condotte indipendenti e non anche in quelli di azioni od omissioni concorrenti in senso stretto alla concretizzazione di un'unitaria condotta di danneggiamento dell'ambiente, che restino tutte tra loro avvinte quali indispensabili antefatti causali di questa. Ne consegue che, in siffatta ipotesi, non soffre limitazione la regola della solidarietà di cui all'art. 2055 c.c. in tema di responsabilità di ciascun coautore della condotta per l'intero evento causato.

Guida all'approfondimento

COVUCCI, Il nuovo statuto del risarcimento del danno ambientale dopo la legge europea 2013, in Danno e resp., 2016, 658;

D'ADDA, Danno ambientale e tecniche rimediali: le forme del risarcimento, in D'Adda-Nicotra-Salanitro, Principi europei e illecito ambientale, Torino, 2013, 39;

FERMEGLIA, La Cassazione delinea lo “statuto” del nuovo danno ambientale, in Nuova giur. civ. comm., 2016, 1109;

SALANITRO, L'evoluzione dei modelli di tutela dell'ambiente alla luce dei principi europei: profili sistematici della responsabilità per danno ambientale, in Nuove leggi civ., 2013, 795.

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