Nesso di causalità: prova per presunzioni e concorso di cause

31 Agosto 2018

In caso di concorso di cause, come si accerta la sussistenza del nesso di causalità?
Massima

Il nesso di causa è una costruzione logica non un fatto materiale; pertanto l'affermazione dell'esistenza di quel nesso tra una condotta illecita ed un danno costituisce oggetto di un ragionamento logico-deduttivo, non di un accertamento fattuale. Ne consegue che, mentre rispetto a tale ragionamento non sono concepibili questioni di prova, ma solo di coerenza logica, debbono essere debitamente provati i fatti materiali sui quali il suddetto ragionamento si fonda. La prova di tali fatti può essere data con ogni mezzo, ivi comprese le presunzioni semplici, dal momento che la legge non pone alcuna limitazione al riguardo.

Il caso

Gli attori convenivano in giudizio l'impresa appaltatrice che aveva realizzato la pavimentazione di due immobili, per ottenere il risarcimento dei danni conseguenti alla esecuzione imperfetta dei lavori. Nel giudizio era stata chiamata in causa la ditta produttrice del materiale utilizzato. Il giudizio di primo grado si era concluso con l'accoglimento della domanda nei confronti della convenuta, ma con il rigetto della domanda di garanzia, in considerazione del fatto che non sarebbe stato possibile stabilire con certezza la causa del danno. Anche nel giudizio di appello, la domanda avverso il produttore era rigettata sul presupposto che per l'accertamento della sussistenza del nesso causale non sarebbero sufficienti mere presunzioni semplici. La Corte di Cassazione annulla la pronuncia di seconde cure sul rilievo che il nesso di causa tra una condotta illecita e un danno può essere affermato non solo quando il secondo sia stato una conseguenza certa della prima, ma anche quando ne sia stato una conseguenza ragionevolmente probabile, con la precisazione che la ragionevole probabilità va intesa non in senso meramente statistico, bensì in base alle circostanze del caso concreto.

La questione

La questione in esame è la seguente: in caso di concorso di cause, come si accerta la sussistenza del nesso di causalità?

Le soluzioni giuridiche

I giudici di legittimità nella sentenza in esame hanno chiarito che il nesso di causa non costituisce un fatto materiale, bensì un giudizio, poiché la causalità è una relazione stabilita a posteriori tra due fatti, e non è oggettivamente accertabile. La prova del nesso di causa è quindi oggetto di un ragionamento deduttivo e sarebbe dunque più opportuno parlare di logicità della motivazione che accerti o neghi il nesso di causa, e non di prova dello stesso (Cass. civ., n. 21255/2013).

La Corte dichiara però che ciò che deve essere provato sono i fatti materiali su cui si fonda l'esistenza del nesso causale, e ricorda che la legge non pone alcuna limitazione al riguardo, consentendo l'utilizzo di documenti, testimoni, giuramento, confessione e presunzioni semplici. Come già è stato affermato dalla Corte, è ammesso il ricorso alla prova presuntiva per dimostrare i fatti dai quali desumere l'esistenza o meno del nesso di causa (Cass. civ., n. 582/2008 per danni da emotrasfusioni ed emoderivati; Cass. civ., n. 10060/2010 per cartella clinica incompleta; Cass. civ., n. 26666/2005 per danni da demansionamento).

In termini generali il nesso di causa rappresenta il legame eziologico tra un dato evento, sia esso originato da un'azione umana, sia esso naturale ed il prodursi di una determinata conseguenza rilevante per l'ordinamento giuridico.

Il codice civile vigente nulla dice espressamente circa la nozione di causalità limitandosi a prevedere all'art. 2043 c.c. che il danno ingiusto deve risultare cagionato dal fatto illecito, e che obbligato al risarcimento è colui che ha commesso il fatto. L'art. 1223 c.c. indica inoltre nelle conseguenze dannose il riferimento per determinare il risarcimento. Una disciplina più esplicita si rinviene nel codice penale dove l'art. 40 comma 1 c.p. si limita a fissare un generale principio di causalità, onde nessuno può essere punito se l'evento dannoso o pericoloso da cui dipende l'esistenza del reato non è conseguenza di una sua azione o omissione. L'art. 40 comma 2 c.p., stabilisce l'importante principio in tema di responsabilità omissiva secondo cui «non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo» e l'art. 41 c.p. si occupa del concorso di cause: secondo il comma 1, il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità tra l'azione od omissione e l'evento. Per il comma 2, le cause sopravvenute tuttavia escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l'evento.

Ai fini della causalità materiale nell'ambito della responsabilità aquiliana la giurisprudenza e la dottrina prevalenti, in applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 c.p., ritengono che un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (cd. teoria della condicio sine qua non): ma nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all'interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l'evento causante non appaiono del tutte inverosimili. Detta causalità adeguata (nella sua tradizionale formulazione positiva) comporta che la rilevanza giuridica della condicio sine qua non è commisurata all'incremento, da essa prodotto, dell'obiettiva possibilità di un evento del tipo di quello effettivamente verificatosi.

Insieme al fatto proprio di un soggetto possono intervenire anche altri fattori causali a determinare l'evento finale; questi possono essere preesistenti, concomitanti o successivi all'azione od omissione del soggetto e vengono definiti dall'art. 41 c.p. come “concause”. L'art. 41 comma 1 c.p. richiama la teoria dell'equivalenza delle condizioni riconoscendo efficacia eziologica a tutte le condizioni necessarie alla produzione dell'evento, mentre il comma 3 conferma la sussistenza del nesso eziologico anche nei casi in cui la causa concorrente consiste nel fatto illecito di terzi, fattore ulteriore rispetto alla condotta del danneggiante. Il concorso di cause imputabili ad una condotta umana e concause naturali, non ascrivibili a nessuna condotta umana pone il problema se si possa addossare l'intero ammontare del risarcimento in capo al soggetto a cui una delle concause è imputabile.

L'art. 41 comma 2 c.p. prevede la principale limitazione legislativa alla capacità espansiva della teoria condizionalistica stabilendo che debba essere riconosciuta efficacia interruttiva del nesso di causalità solo a quei fattori causali sopravvenuti che sono riconosciuti di per sé sufficienti a produrre l'evento, degradando conseguentemente le cause a questi antecedenti a mere condizioni. L'interpretazione più diffusa della norma in esame, largamente sostenuta dalla giurisprudenza, porta a ritenere che il dettato codicistico faccia riferimento solo a quelle serie causali del tutto anomale che prescindono da qualsiasi legame con la condotta umana posta in essere e che si pongono fuori dagli ordinari sviluppi della serie causale in atto.

Il rigore del principio dell'equivalenza delle cause, posto dall'art. 41 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dall'art. 41 c.p., comma 2, in base al quale l'evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all'autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto (Cass. civ. n. 268/1996).

Nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all'interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l'evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quella similare della c.d. regolarità causale (Cass. civ., n. 17152/2002; Cass. civ., n. 5962/2000).

Come si è detto, per il nesso di causalità materiale occorre fare riferimento all'art. 40 c.p.

In proposito, la celebre sentenza Franzese (Cass. civ., Sez. Un., n. 30328/2002) ha condotto la giurisprudenza ad approdi al momento certi.

La verifica della causalità (constata l'arresto citato) postula il ricorso al “giudizio controfattuale”, articolato sul condizionale congiuntivo “se ... allora” (nella forma di un periodo ipotetico dell'irrealtà, in cui il fatto enunciato nella protasi è contrario ad un fatto conosciuto come vero) e costruito secondo la tradizionale doppia formula, nel senso che: la condotta umana è condizione necessaria dell'evento se, eliminata mentalmente dal novero dei fatti realmente accaduti, l'evento non si sarebbe verificato; la condotta umana non è condizione necessaria dell'evento se, eliminata mentalmente mediante il medesimo procedimento, l'evento si sarebbe egualmente verificato.

Ciò osservato, è tuttavia evidente che, in tanto può affermarsi che, operata l'eliminazione mentale dell'antecedente costituito dalla condotta umana, il risultato non si sarebbe o si sarebbe comunque prodotto, in quanto si sappia, già da prima, che da una determinata condotta scaturisca, o non, un determinato evento.

Perché ciò sia possibile, quindi per spiegare l'evento hic et nunc verificatosi, occorre fare ricorso all'esperienza tratta da attendibili risultati di generalizzazione del senso comune, ovvero alla sussunzione del singolo evento, opportunamente ridescritto nelle sue modalità tipiche e ripetibili, sotto "leggi scientifiche" esplicative dei fenomeni.

Quindi, un antecedente può essere configurato come condizione necessaria solo se esso rientri nel novero di quelli che, sulla base di una successione regolare conforme ad una generalizzata regola di esperienza o ad una legge dotata di validità scientifica – detta "legge di copertura" -, frutto della migliore scienza ed esperienza del momento storico, conducano ad eventi "del tipo" di quello verificatosi in concreto.

Pertanto, nella materia di responsabilità civile il nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 c.p., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della cosiddetta causalità adeguata; per quanto attiene al regime probatorio applicabile, in materia civile vige la regola della preponderanza dell'evidenza o del “più probabile che non”, mentre nel processo penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” (Cass. civ., n. 2085/2012).

I criteri probatori dell'accertamento del nesso di causalità nel settore civile e in quello penale divergono in ragione delle differenze ontologiche tra i due settori.

La prima ragione concerne la diversa funzione del sistema sanzionatorio penale rispetto a quello della responsabilità civile contrattuale ed aquiliana: il sistema penale ha una funzione sanzionatoria che infligge sanzioni privative della libertà personale che si deve limitare solo se non c'è alcun dubbio sulla colpevolezza in base ai principi costituzionali sulla personalità della responsabilità, sulla funzione rieducativa della pena, sulla presunzione di innocenza, nonché anche nell'ottica codicistica posto che il codice penale con la nuova lettura degli artt. 42 e 43 c.p. ha eliminato le presunzioni di colpa eliminando così le forme di responsabilità oggettiva.

Il sistema della responsabilità civile ha diversamente una funzione riparatoria dal punto di vista del soggetto che subisce il danno, sicché questa logica che non è sanzionatoria non può essere impostata in termini di certezza.

In secondo luogo, il codice civile, diversamente da quello penale, non esclude forme di responsabilità oggettiva e di presunzione di responsabilità; infatti, l'esigenza di tutela del danneggiato fa sì che accanto al criterio della colpa si prevedano delle forme di presunzione di colpa o di responsabilità oggettiva, anche sotto forma di presunzione di causalità, nel senso cioè che il danneggiato non deve provare né la colpa, né la causalità, bensì deve solo dedurre di aver subito un danno come conseguenza di una fattispecie che il codice oggettivamente imputa al danneggiante (si vedano le norme sulla responsabilità per danno da cose in custodia o per attività pericolose).

La terza ragione attiene alla diversità dei beni tutelati: il codice penale imperniato su un sistema basato sulla tassatività prevede reati che prevedono la lesione di beni predeterminati; viceversa, nel campo civile vi è un sistema della responsabilità aquiliana più elastico anche sul piano dei beni e degli interessi tutelati, come dimostra la flessibilità del concetto di ingiustizia fissato dall'art. 2043 c.c.

È dimostrato che le diverse esigenze di politica legislativa che sono alla base dei due sistemi, quello della responsabilità penale e quello della responsabilità civile, impongono di riconoscere che il modello di causalità disegnato dalle sezioni unite penali mal si attaglia a fungere da criterio valido anche in sede di accertamento della responsabilità civile da illecito omissivo del sanitario: nel diritto penale campeggia la figura dell'autore del fatto ed il principio della tipicità dell'illecito, nel diritto civile la figura del danneggiato ed il problema della allocazione del costo anche sociale del danno.

È così rifiutato come criterio di riconoscimento del nesso causale quello dell'alto grado di credibilità razionale, in favore del criterio del più probabile che non (Cass. civ., Sez. Un., n. 576/2008), verificato riconducendone il grado di fondatezza nell'ambito degli elementi di conferma disponibili nel caso concreto e quindi applicando un giudizio in termini di probabilità logica. Tale regola comporta che il giudice accetti come provato l'enunciato che ha ricevuto, in relazione alle prove disponibili, il grado maggiore di conferma sulla base della regolarità statistica e la verosimiglianza logica.

Il “probabile” probatoriamente rilevante è quello “logico” e non quello meramente “statistico”, essendo la probabilità logica la risultante del necessario raffronto tra le leggi (scientifiche) statistiche e tutte le circostanze del caso concreto, e questo anche allo scopo di escludere l'intervento di fattori causali alternativi; a tale stregua, l'attendibilità di una ipotesi ricostruttiva deve essere vagliata sulla base degli elementi di conferma che riceve nel processo.

Osservazioni

Dal punto di vista della responsabilità civile, il problema del nesso di causa riguarda essenzialmente due profili: l'ampiezza della responsabilità del soggetto convenuto in giudizio a seguito di una sua condotta illecita e la selezione delle eventuali conseguenze dannose derivanti dalla sua condotta attiva od omissiva di cui può essere chiamato a rispondere. A questi due distinti problemi giuridici corrispondono per la dottrina e la giurisprudenza prevalenti due distinti accertamenti eziologici e dunque due diversi nessi di causa. Il verbo “cagiona” utilizzato dall'art. 2043 c.c. evidenzia un primo nesso definito di “causalità materiale” che lega la condotta tenuta all'evento dato dalla lesione dell'interesse giuridicamente tutelato, il quale intende stabilire se l'evento sia o meno addebitabile alla condotta materiale di un determinato soggetto. Il dettato di cui agli artt. 1223, 1225 e 1227 comma 1 c.c. si occupa invece di rinvenire un secondo nesso di causa definito comunemente “causalità giuridica”, il cui scopo è appurare l'esistenza e l'ampiezza dei pregiudizi riconducibili all'evento dannoso.

A differenza dell'art. 40 c.p. - che si limita a discorrere di “conseguenze” senza ulteriormente specificare in cosa esse debbano in concreto consistere, la norma di cui all'art. 1223 c.c. dichiara (causalmente) rilevanti soltanto quelle conseguenze “dirette ed immediate” del fatto (l'inadempimento o il ritardo - così come testualmente disciplinato dalla norma -, ad essi equiparati l'evento di danno aquiliano, giusta il richiamo dell'art. 2056 c.c.).

È certamente vero che la norma seleziona, secondo un criterio di opportunità giuridica analogo a quello che regge la successiva regola dell'art. 1225 c.c., quali, tra le conseguenze negative dell'illecito debbano costituire fonte dell'obbligo di risarcitorio.

Ma non è meno vero che lo stesso criterio di opportunità regge la precedente “regola” causale chiamata a governare la relazione tra condotta ed evento, se è vero che la scelta dei criteri di causalità materiale di volta in volta applicabili sono il frutto di una selezione di regole che non coincidono (o non coincidono del tutto) con quelle della causalità naturale.

La esatta configurazione del problema causale in seno alla responsabilità civile necessita che il momento attributivo dell'obbligazione risarcitoria sia consequenziale tanto a quello dell'accertamento dell'illecito che a quello dell'individuazione del danno che, con esso - inteso come violazione dell'interesse protetto (id est come evento di danno) - non sempre coincide.

In altri termini, la scomposizione del giudizio causale in due autonomi e consecutivi appare, pertanto, l'approccio metodologico ancora oggi più idoneo a percorrere, con il necessario e sufficiente grado di approssimazione logica, il complesso itinerario dell'illecito che, dalla condotta del danneggiante, giunga all'approdo finale delle conseguenze dannose risarcibili.

Infatti, la corretta individuazione del percorso di causalità materiale impedisce di rapportarlo direttamente, sic et simpliciter, al danno inteso come conseguenza dannosa risarcibile (alla luce del richiamo alla consequenzialità diretta e immediata di cui agli artt. 1223 e 2056 c.c.), dovendosi viceversa arrestare all'analisi della relazione condotta/evento in relazione all'oggetto della tutela: si comprende, dunque, il riferimento alla categoria della possibilità, volta che essa non costituisce una (terza) regola causale insieme a quella penalistica dell'alto grado di probabilità logica/conoscenza razionale e a quella civilistica del più probabile che non, ma individua, puramente e semplicemente, l'oggetto della tutela nella fattispecie della chance: la possibilità, appunto, quale oggetto di tutela e, non quale regola causale o direttamente danno conseguenza (Cass. civ., n. 21619/2007).

Al contrario, la stessa causalità giuridica non è solo (o quantomeno non è sempre) regola a-causale di semplice delimitazione dell'area del danno risarcibile - poiché, secondo una accreditata corrente di pensiero, dottrinaria e giurisprudenziale, presupporrebbe già risolto, a monte ed implicitamente, il problema causale, la condotta di inadempimento del debitore è ipso facto la causa del fatto/inadempimento, del quale andranno valutate le sole conseguenze dannose risarcibili secondo il criterio della diretta immediatezza ex art. 1223 c.c.: il danneggiante dovrà rispondere di quel danno solo dopo che esso gli sia stato ascritto come conseguenza dell'evento da lui stesso generato.

Peraltro, la regola di funzione (id est probatoria, in seno al processo, in relazione a quella specifica, singola, unica e irripetibile vicenda che è il singolo processo) risulta, oggi, per il giudizio civile, il “più probabile che non”.

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