La differenza tra autotutela sostitutiva e accertamento integrativo

22 Novembre 2018

L'autotutela sostitutiva è ipotesi del tutto diversa da quella disciplinata dall'art. 43 del d.P.R. n. 600/1973, che concerne gli avvisi integrativi e modificativi, per i quali soltanto vale il presupposto della sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi.
Massima

L'autotutela sostitutiva è ipotesi del tutto diversa da quella disciplinata dall'art. 43 del d.P.R. n. 600/1973, che concerne gli avvisi integrativi e modificativi, per i quali soltanto vale il presupposto della sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi. L'art. 43 del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 non opera con riguardo ad avviso nullo per vizi formali, alla cui rinnovazione, con la sua sostituzione con un atto valido, l'Amministrazione è legittimata ed anzi tenuta in virtù del potere di autotutela, sempre che ciò avvenga nei termini di legge, e l'atto rinnovato non costituisca elusione o violazione dell'eventuale giudicato formatosi sull'atto.

Il caso

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21822 del 7 settembre 2018, ha chiarito la differenza tra autotutela sostitutiva ed accertamento integrativo. Nel caso di specie, una società ricorreva per la cassazione della sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, che aveva confermato la legittimità dell'avviso di accertamento, relativo ad Iva, Irpeg e Irap dell'anno di imposta 2003 e riproducente il contenuto di precedente avviso di accertamento, annullato in autotutela.

L'Agenzia delle Entrate aveva rettificato il reddito imponibile di una Srl sulla base di quattro rilievi.

In particolare, venivano considerate indetraibili le provvigioni pagate all'amministratore della Società, in quanto corrisposte in relazione agli acquisti procacciati e non alle vendite, nonché ulteriori costi relativi ad operazioni commerciali, svolte sempre dal medesimo soggetto, perché ritenute non inerenti.

Venivano, inoltre, recuperati a tassazione costi relativi ad acquisti effettuati da soggetti domiciliati in paesi a fiscalità privilegiata e alcuni costi relativi alle provvigioni degli agenti, in quanto era emerso che tali provvigioni erano state corrisposte in misura superiore a quella del 2%, stabilita contrattualmente.

Il ricorso proposto dalla Società avverso l'atto impositivo veniva integralmente rigettato dalla Commissione di primo grado.

La decisione, appellata dalla contribuente, veniva però poi parzialmente riformata dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, che annullava l'atto impositivo, ad eccezione della sola ripresa relativa ai costi rinvenienti da operazioni intercorse con soggetti domiciliati nei Paesi compresi nella cd. black list.

Preliminarmente, comunque, il Giudice di appello aveva ritenuto la legittimità dell'emissione dell'avviso di accertamento, malgrado la controversia instaurata avverso il primo atto impositivo (annullato in autotutela) si fosse conclusa con declaratoria di cessazione della materia del contendere, non essendo la stessa sentenza passata in giudicato al momento dell'emissione del secondo avviso.

La questione

Avverso la sentenza l'Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per cassazione.

La società contribuente presentava, invece, ricorso incidentale, deducendo la violazione e falsa applicazione degli artt. 43 del d.P.R. n. 600/1973, 57, d.P.R. n. 633/1972; 7, Legge n. 212/2000 e 3 della Legge n. 241/1990, laddove il giudice di secondo grado aveva ritenuto legittima l'emissione di un nuovo avviso di accertamento, reiterativo del precedente annullato in autotutela, malgrado la controversia relativa a quest'ultimo atto impositivo si fosse conclusa con sentenza che aveva dichiarato cessata la materia del contendere.

In particolare, secondo la prospettazione del contribuente, il nuovo avviso di accertamento, reiterativo del precedente, annullato in autotutela perché sottoscritto da soggetto diverso dal Direttore dell'Ufficio, era illegittimo, perché non conteneva, rispetto al precedente, nessun nuovo elemento di violazione e/o di evasione, né in fatto né in diritto, sicché il Giudice di appello aveva violato anche il principio del ne bis in idem.

Le soluzioni giuridiche

La censura, secondo la Suprema Corte, era infondata.

Come esplicitato dalla stessa ricorrente incidentale, l'Amministrazione finanziaria aveva, nella specie, rinnovato un atto precedentemente annullato nell'esercizio del potere di autotutela, perché sottoscritto da soggetto non legittimato.

Si verteva, pertanto, evidenziano i giudici di legittimità, in ipotesi del tutto diversa da quella disciplinata dall'art. 43 del d.P.R. n. 600/1973, che concerne gli avvisi integrativi e modificativi, per i quali soltanto vale il presupposto della sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi di fatto prima ignorati.

Nella fattispecie in esame valeva, invece, il principio della discrezionale potestà dell'Amministrazione di ricorrere all'istituto dell'autotutela, ai fini del riesame e della correzione di un non corretto esercizio della potestà impositiva, in ordine alle procedure eventualmente adottate.

All'eliminazione dal mondo giuridico del provvedimento erroneamente formato seguiva poi, inevitabilmente, per mera conformazione alla necessitata attività imposta dalla legge e cioè per atto dovuto, l'adozione del provvedimento ritenuto conforme al precetto normativo, che sostituiva pertanto il precedente ormai cassato.

La Suprema Corte ricorda del resto come sia in questo senso consolidata la giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., n. 25023/2016; Cass. civ., n. 14219/2015; Cass. civ., n. 2531/2002; Cass. civ. n. 8854/1993), secondo cui l'art. 43 del d.P.R. 29 settembre1973 n. 600, nella parte in cui consente modificazioni dell'avviso di accertamento soltanto in caso di sopravvenienza di nuovi elementi di conoscenza da parte dell'Ufficio, non opera con riguardo ad avviso nullo, alla cui rinnovazione con la sua integrazione o sostituzione, con un atto valido, l'Amministrazione è legittimata in virtù del potere di autotutela, a norma dell'art. 42 dello stesso d.P.R. n. 600/1973, per correggere gli errori dei propri provvedimenti nei termini di legge, salvo che l'atto rinnovato non costituisca elusione o violazione dell'eventuale giudicato formatosi sull'atto.

E, nel caso in esame, il giudicato non si era formato.

Osservazioni

Laddove l'Amministrazione emetta un nuovo avviso di accertamento, teso solo a modificare il corretto criterio di imputazione della maggiore ricchezza già accertata, o comunque (come nel caso di specie) la regolarità amministrativa dell'accertamento, non si applica l'art. 43 del d.P.R. n. 600/1973 (che concerne, come detto, gli avvisi integrativi e modificativi, per i quali vale il presupposto della sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi di fatto prima ignorati).

È dunque errato, in tali casi, ritenere che l'emanazione del nuovo avviso di accertamento possa avvenire solo sulla base della sopravvenuta conoscenza di elementi nuovi e non a seguito della rielaborazione degli stessi elementi già conosciuti dall'Ufficio.

In tema di accertamento, nell'ambito del potere di autotutela amministrativa tributaria, il ritiro di un precedente atto può del resto avvenire in due diverse forme, quella del "controatto", cioè l'atto di secondo grado che assume l'identica struttura di quello precedente, salvo che per il suo dispositivo di segno contrario, con cui si dispone l'annullamento, la revoca o l'abrogazione dei primo, o quella della "riforma", cioè l'atto di secondo grado, che non nega il contenuto di quello precedente, ma lo sostituisce con un contenuto diverso.

Entrambi sono caratterizzati dal fatto che l'oggetto del rapporto giuridico controverso resta identico, il che li distingue dall'accertamento cosiddetto integrativo, che è, invece, emesso sulla scorta della sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi.

Non è possibile del resto sostenere che l'Ufficio dell'Amministrazione Finanziaria, la cui attività è, ex lege, quella di contrasto all'evasione, debba rinunciare all'attuazione del fine impostogli dalla legge e, preso atto, ad esempio, di un vizio procedurale (mancanza dell'allegazione di atti, sottoscrizione per delega viziata, etc.), constatare che:

  • gli è precluso esercitare il suo potere discrezionale di autotutela;
  • gli è precluso, pur essendo nei termini di decadenza, emettere nuovi accertamenti sostitutivi;
  • gli è precluso, in sostanza, riprendere a tassazione quanto accertato.

Il consolidato orientamento della Suprema Corte (già sentenza n. 8854 del 21 agosto 2003; sentenza n. 4534 del 28 marzo 2002), in tema di esercizio del potere di autotutela da parte del Fisco, ha peraltro chiaramente delineato i presupposti di ammissibilità dell'autotutela sostitutiva, che consiste, come visto, nel ritiro di un atto impositivo e nella emanazione di un nuovo atto di identico contenuto, ma corretto dai suoi vizi formali.

Il criterio in base al quale è ritenuto possibile procedere a tale nuova emanazione è infatti quello del "principio di perennità della potestà amministrativa". La Corte Suprema (vedi Cass. civ., sez. trib., sentenza n. 2531 del 22 febbraio 2002) riconosce, quindi, la legittimazione a rinnovare, ex nunc, un avviso di accertamento invalido, allorché la rinnovazione non comporti una maggiore pretesa erariale rispetto al precedente accertamento e a condizione che l'atto impositivo sia inficiato esclusivamente da nullità derivante da vizi di natura formale, tali da non incidere sull'esistenza o sull'ammontare (in aumento) del credito tributario.

Anche tale possibilità, comunque, non è sempre applicabile, dato che, in ogni caso, sussistono i seguenti limiti:

  1. la rinnovazione non può avvenire se è già decorso il termine di decadenza dell'azione accertatrice;
  2. la rinnovazione è altresì preclusa qualora sia intervenuto giudicato di merito.

In conclusione, mentre non è consentito annullare un avviso di accertamento già notificato al contribuente e sostituirlo con uno nuovo contenente una maggior pretesa impositiva, come derivante da un più attento giudizio degli elementi già disponibili al momento dell'emanazione dello stesso accertamento, nessun ostacolo impedisce invece all'Amministrazione di riesaminare il proprio operato (entro i relativi termini decadenziali) ed annullare i propri atti, eventualmente illegittimi, sostituendoli con altri legittimi, purché, come detto, l'ammontare dei tributi contestati sia di ammontare uguale (o addirittura, come possibile, inferiore) rispetto a quello precedente.

La reiterazione della potestà di accertamento non va dunque confusa con l'autotutela sostitutiva.

Tra tali due istituti sussiste una notevole differenza di scopo: il potere di reiterazione della potestà di accertamento rappresenta infatti lo strumento concesso all'Amministrazione Finanziaria per accertare la pretesa tributaria sulla base della (necessaria) acquisizione di nuovi elementi conoscitivi.

L'autotutela sostitutiva persegue invece lo scopo di eliminare dal mondo giuridico atti caratterizzati da vizi di legittimità, perseguendo così l'interesse pubblico (nel caso di specie di contrasto all'evasione).

Laddove questo non fosse consentito, peraltro, vi sarebbe violazione dell'art. 2-quater del D.L. n. 564/1994 (convertito con modificazioni dalla Legge n. 656/1994) e del D.M. n. 37/1997, in combinato disposto con l'art. 43 del d.P.R. n. 600/1973, dato che l'adozione di un avviso di accertamento non consuma il potere dell'Amministrazione di esercitare la funzione impositiva.

Il potere della pubblica amministrazione di provvedere in via di autotutela all'annullamento "d'ufficio", o alla "revoca", anche in pendenza di giudizio, degli atti illegittimi od infondati è infatti espressamente riconosciuto dall'art. 2-quater citato e la permanenza in capo alla P.A. del potere impositivo consente, in ogni caso, alla stessa l'obbligo del positivo esercizio di tale potere, con l'emissione di un nuovo atto impositivo "sostitutivo" del precedente.

L'esercizio del potere di autotutela non implica, quindi, consumazione del potere impositivo; sicché, rimosso l'atto di accertamento illegittimo od infondato, l'Amministrazione finanziaria conserva (ed anzi è tenuta) ad esercitare la potestà impositiva, ove ne sussistano i presupposti, incontrando, come detto, i soli limiti del divieto, od elusione del giudicato sostanziale formatosi sull'atto viziato, del decorso del termine decadenziale fissato per l'accertamento e per la notifica dei relativi atti, del diritto di difesa del contribuente e del divieto di doppia imposizione.

E tali conclusioni valgono anche alla luce del richiamo all'art. 10 dello Statuto del contribuente, secondo cui «I rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede», da interpretarsi, in maniera costituzionalmente orientata, alla luce dei principi espressi dagli artt. 3 Cost. (ragionevolezza), nonché alla luce del principio di solidarietà economica e sociale, di cui all'art. 2 Cost., laddove la previsione deve reciprocamente ispirare i rapporti fra pubblica amministrazione e cittadino anche nei rapporti tributari (Cass. civ., 17 gennaio 2018, n. 1009), non potendo la parte del rapporto tributario, sia essa il contribuente o pubblica amministrazione, lamentare violazioni formali che non abbiano inciso realmente in negativo sulla sua sfera giuridica.

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