I fringe benefits degli sportivi professionisti: onus probandi a carico dell'Amministrazione finanziaria

Elio Andrea Palmitessa
27 Novembre 2018

Nell'ambito di un procedimento accertativo volto a riconoscere l'esistenza di un beneficio accessorio di natura retributiva (fringe benefit) in favore di calciatori professionisti - come conseguenza del pagamento, da parte di una società sportiva, di compensi all'agente del calciatore stesso - non può essere accolta la tesi dell'Ufficio circa la pretesa fittizietà dell'interposizione dell'agente sul presupposto dell'assenza di prove documentali.
Massima

Nell'ambito di un procedimento accertativo volto a riconoscere l'esistenza di un beneficio accessorio di natura retributiva (fringe benefit) in favore di calciatori professionisti - come conseguenza del pagamento, da parte di una società sportiva, di compensi all'agente del calciatore stesso - non può essere accolta la tesi dell'Ufficio circa la pretesa fittizietà dell'interposizione dell'agente sul presupposto dell'assenza di prove documentali dalle quali possa desumersi:

(i) la resa delle prestazioni dell'agente a beneficio del calciatore stesso e non della società sportiva e

(ii) che il contratto tra la parti (nda: società sportiva e agente) per l'erogazione della prestazione richiesta fosse simulato, specie se considerato a fronte di una fatturazione che rispondeva ai requisiti formali prescritti dalle legge cui il soggetto passivo faceva seguito effettuando il relativo pagamento delle imposte.

Il caso

Il caso analizzato dalla CTP Lecce ripropone un tema che, nell'ultima decade, ha dato vita ad un contenzioso tributario non trascurabile tra numerosi collegi di merito, dal momento in cui veniva contestato l'inquadramento fiscale dei compensi corrisposti dalle società sportive agli agenti per prestazioni di intermediazione, assistenza e consulenza contrattuale connesse alla stipulazione di contratti con calciatori professionisti.

La vicenda considerata nasce a seguito dell'impugnazione di un avviso di accertamento con il quale l'Agenzia delle Entrate, adeguandosi al pvc emesso dalla Guardia di Finanza in sede di verifica, contestava ad una società di calcio il mancato versamento di ritenute per compensi di lavoro dipendente. Secondo la tesi sostenuta dall'amministrazione finanziaria, i compensi pagati dal club in favore dell'agente, formalmente ingaggiato dalla società stessa, altro non erano che il pagamento per servizi resi dallo stesso agente nell'esclusivo interesse dell'assistito. Si sarebbe trattato quindi di un'operazione fittizia dal lato soggettivo, strutturata in modo tale da far ricadere l'onere della prestazione sulla società sportiva anziché sul calciatore - reale beneficiario della prestazione - ed evitando in tal modo di riqualificare il pagamento della somma dovuta come una forma di retribuzione aggiuntiva in natura corrisposta al calciatore.

In tale frangente, sulla base della qualificazione reddituale fornita dall'art. 51, comma 1, TUIR ed in contiguità al c.d. “principio di onnicomprensività” dettato dall'art. 49 del TUIR (“Sono redditi di lavoro dipendente quelli che derivano da rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri […]”), la somma corrisposta dalla società sportiva all'agente per conto del calciatore avrebbero dovuto infatti concorrere “nella misura del 15%, al netto delle somme (già) versate dall'atleta professionista ai propri agenti per l'attività di assistenza nelle medesime trattative” alla determinazione del reddito complessivo di lavoro dipendente del giocatore, ponendo a carico del datore di lavoro l'onere di effettuare le ritenute fiscali alla fonte con l'osservanza delle disposizioni prescritte dall'art. 23, comma 2, lett. a) del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600.

La questione

Sulla scorta delle premesse esposte nei paragrafi che precedono, è doveroso considerare la questione sotto un profilo sistematico più ampio. Con l'intervento operato dalla legge di bilancio 2014 veniva aggiunto al corpo dell'art. 51del TUIR il comma 4-bis, in forza del quale “Ai fini della determinazione dei valori di cui al comma 1, per gli atleti professionisti si considera altresì il costo dell'attività di assistenza sostenuto dalle società sportive professionistiche nell'ambito delle trattative aventi ad oggetto le prestazioni sportive degli atleti professionisti medesimi, nella misura del 15%, al netto delle somme versate dall'atleta professionista ai propri agenti per l'attività di assistenza nelle medesime trattative”. La novella ha inteso introdurre, con efficacia dal periodo d'imposta in corso al 31 dicembre 2013 (Unico 2014), una presunzione legale assoluta in forza della quale una parte del compenso riconosciuto dalle società per le prestazioni sportive rese dagli agenti nelle trattative di calcio-mercato doveva essere forfettariamente riqualificata come fringe benefit a favore del calciatore, con accertamento in capo a quest'ultimo di una maggiore base imponibile Irpef. Veniva quindi seguita una “logica” per cui il 15% del compenso corrisposto dai club si dovesse considerare tout court come una sorta di accollo del pagamento che il giocatore avrebbe dovuto corrispondere al proprio agente.

Come è stato riconosciuto in dottrina (cfr. S. Trettel, La Legge di Stabilità 2014 impone alle società di calcio tempi supplementari, Corriere Tributario, 8/2014) e nonostante la disposizione non prevedesse in linea di principio alcuna possibilità di prova contraria, i giocatori avrebbero potuto sottrarsi alla disposizione in parola “se” e “nella misura in cui” avessero fornito prova di aver corrisposto agli agenti incaricati un compenso per le prestazioni rese in relazione alle medesime trattative. Così si è espressa la Comm. Trib. Massa Carrara 16 marzo 2012, n. 145 che ha ritenuto infondata la pretesa dell'Ufficio accertatore a carico di un calciatore di una squadra di Serie A riconoscendo che, negli anni oggetto di contestazione, il giocatore aveva regolarmente corrisposto il compenso pattuito al proprio agente in vigenza di un mandato di rappresentanza in esclusiva, venendo così meno la presunzione che il pagamento di spese per prestazioni di intermediazione sportiva da parte della società sportiva nei confronti del medesimo agente costituisse un'integrazione del compenso dovuto dal proprio tesserato a titolo di fringe benefit.

Le verifiche fiscali nei confronti dei club e dei calciatori si sono susseguite anche quando, in vigenza del vecchio “Regolamento agenti di calciatori” del 2010 che prevedeva il divieto di doppio mandato ovverossia di operare nell'interesse di più parti nella medesima operazione di mercato finalizzata al trasferimento del giocatore, si imponeva all'agente di sottoscrivere il modulo federale “rosso” (per la rappresentanza della società di calcio) o “blu” (per la rappresentanza del calciatore). Dunque, con la presa visione del modulo federale e facendo leva sull'esistenza di un eventuale pregresso rapporto tra l'agente ed il calciatore, l'Ufficio avrebbe dovuto (e potuto) essere informato sulla riconducibilità delle prestazioni di servizio per il trasferimento di un calciatore alla sfera personale di quest'ultimo piuttosto che alla società sportiva, con una chiara ripartizione dei diversi interessi tutelati in via esclusiva nell'ambito della trattativa. In tal modo si è anche espressa, in due diversi procedimenti, la Commissione tributaria Genova 19 ottobre 2017, n. 1300 e 16 gennaio 2018, n. 58 che ha respinto la tesi dell'Ufficio “provata in atti (modulo rosso) la stipula del mandato dalla [società sportiva] al [procuratore], nel proprio interesse ed il relativo costo sostenuto per le prestazioni ricevute dal procuratore è sicuramente inerente e come tale deducibile IRAP. Mentre, per altro in assenza di valido mandato (modulo blu) non è provato se il giocatore abbia fruito del servizio di rappresentanza, né in quale misura”.

In estrema ratio, la presunzione legale assoluta avrebbe potuto incidere anche quando entrambe le società coinvolte nel trasferimento avessero operato con l'intermediazione di un proprio consulente. In tal caso, in capo al giocatore poteva configurarsi il rischio di un doppio fringe benefit (in aggiunta all'ordinaria doppia imposizione del 15% del reddito percepito dall'agente, che veniva tassato sia in capo al medesimo che in capo al giocatore).

Insomma, una situazione di profonda incertezza resa ancora più evidente dall'entrata in vigore dal “Regolamento per i servizi di procuratore sportivo” del 2015 (con il quale è stato abolito il divieto di doppio mandato) e dall'abrogazione dell'art. 51, comma 4-bis del TUIR con decorrenza dal 1° gennaio 2016.

La quaestio iuris sembra dunque riconducibile all'esistenza di un quadro probatorio volto a dimostrare “se” l'attività di consulenza prestata da un agente sportivo sia stata eseguita per un interesse preminente del calciatore (in tal caso i compensi corrisposti assumono la configurazione di fringe benefit) oppure di principale interesse per la società (nel quale caso non costituiscono fringe benefit). L'unico commento sul tema da parte dell'Agenzia delle Entrate è riconducibile alla Circolare 20 dicembre 2013, n. 37/E dove, in una situazione riguardante il trattamento fiscale dei beni assegnati ai calciatori dagli sponsor, stabilisce che “I valori corrispondenti ai beni assegnati ai calciatori professionisti costituiscono, in genere, reddito di lavoro dipendente ai sensi dell'art. 51, comma 1, del TUIR. Nella particolare ipotesi in cui il calciatore professionista abbia un obbligo contrattuale di utilizzare determinati beni, ricevuti in esecuzione di un contratto stipulato tra la società sportiva e lo sponsor per cui la prima consegue un ricavo da detto utilizzo, e sussistano l'obbligo di restituzione dei beni e la previsione di una penale a carico della società e del calciatore professionista in relazione a un eventuale inadempimento, si ritiene prevalente l'interesse del datore di lavoro”. In altri termini, si riconosce la possibilità che non tutte le attività che coinvolgono calciatori professionisti siano fatte nel loro esclusivo interesse e debbano pertanto essere considerate come fringe benefits (così anche. M. Costigliolo, S. Arecco, Senza la prova dell'”esclusivo interesse” del calciatore gli oneri ai procuratori non sono riqualificabili fringe benefits, Il fisco, 29/2018).

Va infine dato atto che nella scorsa legislatura vi è stato un (vano) tentativo di regolamentare la materia con il progetto di legge n. 4365, che prevedeva l'impossibilità di configurare un fringe benefit in capo al calciatore nell'ipotesi di costi sostenuti dalla società sportiva a favore di procuratori per “prestazioni di intermediazione, assistenza e consulenza contrattuale connessa alla stipula dei contratti con gli sportivi professionisti, nonché per i compensi destinati a migliorare la prestazione dello sportivo professionista tesserato” (sul tema si segnala anche S. Trettel, Il settore dello sport professionistico (e del calcio in particolare) di nuovo sotto i riflettori, Il Fisco, 40/2017).

Le soluzioni giuridiche

Le conclusioni raggiunte dai giudici leccesi appaiono alquanto risolute e non vanno oltre una constatazione di infondatezza circa la mancanza di un quadro indiziario preciso e rigoroso a supporto della tesi sostenuta dall'Ufficio, il quale avrebbe dovuto provare la divergenza tra la realtà apparente dell'operazione e la sua espressione documentale fornendo prove che avrebbero potuto assumere la consistenza di elementi indiziari volti a sostenere le argomentazioni di parte. Nel giungere a tale conclusione i giudici di primo grado hanno valorizzato la realtà fattuale prevedendo che “gli elementi probatori forniti, valutati sia singolarmente che complessivamente, si appalesano privi dei caratteri di gravità, precisione e concordanza e comunque inadeguati a dimostrare la reale sussistenza di una indennità aggiuntiva (fringe benefits) in favore del calciatore con le conseguenze fiscali applicate con l'atto in questione. L'atteggiamento elusivo addotto dall'Ufficio appare meramente indiziario, ma carente sotto il profilo probatorio, specie se considerato a fronte di una fatturazione e quindi ad un relativo pagamento delle imposte”. Così facendo, il collegio giudicante richiama, nel contenuto, una sua precedente pronuncia (Commissione tributaria Lecce 14 marzo 2018, n. 1061) avente a riguardo tra l'altro la medesima società calcistica attrice nel procedimento principale nella quale giungeva a chiarire come sia onere degli organi di controllo “fornire adeguata prova di tale simulazione da cui desumere l'esistenza di un accordo a tre (società sportiva – società di intermediazione – calciatore)”. Al novero delle pronunce favorevoli al contribuente aggiungiamo anche la sentenza della CTR Lombardia 4 maggio 2016, n. 3880 che, in un procedimento a carico di un calciatore per omessa dichiarazione di un maggior reddito ai fini Irpef in cui l'Ufficio faceva leva su una scrittura privata tra la società sportiva e l'agente in cui si parlava di compensi per “attività di assistenza in genere diretta e futura al calciatore”, chiariva come “non sussiste alcuna prova documentale che l'attività svolta da parte di [procuratore] a favore di [società sportiva] sia avvenuta anche nell'interesse del ricorrente”, per cui “la presunzione che ha portato all'emissione da parte dell'Agenzia delle Entrate dell'avviso di accertamento impugnato appare sfornita di fondamento”.

Insomma, l'elemento dirimente per poter risolvere la questione in favore dell'una, o dell'altra tesi, sembra essere la dimostrazione dell'esclusivo interesse del calciatore (o meno) per l'attività svolta dal procuratore nell'ambito di una trattativa di calcio-mercato: l'onus probandi, in tal caso, non può che ricadere in capo all'organo accertativo, come già ribadito dalla nota interna della Direzione Centrale Accertamento dell'Agenzia delle Entrate del 23 settembre 2009, prot. n. 137433 (“al fine di dimostrare la natura di fringe benefit è necessario costruire un impianto probatorio rigoroso”) e confermato più recentemente, inter alias, dalla Comm. Trib. Genova 16 gennaio 2018, n. 58 (“si possono considerare costi imputabili a fringe benefit solo quello relativi a servizi effettivamente goduti dal lavoratore. E di tale effettivo godimento non vi è agli atti idonea prova”). Occorre pertanto “dimostrare la preesistenza di un rapporto tra procuratore e calciatore attraverso l'acquisizione di pattuizioni contrattuali tra gli stessi”, finalizzate a “corroborare il quadro probatorio raccogliendo elementi idonei ad attestare che il pagamento della società sia avvenuto in luogo di quello dovuto dal calciatore”. Solo a queste condizioni - come già precisato da attenta dottrina (cfr. S. Trettel, Accertamenti sui compensi per le consulenze di calciomercato: non vale l'adagio “vox populi, vox dei”, Il Fisco, 14/2018) - “si può sostenere che il calciatore abbia “gratuitamente” fruito di un servizio dallo stesso commissionato e può quindi essere legittimamente inciso delle imposte dovute su questa componente in natura della sua retribuzione”.

Osservazioni

La materia dei rapporti tra società sportiva, agente e calciatore appare oggi un meccanismo in continua evoluzione. Il tema affrontato dai giudici leccesi è oltretutto di dirimente importanza in quanto espone anche le società sportive a potenziali rischi di contestazione in merito all'indeducibilità ai fini IRES ed IRAP dei compensi corrisposti ai procuratori, nonché all'indetraibilità dei medesimi sotto il profilo IVA. Una situazione che risulta aggravata dal vuoto normativo conseguente all'abrogazione della previgente disciplina dal TUIR e dalla liberalizzazione dell'attività dei procuratori con l'eliminazione del divieto di doppio mandato, per cui è stato alimentato un contenzioso tributario crescente al quale sempre più diffusamente le commissioni di merito hanno opposto il proprio giudizio sul presupposto dell'assenza di prove documentali dell'organo accertatore.

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