Danno da errata diagnosi: il risarcimento dell’aspettativa di vita al malato terminale non rileva soltanto quale mero danno mediato

Massimiliano Stronati
03 Dicembre 2018

La lesione di una maggiore aspettativa di vita, seppur per un lasso temporale relativamente breve (settimane o mesi), a seguito di errata diagnosi, può essere configurata quale danno risarcibile soltanto quale mera perdita di chance?
Massima

In ambito di responsabilità sanitaria, a seguito di errata diagnosi del medico, la perdita per il paziente, affetto da malattia terminale, della possibilità di sopravvivenza, seppur per un periodo limitato, integra un bene risarcibile autonomamente e non una mera perdita di chance di vivere più a lungo.

Il caso

Tizio, a causa di forti dolori retrosternali, si recava al pronto soccorso più vicino. A seguito di esame elettrocardiografico, gli veniva diagnosticato infarto acuto con esigenza di ricovero d'urgenza. Tuttavia, il medico di turno dimetteva il paziente, ritenendo trattarsi di mera nevralgia. Tizio veniva a mancare appena rientrato a casa.

Gli eredi di Tizio convenivano in giudizio il medico e l'azienda sanitaria, pretendendo il risarcimento dei danni per la morte del loro congiunto. Il Tribunale accoglieva la domanda condannando in solido i convenuti.

Avverso tale sentenza furono proposti distinti appelli dalle parti soccombenti. Riunite le cause, la Corte d'Appello, in forza delle risultanze della disposta CTU, rigettava la domanda. La Corte territoriale, infatti, pur riconoscendo la mancanza di diligenza dell'operato del medico, riteneva insussistente il nesso causale fra la colpa di questo e l'evento morte. Tizio, infatti, era già affetto da un processo morboso che lo avrebbe ineluttabilmente condotto al decesso ed anche il comportamento diligente del medico, in termini di altissima probabilità statistica, non gli avrebbe permesso che pochi ulteriori mesi di vita rispetto a quelli vissuti, ritenuti irrilevanti a fini risarcitori.

Avverso il provvedimento di secondo grado, ricorrono per Cassazione le parti danneggiate con due motivi, a cui fanno i seguiti i controricorsi delle parti vittoriose.

La questione

La questione oggetto di disamina è la seguente: la lesione di una maggiore aspettativa di vita, seppur per un lasso temporale relativamente breve (settimane o mesi), a seguito di errata diagnosi, può essere configurata quale danno risarcibile soltanto quale mera perdita di chance?

Le soluzioni giuridiche

La decisione in rassegna, in accoglimento del ricorso degli eredi del paziente, afferma che l'omessa diagnosi da parte del medico di un processo morboso terminale in atto integra un danno risarcibile, ogniqualvolta tale condotta abbia causato un'anticipazione dell'evento morte, benché questo fosse ineluttabile.

I) La giustificazione di tale assunto viene rintracciata nella qualificazione del danno in termini di perdita di «chance di vivere alcune settimane od alcuni mesi in più, rispetto a quelli poi effettivamente vissuti». Siffatta connotazione non costituisce un novum nelle pronunce della giurisprudenza di legittimità, al contrario, rappresenta un punto fermo ultradecennale nella risoluzione di controversie simili a quella in oggetto, rappresentando però un ultimo stadio evolutivo nella teorizzazione della chance da parte delle corti domestiche.

Brevemente, si premette, infatti, che la chance, intesa quale «concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene» (M. FRANZONI, Il danno risarcibile, Milano, Giuffrè, 2010, p. 80), originariamente, ha avuto riconoscimento da parte della giurisprudenza nazionale per lo più in termini di danno-conseguenza, correlato alla lesione di un interesse giuridicamente tutelato (es: diritto alla partecipazione ad un concorso, la cui espulsione comporta il venir meno della chance di vincerlo).

In questo senso, la Cassazione ha ammesso la risarcibilità della perdita di chance, quale perdita della possibilità di ottenere un risultato sperato, enunciando che: «non è una mera aspettativa di fatto ma un'entità patrimoniale a sè stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile d'autonoma valutazione, onde della sua perdita, vale a dire della perdita della possibilità di conseguire un qualsivoglia risultato utile, deve essere provata la sussistenza» (Cass. civ., sez. II, 18 marzo 2003 n. 3999, ma sul punto in precedenza cfr. Cass. civ., sez. lav., 19 dicembre 1985, n. 6506).

In particolare, ormai da tempo la giurisprudenza è concorde nel rifiutare la ricostruzione della perdita di chance, quale lucro cessante, invero, quale mancato ottenimento del risultato sperato, in presenza di chances di ottenerlo. Tale ricostruzione (cd. teoria eziologica), quindi, identificando la chance con il risultato finale, descrive soltanto una sequenza causale alternativa ed attenuata rispetto al criterio del “più probabile che non”: ovvero, il nesso causale fra illecito ed evento dannoso viene giustificato in ragione delle probabilità di verificazione di quest'ultimo.

D'altronde, la tesi assolutamente prevalente, tanto in dottrina (ex multis M. FRANZONI, cit.; M. BIANCA, Diritto Civile, V, La responsabilità, Milano, 2012; CHABAS, La perdita di chance nel diritto francese nella responsabilità civile, in Responsabilità civile e previdenza, 1996, 227 ss.) quanto in giurisprudenza, fa riferimento alla perdita di chance quale danno in sé, distinta dal risultato sperato, e consistente in un bene giuridico acquisito al patrimonio del danneggiato (cd. teoria ontologica). Quale posta attiva del patrimonio, il venir meno della medesima produce un danno economicamente risarcibile in termini di danno emergente. In tal senso, il costante orientamento della Suprema Corte per cui «la chance, o concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene o risultato, non è una mera aspettativa di fatto ma un'entità̀ patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile d'autonoma valutazione, onde la sua perdita, id est la perdita della possibilità̀ consistente di conseguire il risultato utile del quale risulti provata la sussistenza, configura un danno concreto ed attuale» (ex pluribus Cass. civ., 10 novembre 1998 n. 11340; Cass. civ., 15 marzo 1996 n. 2167; Cass. civ., sez. lav., 19 dicembre 1985, n. 6506).

«Siffatto danno, non meramente ipotetico o eventuale (quale sarebbe stato se correlato al raggiungimento del risultato utile), bensì concreto ed attuale (perdita di una consistente possibilità̀ di conseguire quel risultato), non va commisurato alla perdita del risultato, ma alla mera possibilità̀ di conseguirlo» (Cass. civ., sez. III, 4 marzo 2004, n.4400, ma più recentemente cfr. Cass. civ, sez. III, 19 marzo 2018, n. 6688, nonché Cass. civ., sez. III, 29 novembre 2012, n. 21245).

Di maggiore interesse, ai fini della presente disamina, risulta la risarcibilità del danno da perdita di chance non con riferimento all'ambito strettamente patrimoniale, ma relativamente alla responsabilità sanitaria, confliggente con interessi di natura non patrimoniale, quali la salute, l'integrità fisica e la vita del paziente.

La primigenia enunciazione, in tal senso, va ricondotta alla citata Cass. civ., sez. III, 4 marzo 2004, n.4400. In tale pronuncia, ed in quelle successive sino a quella in commento, la Cassazione si trova, infatti, a dirimere controversie nelle quali, pur accertata la condotta colposa del medico, vi è incertezza riguardo al collegamento causale fra la stessa e l'evento del decesso, rispetto al quale viene pretesa la risarcibilità dai parenti del de cuius tanto iure proprio per perdita del congiunto, quanto iure hereditatis per il danno biologico sofferto in vita dal congiunto medesimo. In particolare, si è osservato, tale situazione si concretizza ogniqualvolta l'inadempimento del medico si introduca in una sequenza causale già in atto, in conseguenza dell'affezione da parte del paziente di una malattia mortale. In siffatta ipotesi, nella predetta statuizione, si è affermato che: «in presenza di fattori di rischio, detta carenza (che integra l'inadempimento della prestazione sanitaria) aggrava la possibilità̀ che l'esito negativo si produca”»(Cass. civ., sez. III, 4 marzo 2004, n.4400).

L'errata o tardiva diagnosi del morbo terminale, quindi, comporta un mero aggravio del rischio dell'evento tanatologico, pur sempre inevitabile, comportandone un decorso accelerato.

Nell'impossibilità di addebitare al medico negligente la responsabilità rispetto a tale evento di danno – non potendosene dimostrare l'autonoma efficienza causale, in quanto in concorso con la patologia terminale – viene ormai costantemente rilevato nella giurisprudenza di legittimità che tale comportamento inadempiente ha certamente privato il paziente delle chances, statisticamente accertabili, di una sopravvivenza più duratura e/o di migliore qualità. In particolare, l'occasione così persa viene descritta quale «chance di conservare durante quel decorso una migliore qualità̀ di vita e la chance di vivere alcune settimane o alcuni mesi di più̀ rispetto a quelli poi vissuti, integra l'esistenza di un danno risarcibile alla persona» (Cass. civ., sez. III, 18 settembre 2008, n. 23846, il cui contenuto è stato ripreso anche nella sentenza in commento; in Cass. civ., sez. III, 27 marzo 2014, n. 7195, nonché in Cass. civ., sez. III, 9 marzo 2018, n. 5641 e in Cass. civ, sez. III, 19 marzo 2018, n. 6688).

Tali chances, secondo l'indirizzo giurisprudenziale ad oggi unanime, rappresentano un bene autonomo di cui è titolare il paziente, id est una situazione tutelabile distintamente rispetto agli altri interessi costituzionalmente protetti. Di tale conclusione si trae conferma nella motivazione di Cass. civ, sez. III, 19 marzo 2018, n. 6688, nella quale si sottolinea che: «nella perdita di chance oggetto dell'indagine è un particolare tipo di danno emergente, incidendo su un bene giuridico diverso, ovvero la mera possibilità̀ del risultato finale»(nello stesso senso cfr. Cass. civ., sez. III, 16 ottobre 2007, n.21619) e, ancor più esplicitamente, sempre in motivazione, Cass. civ., sez. III, 27 marzo 2014, n. 7195 la quale con riferimento alla chance afferma debba valutarsi «di per sè come "bene", cioè̀ un diritto attuale autonomo e diverso dagli altri, ivi compreso il diritto alla salute».

Va precisato, brevemente, che la ricostruzione giurisprudenziale della perdita di chance quale autonoma situazione soggettiva oggetto di lesione non convince tutti.

Invero, viene argomentato che: «la nozione di danno non può prescindere dalla lesione di un bene della vita, ritenuto rilevante dal diritto. E quando la colpa del medico priva di alcuni giorni di vita il paziente o impedisce il miglioramento delle sue condizioni di salute, il bene della vita leso è, per l'appunto, la salute, e non già un'autonoma probabilità di perderla» (G. CRICENTI, La perdita di chance come diminutivo astratto, in Responsabilità civile e previdenza, 2016, 2073 ss.).

Sicché, viene sostenuto, i giudici di legittimità del tutto arbitrariamente hanno limitato l'accertamento del nesso eziologico della condotta negligente del medico ad una presunta chance di una maggiore aspettativa di vita. In quanto, il termine di relazione del fatto illecito dovrebbe sempre consistere in un evento concreto che, tenendo il comportamento dovuto, si sarebbe potuto evitare, tale sia l'aggravamento della malattia o la morte non posticipata.

Secondo i detrattori, infatti, tale concezione giurisprudenziale troverebbe la propria giustificazione esclusivamente nella risoluzione della grave difficoltà in astratto per il danneggiato di dimostrare che la colpa del medico sia stata causa certa o altamente probabile dell'evento infausto. Ciò che accade principalmente nelle fattispecie, quali quella in discorso, in cui la morte del paziente consegue al decorso naturale della preesistente malattia in concorso con la condotta del sanitario.

Tale sostituzione, tuttavia, comporterebbe un'alterazione nei criteri di verifica del collegamento eziologico fra fatto ed evento, risolvendo un'incertezza originaria altrimenti irrisolvibile secondo l'ordinaria disciplina dell'onere probatorio in capo al danneggiato.

Si precisa, infatti, che nel nostro ordinamento il regime della responsabilità civile è governato dalla regola del “tutto o niente”, che esclude l'ipotesi di addebitabilità della responsabilità civile qualora vi sia incertezza relativa al nesso causale fra fatto ed evento, in quanto l'unico criterio utilizzabile per accertare tale elemento costitutivo della pretesa risarcitoria è quello della causalità materiale. Dovrebbero quindi rimanere del tutto irrilevanti, a questi fini, le cause in concorso di per sé non idonee a provocare l'evento dannoso, ovvero con probabilità di causazione al di sotto del 50%, salvo l'unica eccezione, ai sensi dell'art. 1227 c.c., per il fatto colposo del creditore.

Peraltro, tale concezione risulta da anni ormai avallata dalla giurisprudenza di legittimità che fornisce un'interpretazione unanime proprio rispetto all'art. 1227 c.c., rigettando la teoria della cd. frazionabilità della responsabilità.

Risarcire la chance significherebbe, invece, riconoscere la sussistenza di un nesso causale soltanto probabile.

La chance descritta in questi termini, invero, non sarebbe altro che la riproposizione sul piano del danno-evento dell'incertezza che investe il nesso causale in tali ipotesi, in quanto la condotta del medico soltanto in termini probabilistici anche minimi può essere considerata causa del danno o del mancato effetto positivo per il paziente.

Quindi, è proprio la mera probabilità relativa alla connessione eziologica fra comportamento umano ed evento dannoso concreto che permette di configurare una chance di sopravvivenza in capo al paziente. Più chiaramente, se il danneggiato riesce a dimostrare che il medico soltanto in percentuale minima sia stato causa del danno, significa che a quest'ultimo andavano pur sempre ricondotte talune possibilità di poter evitare il danno, pertanto, al paziente rimaneva la chance, la cui entità in punto di quantum corrisponderà proprio alla percentuale di efficienza causale della condotta del medico, di non subire l'aggravio della malattia o di non venir meno anzitempo.

Si elide, così, la regola del cd. “all or nothing” perché viene sostituito quale evento di danno la perdita di un bene astratto che altro non è che la trasposizione surrettizia dell'incertezza del nesso causale fra fatto ed evento concreto.

Inoltre, la sostituzione dell'evento lesivo concreto con la perdita di chance così accertata, consistente in un mero “diminutivo astratto”, semplifica l'onere probatorio del paziente. Infatti, se rispetto alla perdita materiale, concreta, la verifica della causalità concerne due distinte concause e va dimostrato in che misura la colpa del medico abbia influito nella causazione dell'evento infausto; qualora il termine di raffronto dell'evento sia meramente astratto e rappresentato dalla perdita della chance, l'unico fatto idoneo a produrlo è l'opera del professionista sanitario.

Tale sostituzione, che per le anzidette ragioni sembrerebbe ingiustificabile sul piano dogmatico, costituirebbe, quindi, un orientamento giustificato soltanto da una valutazione di politica del diritto, al fine di temperare la suddetta regola di prova del danno, introducendo ermeneuticamente un correttivo a sicuro favore del paziente, ma forse fin troppo sfavorevole per il danneggiante.

Va, ulteriormente, osservato che tali considerazioni critiche sono state accolte proprio nella parte motiva di un recentissimo arresto giurisprudenziale sull'argomento (Cass. civ., sez. III, 9 marzo 2018, n. 5641) in cui è stato sostenuto che: «sul medesimo piano d'indagine, che si estende dal nesso al danno, ove quest'ultimo venisse morfologicamente identificato, in una dimensione di insuperabile incertezza, con una possibilità perduta, tale possibilità integra gli estremi della chance, la cui risarcibilità consente (come scelta, hic et nunc, di politica del diritto, condivisa, peraltro, anche dalla giurisprudenza di altri Paesi di Common e di Civil law) di temperare equitativamente il criterio risarcitorio del cd. all or nothing, senza per questo essere destinata ad incidere sui criteri di causalità, nè ad integrarne il necessario livello probatorio».

Da tale contesto interpretativo la decisione in commento non prende le distanze, al contrario, ne risulta un'ulteriore conferma, allorquando nella parte motiva statuisce che: «la chance, in tale caso, rileva non come danno-conseguenza ai sensi dell'art. 1223 c.c., ma come danno-evento» e consequenzialmente la relativa pretesa risarcitoria «presuppone in effetti una specifica domanda e non può̀ ritenersi incluso nella generica istanza di risarcimento di tutti i danni subiti».

Conformemente alla ricostruzione delle chance quale autonomo bene giuridico e della sua lesione quale danno in sé risarcibile, la sentenza de qua precisa anche i differenti termini di relazione del giudizio causale, tanto con riferimento al rapporto tra condotta ed evento, quanto tra l'evento e le conseguenze dannose patrimoniali o non patrimoniali.

La motivazione, infatti, si sviluppa statuendo che, come sopra accennato: «il nesso di causalità̀ materiale fra la condotta colposa e l'evento va quindi posto in relazione non con riferimento all'evento morte sic et simpliciter, ma con riferimento alla perdita del detto limitato periodo di sopravvivenza. È rispetto a tale danno-evento che il giudice di merito deve valutare, sulla base della causalità̀ giuridica ai sensi dell'art. 1223, quali conseguenze pregiudizievoli siano derivate dall'avere privato il danneggiato dalla possibilità̀ di sopravvivere sia pure per un periodo limitato di vita».

Si precisa, peraltro, che nonostante la natura della perdita di chance, quale mera possibilità perduta di un risultato favorevole, ma solo eventuale, l'accertamento della stessa, rappresentata quale autonomo evento di danno, non può escludere l'ordinaria indagine in merito al nesso causale con la condotta illecita, pur sempre elemento costitutivo di ogni obbligo risarcitorio, a nulla rilevando che l'evento dannoso costituisca un elemento meramente possibile, come nel caso di specie, e non certo.

Viene così sancito anche il superamento della cd. concezione ontologica che nel mero accertamento della chance sancisce un danno risarcibile in re ipsa, affrancato da un vaglio eziologico rispetto al fatto dannoso, in quanto è sufficiente ricollegare quest'ultimo al venir meno dell'ottenimento del vantaggio finale, cui la chance è correlata.

L'assunto trova conferme nella giurisprudenza di Cassazione posteriormente al 2013, invero, anche per la risarcibilità della perdita di un'occasione favorevole viene sostenuto che: «Come per la causalità̀ ordinaria, anche per la causalità da chance perduta (da intendere come possibilità̀ di un risultato diverso e migliore, e non come mancato raggiungimento di un risultato solo possibile), l'accertamento del nesso di causalità̀ materiale implica sempre l'applicazione della regola causale di funzione, cioè probatoria, del più probabile che non, sicché, in questo caso, la ricorrenza del nesso causale può̀ affermarsi allorché il giudice accerti che quella diversa - e migliore - possibilità̀ si sarebbe verificata più̀ probabilmente che non» (Cass. civ., sez. III, 17 settembre 2013, n.21255; conformemente cfr. Cass. civ., sez. III, 27 marzo 2014, n. 7195, nonché in Cass. civ., sez. III, 9 marzo 2018, n. 5641 e in Cass. civ, sez. III, 19 marzo 2018, n. 6688).

Pertanto, va da sé che quand'anche una chance di tale contenuto venga riconosciuta nella sua sussistenza, questa non potrà essere oggetto di condanna risarcitoria qualora rispetto alla condotta inadempiente del medico non possa accertarsi un collegamento eziologico certo o altamente probabile: tanto in ragione della concomitanza di un ulteriore evento di per sé idoneo a causare l'evento perdita di chance, quanto in caso di concorso di fattori causativi meramente probabili (ad es: qualora il medico avesse correttamente adempiuto il proprio dovere diagnostico e avesse suggerito un intervento d'urgenza per rallentare il decorso della malattia, ma il paziente non vi si sarebbe potuto sottoporre a causa di preesistenti fattori di rischio). Osservazione messa in luce anche da Cass. civ., sez. III, 9 marzo 2018, n. 5641, che in motivazione ha affermato che: «sarà altresì esclusa ogni rilevanza causale della condotta, sul piano probabilistico, in tutti i casi di incertezza (ad esempio, nell'ipotesi di cd. multifattorialità dell'evento) sul rapporto di derivazione etiologica tra la condotta stessa e l'evento, pur nella sua astratta configurabilità̀ in termini di possibilità perduta».

II) Il passo motivazionale di maggiore interesse attiene, invece, alla predicabilità risarcitoria della lesione degli interessi ad una aspettativa di vita maggiore e di miglior qualità della vita, tutelati non quale mera perdita di chance rispetto agli stessi, ma in quanto distinti beni già presenti nella sfera giuridica del paziente.

Viene, infatti, evidenziata l'erroneità del vocabolo “possibilità” ogniqualvolta l'evento dannoso subito dal paziente non afferisca ad una chance in senso proprio. La stessa, infatti, sottintende l'ottenimento incerto di un vantaggio che rappresenta un quid pluris rispetto al patrimonio giuridico del singolo, ottenibile in futuro in termini probabilistici (definita, infatti, quale «possibilità protesa verso il futuro» nella pronuncia in esame).

Si riconosce, invero, che tali beni attengano all'ordinarietà della vita e non costituiscano un risultato meramente eventuale, qualora con certezza o altissima probabilità avrebbero potuto essere fruiti dall'individuo, se il sanitario avesse prestato diligentemente la propria opera.

Sicché la Corte di ultima istanza nella pronuncia in discorso, suffragando un indirizzo giurisprudenziale recentissimo, ammette la configurabilità di un evento di danno riguardante direttamente l'interesse a vivere più a lungo di quanto avvenuto in concreto e l'interesse a fruire adeguatamente del periodo di vita rimanente, potendo conservare la possibilità (ad esempio approntando cure meramente palliative) di esprimere la propria personalità, quali precipui e distinti beni afferenti al diritto alla salute, la cui lesione comporta la risarcibilità di un danno alla persona.

In tal senso, si riporta parte del contenuto motivazionale di Cass. civ, sez. III, 19 marzo 2018, n. 6688 la quale ebbe a statuire che con riferimento ad un paziente affetto, come nel caso di specie, da una patologia mortale, afferma che «la situazione di un malato terminale, il quale, sempre nel caso che la condotta medica sia corretta, può sopravvivere in misura infima (poche settimane o tutt'al più pochi mesi), e il cui effettivo se non assolutamente precipuo danno, se il medico erra, si incentra pertanto nelle modalità di vita del tempo rimasto», ragion per cui «in questa situazione non è ravvisabile la perdita di una possibilità proiettata nel futuro nel senso di futuro miglioramento della propria condizione, bensì la mancata fruizione di quel che, se la condotta del sanitario fosse stata corretta, la persona avrebbe potuto appunto continuare a fruire, giacchè a ben guardare la c.d. qualità della vita è un sinonimo di vita normale/ordinaria».

In tal modo, la Suprema Corte pone termine alle critiche ricevute alla propria ricostruzione della perdita di chance quale ipotesi autonoma di danno risarcibile.

Osservazioni

In primo luogo, si rileva che tale configurazione del danno per la minore durata della vita del paziente quale autonomo danno risarcibile delinea una voce di danno biologico. Pertanto, non dovrebbe richiedersi ai congiunti del paziente defunto di formulare autonome domande risarcitorie, verso i responsabili, in luogo di una generica domanda di risarcimento per tutti i danni patiti. Ciò si chiarisce, in quanto è la medesima pronuncia in esame che in premessa sostiene che il «danno da perdita di chance […] presuppone in effetti una specifica domanda e non può̀ ritenersi incluso nella generica istanza di risarcimento di tutti i danni subiti», in conformità alle precedenti statuizioni sul punto.

Peraltro, va dato atto, che pur riconoscendo la perdita di una maggiore durata della vita e/o di una sua migliore qualità quale distinto evento di danno, l'odierna giurisprudenza di legittimità non si è pronunciata in totale discontinuità rispetto al riconoscimento della mera perdita di chance quale danno autonomamente risarcibile. Difatti, viene sostenuto che qualora si presenti l'ipotesi in cui la condotta del medico, soltanto in termini probabilistici, avrebbe potuto evitare gli eventi concreti anzidetti, al paziente viene nuovamente riconosciuta la possibilità di far valere la pretesa risarcitoria per la perdita della possibilità di ottenere tale vantaggio finale.

Sul punto cfr. Cass. civ., sez. III, 9 marzo 2018, n. 5641, che specifica come possa individuarsi un'«insanabile incertezza rispetto all'eventualità di maggior durata della vita e di minori sofferenze, ritenute soltanto possibili alla luce delle conoscenze scientifiche e delle metodologie di cura del tempo», sicchè continua nella fase motiva «tale possibilità - i.e. tale incertezza eventistica (la sola che consenta di discorrere legittimamente di chance perduta) - sarà risarcibile equitativamente, alla luce di tutte le circostanze del caso, come possibilità perduta».

Appare dunque evidente che la revisione interpretativa evidenziata precedentemente, offerta anche nella decisione in commento, prende atto soltanto di un mero equivoco lessicale riferito alla “possibilità di una vita più lunga e di qualità migliore”, ma non rinuncia ad ammettere la risarcibilità della chance, in ipotesi di incertezza del nesso causale fra fatto illecito ed evento dannoso, così continuando a dare consistenza ad una concezione che la Cassazione medesima giustifica in mere ragioni di opportunità.

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