Natura ed uso dell’area cortilizia retrostante il fabbricato condominiale
28 Dicembre 2018
Massima
Il cortile rientra nella previsione di “bene comune” di cui all'art. 1117 c.c., a nulla rilevando che si trovi in posizione esterna al condominio, risultando comunque funzionale per consentirvi l'accesso, e destinato a dare aria e luce allo stesso edificio condominiale. Pertanto, l'utilizzo del cortile condominiale da parte di un singolo condomino non può spingersi fino ad impedire un pari uso della stessa area da parte degli altri condomini, attraverso la sua stabile occupazione e delimitazione con opere che, di fatto, ne impediscano l'uso comune, le quali, ove realizzate vanno rimosse. Il caso
Con la sentenza impugnata, il Tribunale rigettava la domanda proposta dal Condominio, diretta a sentir accertare la proprietà condominiale dell'area cortilizia retrostante il fabbricato, cui si accedeva anche dall'androne condominiale, e, conseguentemente, a condannare i soggetti convenuti proprietari di un fondo esistente in loco in ragione della indebita occupazione dell'area, a rimuovere tutte le opere già realizzate. Avverso la decisione del giudice di prime cure interponeva gravame il condominio. La questione
L'oggetto del contendere è rappresentato da un'area cortilizia retrostante un fabbricato condominiale, su cui ha accesso diretto dal vano scale il predetto condominio, il quale, ha chiesto accertarsi che l'area in questione è stata indebitamente occupata dagli appellati e per l'effetto, sentirli condannare a rimuovere le opere di recinzione da loro apposte, con restituzione dell'immobile nel godimento della collettività condominiale. Le soluzioni giuridiche
L'appello viene giudicato fondato in quanto, nella fattispecie scrutinata l'area cortilizia è reputata di natura condominiale rientrando nella previsione di cui all'art. 1117 c.c. a nulla rilevando che si trovi in posizione esterna al condominio, rispondendo alle caratteristiche delineate dalla giurisprudenza per essere considerata comune, trattandosi di area destinata a dare aria e luce al condominio oltre che funzionale all'accesso al medesimo. La Corte di merito accoglie la domanda del condominio dopo avere constatato che la stabile occupazione e delimitazione posta in essere dai convenuti, in riferimento ad un'ampia parte della suddetta area condominiale, con opere visibili (fioriere e muretto in mattoni), impediva agli altri condomini di usufruire in pari misura dello stesso spazio condominiale. Osservazioni
La sentenza che si commenta descrive l'area cortilizia come delimitata da una recinzione in rete e canniccio, con una pavimentazione cementizia realizzata dai convenuti, che nei loro scritti difensivi - evidenziano i giudici di merito - hanno dichiarato di essere condomini del condominio appellante, tanto da non avere contestato la natura di bene comune del cortile per cui è causa, rivendicandone unicamente l'uso esclusivo per effetto dell'accesso con regolare uscita nello stesso cortile comune, esistente sul fondo di cui sono proprietari, fin dalla costruzione del retrostante fabbricato condominiale, il cui androne, consente a sua volta l'accesso alla suddetta area. Il cortile, tecnicamente, è l'area scoperta compresa tra i corpi di fabbrica di un edificio o di più edifici, che serve a dare luce e aria agli ambienti circostanti. Ma avuto riguardo all'ampia portata della parola e, soprattutto alla funzione di dare aria e luce agli ambienti, che vi prospettano, nel termine cortile possono ritenersi compresi anche i vari spazi liberi disposti esternamente alle facciate dell'edificio - quali gli spazi verdi, le zone di rispetto, le intercapedini, i parcheggi - che, sebbene non menzionati espressamente nell'art. 1117 c.c., vanno ritenute comuni a norma della suddetta disposizione (Cass. civ., sez. II, 9 giugno 2000, n. 7889). La comunione condominiale dei beni di cui all'art. 1117 c.c., è quindi presunta e, tale presunzione legale può essere superata dalla prova di un titolo contrario, che si identifica nella dimostrazione della proprietà esclusiva del bene in capo ad un soggetto diverso (Cass. civ., sez. II, 31 gennaio 2017, n. 2532). Al fine di stabilire se sussista un titolo contrario alla presunzione di comunione di cui all'art. 1117 c.c., occorre fare riferimento all'atto costitutivo del condominio, e, quindi, al primo atto di trasferimento di un'unità immobiliare dell'originario proprietario ad altro soggetto. Pertanto, se in occasione della prima vendita la proprietà di un bene potenzialmente rientrante nell'ambito dei beni comuni risulti riservata ad uno solo dei contraenti, deve escludersi che tale bene possa farsi rientrare nel novero di quelli comuni (Cass. civ., sez. II, 27 maggio 2011, n.11812). Al riguardo, va precisato che l'art. 1117 c.c. contiene un'elencazione solo esemplificativa e non tassativa dei beni che si presumono comuni poichè sono tali anche quelli aventi un'oggettiva e concreta destinazione al servizio comune, salvo che risulti diversamente dal titolo, mentre, al contrario, tale presunzione non opera con riguardo a beni che, per le proprie caratteristiche strutturali, devono ritenersi destinati oggettivamente al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari (Cass. civ., sez. II, 29 gennaio 2015, n.1680). Conseguentemente, poiché il diritto di condominio sulle parti comuni dell'edificio ha il suo fondamento nel fatto che tali parti siano necessarie per l'esistenza dell'edificio stesso, ovvero che siano permanentemente destinate all'uso o al godimento comune, la presunzione di comproprietà posta dall'art. 1117 c.c., può essere superata se la cosa, per obbiettive caratteristiche strutturali, serve in modo esclusivo all'uso od al godimento di una parte dell'edificio, venendo meno, in questi casi, il presupposto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria, in quanto la destinazione particolare del bene prevale sull'attribuzione legale, alla stessa stregua del titolo contrario (Cass. civ., sez. II, 2 agosto 2010, n.17993). Ciò premesso, i giudici del gravame osservano che la fattispecie scrutinata si caratterizza per il fatto che il bene rivendicato dal condominio è di natura “comune” perché tale area esterna all'edificio condominiale può essere considerata un cortile, rientrante nella previsione di cui all'art. 1117 c.c., servendo a dare luce ed aria agli ambienti circostanti, oltre ad essere funzionale a consentire l'accesso al condominio, e che la stessa domanda risulta essere stata proposta contro un condomino. A sostegno delle motivazioni espresse nella sentenza in commento, la corte di merito genovese richiama l'orientamento di legittimità secondo cui se è certamente esatto che i cortili hanno la funzione di dare aria e luce agli ambienti dei fabbricati, è altrettanto esatto che l'area adiacente ad un fabbricato, che assolve a tale funzione, non può perciò solo essere qualificata cortile, essendo necessario a tale fine che essa abbia anche la funzione di consentire l'accesso al fabbricato (Cass. civ., sez. II, 29 ottobre 2003, n.16241; v. anche Cass. civ., sez. II, 10 novembre 1998, n.11283, in cui si è puntualizzato che il cortile, che dà aria e luce ai piani ed alle porzioni di piano ed allo stesso tempo viene utilizzato come accesso al fabbricato, ancorché costituisca copertura del piano sotterraneo adibito ad autorimessa, costruito non al di sotto dell'edificio, ma al di fuori della proiezione verticale dei piani sopraelevati, per la struttura e per la funzione deve ritenersi come parte necessaria per l'esistenza e per l'uso del fabbricato e, di conseguenza, deve qualificarsi come proprietà comune, ai sensi e per gli effetti dell'art. 1117 c.c.; Cass. civ., sez. II, 14 novembre 1996, n. 9982, in cui si evidenzia che la presunzione di proprietà comune, stabilita nell'art. 1117 c.c., deve ritenersi applicabile, per analogia, anche quando non trattasi di parti comuni di edificio per piani, bensì di parti comuni di edifici limitrofi ed autonomi, destinate permanentemente alla conservazione o all'uso di tali edifici, come nel caso del cortile compreso tra più edifici appartenenti a proprietari diversi, ove si presenti destinato a dare aria, luce e accesso a tutti gli edifici che lo circondano e non soltanto ad uno di essi). È vero che trattasi di una presunzione iuris tantum che può essere esclusa dal titolo, ma, nel caso specifico, la corte territoriale, attraverso l'esame dei documenti ha accertato che i titoli non contenevano alcuna esclusione (v. anche Cass. civ., sez. II, 3 ottobre 1991, n. 10309, da cui si evince che la presunzione di comunione del cortile trae la sua ratio dalla obiettiva destinazione del bene a servizio e utilità degli edifici circostanti, sicché nella nozione di cortile devono intendersi compresi anche gli spazi esterni che, oltre a dare aria e luce agli stessi, soddisfano altresì l'esigenza dell'accesso alla via pubblica). La giurisprudenza di legittimità ha altresì affermato che in tema di condominio negli edifici, per tutelare la proprietà di un bene appartenente a quelli indicati dall'art. 1117 c.c., non è necessario che il condominio dimostri con il rigore richiesto per la rivendicazione la comproprietà del medesimo, essendo sufficiente, per presumerne la natura condominiale, che esso abbia l'attitudine funzionale al servizio o al godimento collettivo, e cioè sia collegato, strumentalmente, materialmente o funzionalmente con le unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condomini, in rapporto con queste da accessorio a principale, mentre spetta al condomino che ne afferma la proprietà esclusiva darne la prova (Cass. civ., sez. II, 5 maggio 2016, n. 9035; Cass. civ., sez. II, 7 maggio 2010, n. 11195). Le motivazioni offerte dai giudici genovesi ribadiscono altresì il principio che limitazioni poste dall'art. 1102 c.c. al diritto di ciascun partecipante alla comunione di servirsi della cosa comune, rappresentate dal divieto di alterare la destinazione della cosa stessa e di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, vanno riguardate in concreto, cioè con riferimento alla effettiva utilizzazione che il condomino intende farne e alle modalità di tale utilizzazione, essendo, in ogni caso, vietato al singolo condomino di attrarre la cosa comune o una parte di essa nell'orbita della propria disponibilità esclusiva e di sottrarla in tal modo alla possibilità di godimento degli altri condomini (Cass. civ., sez. II, 4 marzo 2015, n. 4372; Cass. civ., sez. II, 28 aprile 2004, n. 8119; Cass. civ., sez. II, 22 marzo 2001, n. 4135). Il giudice distrettuale, infine, rigetta la richiesta di risarcimento del danno per l'illegittima occupazione dell'area condominiale, stante la mancata allegazione di alcun tipo di pregiudizio subito dal condominio, evidenziando che l'occupazione indebita non è il danno, ma la condotta produttiva di esso, in tale modo ricordando che la perduta disponibilità di un immobile non costituisce un danno in re ipsa - cioè coincida con l'evento, poiché il danno risarcibile è pur sempre un danno conseguenza anche nella responsabilità aquiliana, giusti i principi di cui agli artt. 2056 e 1223 c.c., e non coincide con l'evento, che è invece un elemento del fatto, produttivo del danno (Cass. civ., sez. III, 17 giugno 2013, n. 15111; Cass. civ. sez. III, 11 gennaio 2005, n. 378) - nel senso che, provata l'occupazione abusiva, non può dirsi per ciò solo provato il danno, che tuttavia, sulla scorta della circostanza che qualsiasi bene è suscettibile anche di uso diretto da parte del proprietario, può essere dimostrato anche attraverso presunzioni semplici, potendo consistere anche nell'utilità teorica che il danneggiato poteva ritrarre dall'uso diretto del bene, durante il tempo per il quale è stato occupato da altri (Cass. civ., sez. III, 21 settembre 2015, n. 18494).
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