Non si può riqualificare come cessione di ramo d'azienda un'operazione che ne prevede il conferimento

Fabio Gallio
19 Febbraio 2019

Con la sentenza del 4 ottobre 2018, n. 4159, la Commissione Tributaria Provinciale di Milano ha sancito che l'Agenzia delle Entrate non può richiedere ai contribuenti un'imposta di registro diversa da quella applicata agli atti, facendo riferimento agli effetti economici delle operazioni, anziché alla loro natura giuridica.
Massima

Con la sentenza del 4 ottobre 2018, n. 4159, la Commissione Tributaria Provinciale di Milano ha sancito che l'Agenzia delle Entrate non può richiedere ai contribuenti un'imposta di registro diversa da quella applicata agli atti, facendo riferimento agli effetti economici delle operazioni, anziché alla loro natura giuridica.

Infatti, secondo i giudici milanesi, l'art. 20 del d.P.R. n. 131/1986 (di seguito anche TUR), nella versione precedente alle recenti modifiche, costituirebbe una disposizione che si riferisce espressamente agli effetti giuridici degli atti presentati per la registrazione. In altri termini, nella sua applicazione, non può prescindersi dal fatto che l'imposta in esame è un "imposta d'atto", ragion per cui, per stabilire i presupposti ed i criteri della tassazione, occorre far riferimento al contenuto e agli effetti che emergono dall'atto stesso, senza possibilità di utilizzare elementi ad esso estranei, né di ricercare contenuti diversi da quelli che risultano dalla concreta realizzazione della volontà delle parti.

Del resto, nel caso in cui, come quello in esame, parte contribuente riesca a dimostrare che, con l'operazione contestata, non abbia voluto trasferire un'azienda, l'Amministrazione non può contestare il mancato pagamento dell'imposta in misura proporzionale.

Le conclusioni a cui arriva tale sentenza sono condivisibili, tenendo conto che i riferimenti all'art. 20 sono stati superati dalle recenti modifiche apportate dalla Legge di Bilancio del 2018, malgrado non è stato chiarito da quando valgono le nuove disposizioni.

Il caso

L'Ufficio ha contestato un'operazione di conferimento di azienda e successiva cessione delle partecipazioni detenute nella conferitaria, come cessione di azienda, liquidando l'imposta di registro in misura proporzionale al 3%, anziché fissa.

Le motivazioni di tale rettifica si sono basate sul fatto che un Gruppo internazionale, operante nel settore dell'accoglienza in hotel, ha separato anche in Italia le due principali linee di business, quella di Hotel Invest (investimento diretto e locazione di strutture alberghiere - gestione immobiliare) e quella di Hotel Services (attività di avvio e sviluppo di attività ricettive, gestione di strutture alberghiere anche relative a strutture alberghiere di terzi).

L'operazione è consistita nel conferire il ramo “services” in una Newco, le cui partecipazioni sono state cedute ad altra società con lo scopo di concentrare tale attività sotto un unico socio e di fare entrare terzi investitori in tale settore.

Pertanto, la (quasi) contestuale costituzione della Newco e la successiva cessione delle sue quote avrebbe giustificato la riqualifica del trasferimento del bene ai sensi dell'art. 20 del TUR.

La società ha impugnato il relativo avviso di liquidazione, contestando l'applicazione dell'art. 20 all'operazione in oggetto e dimostrando, in ogni caso, come lo scopo dell'operazione non è stato quello di acquisire un ramo d'azienda, ma quello di riorganizzare il Gruppo come sopra precisato.

Per questo motivo, è stato ritenuto che i relativi atti sono sorretti da effettive cause economiche e motivati da insindacabili scelte imprenditoriali; in particolare, queste sono apparse essere pienamente inquadrabili in attività di gestione e riassetto delle partecipazioni azionarie nell'ambito del medesimo gruppo.

Inoltre, la CTP ha sancito che detta operazione non avrebbe potuto produrre il medesimo effetto giuridico ottenibile mediante la cessione dell'azienda; al fine di rendere tali effetti assimilabili, ovvero per far divenire “proprietario” dell'azienda la società acquirente, sarebbero occorsi atti ulteriori come, ad esempio, una fusione per incorporazione tra le due società, circostanza questa che i giudici milanesi non hanno verificato essere stata posta in essere.

La pronuncia in esame è importante in quanto sancisce il principio secondo il quale l'Ufficio non può contestare automaticamente un'operazione di conferimento di azienda con successiva cessione di quote come trasferimento d'azienda, soprattutto quando è evidente che, con l'operazione, non è possibile ottenere i medesimi effetti giuridici ed economici.

Tale principio vale, secondo i giudici milanesi, anche per le operazioni effettuate prima delle recenti modifiche apportate dall'art. 1 c. 87 lett. a) della L. n. 205/2017, che definitivamente ha chiarito che l'art. 20 non può essere utilizzato per contestare la sostanza economica degli atti sottoposti a registrazione.

In merito all'efficacia di tale normativa, nello sentenza si legge che viene condivisa la tesi sulla natura interpretativa e chiarificatrice della novella, con effetto retroattivo. Al contrario, non viene condivisa l'interpretazione sulla rivisitazione strutturale della norma, con valenza modificativa ed effetto innovativo a decorrere dal gennaio 2018, come invece sancito dalla Corte di Cassazione.

La questione

Applicando la normativa precedente alle modifiche apportate dalla Legge di Bilancio del 2018, su cui ci soffermerà di seguito, l'Agenzia delle Entrate, anche a causa di alcuni arresti giurisprudenziali da parte della Corte di Cassazione, ha effettuato degli accertamenti per l'imposta di registro, eccependo che operazioni, come la cessione totalitaria di quote o il conferimento di un'azienda in una società e la successiva cessione delle partecipazioni, possono essere qualificabili come una semplice cessione di azienda. Tali eccezioni, che presuppongono evidentemente che lo strumento societario venga considerato come totalmente inesistente ai fini dell'inquadramento tributario dell'operazione, è stata effettuata in forza della nota disposizione (art. 20 del testo unico sull'imposta di registro) che, nella versione precedente, avrebbe consentito agli Uffici tributari di “reinterpretare” gli atti dei contribuenti tassandoli in base alla loro “intrinseca natura” ed agli “effetti giuridici”, al di là della loro “forma apparente”.

A questo punto, va ricordato che, secondo alcune recenti sentenze dei giudici di legittimità, con in vigore la precedente normativa sarebbe stato possibile riqualificare suddette operazioni come cessione di azienda, applicando l'art. 20 del d.P.R. n. 131/1986, rubricato “interpretazione degli atti”, al quale, non sarebbe stata più attribuita una funzione esclusivamente antielusiva, ma quella di individuare il fatto realmente imponibile connesso con l'atto sottoposto a registrazione.

Infatti, la Suprema Corte (con la sentenza del 18 maggio 2016, n. 10216) avrebbe sancito che, nella normativa dell'imposta di registro, prima delle recenti modifiche, sarebbe stato applicabile il principio interpretativo di cui all'art. 20 testè citato, secondo cui: "L'imposta è applicata secondo l'intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente".

In altri termini, i giudici di legittimità avrebbero considerato: “…preminente la causa reale e la regolamentazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti, seppure mediante una pluralità di pattuizioni non contestuali o di singole operazioni, non rivelandosi decisiva, in ipotesi di negozi collegati, la rispettiva differenza di oggetto” (dello stesso avviso, tra le più recenti, le sentenze della Corte di Cassazione n. 9582 del 11 maggio 2016, n. 8542 del 29 aprile 2016, n. 6758 del 15 marzo 2017).

La Corte di Cassazione (con la sentenza del 24 novembre 2017, n. 28064), ha anche sostenuto che: “pur non potendosi prescindere dalla interpretazione della volontà delle parti secondo i canoni generali, l'art. 20 del DPR n. 131/1986 impone di dare rilievo preminente nell'imposizione di un atto alla sua causa reale”, e che “il richiamo all'autonomia dei soggetti ed ai requisiti del negozio non può valere ad escludere la rilevabilità fiscale degli effetti economici effettivamente ottenuti dai contraenti, anche mediante una pluralità di pattuizioni non contestuali”. In tal modo è stata effettuata una valutazione dell'efficacia interpretativa e probatoria degli elementi fattuali suindicati, emergenti dagli atti e dedotti dall'Amministrazione a fondamento della causa unitaria, ritenendo i due atti dispositivi “ricollegabili ad un unico procedimento negoziale frazionato ma sostanzialmente elusivo di una fattispecie tributaria”.

Tale tesi, però, non è mai stata condivisa, oltre che dalla prevalente giurisprudenza di merito (Commissione Tributaria Provinciale di Roma, n. 14467/18 del 2016, Commissione Tributaria Provinciale di Vicenza n. 156/3 del 2017, Commissione Tributaria Provinciale di Reggio Emilia, n. 189/2017), anche dalla quasi unanime dottrina (così Pischetola A., Con il nuovo abuso del diritto possibile una rilettura della norma sull'interpretazione degli atti, in “Il fisco” n. 25/2016).

In particolare, in primis, è stato sostenuto che siffatte operazioni non sarebbero state idonee a produrre un effetto giuridico identico e unitario a quello che si sarebbe ottenuto nel caso del trasferimento diretto del ramo d'azienda.

Inoltre, è stato fatto presente come l'Amministrazione finanziaria avrebbe dovuto far riferimento all'imposta di registro come ad un'imposta d'atto che colpisce, unicamente, l'atto sottoposto a registrazione e non il trasferimento ad esso sottostante.

Infine, è stato sottolineato come il nuovo art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente sarebbe stato destinato a limitare l'ambito operativo delle altre norme tributarie in materia di interpretazione dei fatti, dei comportamenti e delle vicende negoziali, compresa quella recata dall'art. 20 del T.U.R.

Malgrado la modifica apportata dalla legge di Bilancio 2018 alla relativa normativa, l'Agenzia delle Entrate sembrerebbe essere orientata a continuare il contenzioso in essere, ritenendo che la nuova normativa si applicherebbe solamente a partire (e per gli atti di liquidazione notificati) dal primo gennaio 2018.

Per questo motivo, si ritiene necessario soffermarsi sui motivi per cui non si ritengono condivisibili le conclusioni fatte proprie dall'Agenzia delle Entrate.

Le soluzioni giuridiche

Le riqualificazioni degli atti ai fini delle imposte indirette, secondo le recenti pronunce della Corte, si dovrebbero poggiare sul citato art. 20, in quanto ciò che rileva, ai fini della tassazione dell'imposta di registro, è il dato giuridico reale.

In questo, caso, la sussistenza dell'intento elusivo diventerebbe del tutto ininfluente ai fini della riqualificazione degli atti, non essendo così necessario che l'Agenzia fornisca i presupposti dell'abuso del diritto o dell'elusione (così sentenze Cass. Civ., n. 8655/2015, Id. n. 3481 e n. 21770/2014).

L'art. 20 costituirebbe, così, una disposizione volta ad identificare l'elemento strutturale del rapporto giuridico tributario, che legittimerebbe la riqualificazione di tali operazioni.

Tali conclusioni, però, non tengono conto del fatto che l'anzidetta disposizione è innovativa rispetto alla precedente norma contenuta nell'art. 8 R.D. n. 3269/23 che faceva generico riferimento agli "effetti" degli atti ai fini della loro interpretazione, in quanto ha introdotto il concetto di "effetti giuridici", prima inserendolo nell'art 19 del d.P.R. n. 634/1972 e quindi nell'art. 20, distinguendo quindi quest'ultimi dagli "effetti economici" dell'atto.

In altri termini, con l'aggettivo “giuridici”, il legislatore ha chiaramente inteso respingere la tesi dell'interpretazione economica degli atti.

Pertanto, in assenza di una specifica norma tributaria che disponga diversamente, gli effetti giuridici non possono che essere quelli "civilistici"; quindi l'ufficio, nel ricostruire la reale natura giuridica dell'atto, non può andare oltre la qualificazione civilistica e degli effetti giuridici desumibili da un'interpretazione complessiva del medesimo.

In questo senso l'art. 20 citato si colloca in linea con i principi costituzionali della riserva di legge nell'individuazione del presupposto impositivo (art. 23 Cost.), della tutela dell'iniziativa economica privata (art. 41 Cost.) e della corretta interpretazione del principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.).

Si delinea quindi, una notevole differenza tra l'interpretazione di un contratto in ragione degli effetti giuridici che ne scaturiscono, a norma dell'art. 20 del d.P.R. n. 131/1986, e la valutazione di più negozi giuridici nella prospettiva del collegamento negoziale.

Pertanto, salvo le ipotesi tassativamente previste negli articoli 21 (in tema di atti che contengono più disposizioni) e 22 (in base al quale viene data rilevanza ad un precedente atto solo se questo è enunciato in un altro atto e solo se il precedente atto è intervenuto tra le stesse parti) del d.P.R. 131/1986 , non è possibile creare collegamenti tra diversi negozi giuridici, interpretando gli atti “extra-testualmente”.

In altre parole, l'art. 20 non può essere utilizzato dall'Amministrazione finanziaria o dal giudice, per svolgere un'operazione interpretativa complessiva della condotta del contribuente, allo scopo di operare collegamenti tra fattispecie negoziali ciascuna con specifiche individualità e finalità giuridiche.

Ciò sarebbe confermato dall'introduzione dell'art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente da parte del D.Lgs. n. 128/2015, con la contestuale abrogazione dell'art. 37-bis del d.P.R. n. 600/1973.

Infatti, con tali modifiche normative, l'intento del Legislatore è stato quello di fornire una novella che permetta una valutazione complessiva ed unitaria dei possibili fenomeni “abusivi/elusivi”, con riferimento a tutti i tributi, compresa l'imposta di registro, essendo stata inserita la disposizione all'interno dello Statuto del contribuente.

Pertanto, per identificare gli “effetti economici”, gli uffici sono tenuti ad applicare quanto previsto dall'art. 10-bis citato, qualora vogliano eccepire un'eventuale vantaggio fiscale indebito.

Ma tale eccezione non potrà trovare accoglimento nel caso in cui non venga dimostrato che cedere le quote di una società che comprende un'azienda o vendere direttamente l'azienda sia esattamente la stessa cosa e produca, anche rispetto ai terzi, esattamente gli stessi effetti civilistici e fiscali.

Del resto, con l'acquisto diretto dell'azienda, gli elementi attivi e passivi del complesso determinerebbero effetti reddituali positivi e negativi in capo all'avente causa, mentre, in caso di cessione di partecipazioni, ciò avverrebbe solamente nel caso di rivalutazione e svalutazione delle stesse partecipazioni. L'acquirente delle partecipazioni, inoltre, non avrebbe la disponibilità dei beni e quindi non potrebbe utilizzarli, così come non avrebbe alle proprie dipendenze i lavoratori. Nel caso del trasferimento dell'azienda sorgerebbero le responsabilità ex art. 2560 c.c., che, nell'ipotesi di cessione di partecipazioni, non si verificherebbero (Si rinvia a quanto affermato anche da Assonime nella Circolare 20 del 3 agosto 2017).

Pertanto, gli operatori economici devono avere la libertà di scegliere come fare circolare un complesso aziendale, e, quindi, scegliere, se effettualo attraverso la sua diretta cessione a terzi (c.d. “asset deal”), ovvero mediante l'utilizzo di strumenti alternativi (c.d. “share deal”), tra i quali, ad esempio, il conferimento d'azienda seguito poi dalla cessione delle partecipazioni ricevute nella conferitaria.

Osservazioni

In conclusione, si può sostenere che il riferimento agli effetti giuridici contenuto nella norma comporta che l'imposta debba essere applicata in relazione allo schema giuridico che l'atto sottoposto a registrazione è idoneo a realizzare, alla sintesi, cioè, delle conseguenze giuridiche che è idoneo a produrre, indipendentemente dalla denominazione indicata dalle parti e dalla veste formale che lo racchiude.

La ratio della norma, avente natura interpretativa, è quella di consentire all'Amministrazione finanziaria di non fermarsi al nomen iuris attribuito dalle parti agli atti sottoposti a registrazione, avendo il dovere di verificare che vi sia coerenza tra la denominazione dell'atto e le clausole in esso contenute, valorizzandone a tal fine esclusivamente i relativi effetti giuridici.

In altri termini, la disposizione è tesa a fugare la possibilità di intitolare l'atto in un modo e poi redigere le clausole disponendo regole non coerenti con l'intitolazione, sostenendo gli oneri tributari corrispondenti al nomen iuris improprio risultante dal contratto. Seguendo quanto previsto dall'art. 20, ad esempio, potrà essere tassato come atto di conferimento di immobili quello che, pur essendo definito un conferimento d'azienda dal contribuente, in realtà è un trasferimento di un complesso immobiliare, piuttosto che un complesso aziendale.

Inoltre, al contrario di quanto eccepito dall'Agenzia delle Entrate, è sempre necessario procedere ad un'indagine sulla reale intenzione delle parti, desumibile dal risultato finale ottenuto mediante la stipula dei documenti contrattuali (così la Corte di Cassazione con l' ordinanza del 19 luglio 2017, n. 17785) ed in giudici devono vagliare la documentazione probatoria di parte contribuente e, qualora quest'ultimo riesca a dimostrare che gli effetti di un determinato atto siano diversi da quelli contestati, gli stessi giudici hanno l'obbligo di annullare le pretese dell'Ufficio (così la Corte di Cassazione con la sentenza del 27 gennaio 2017, n. 2048).

Di tali problematiche, se ne è accorto il legislatore, il quale ha cercato di rendere ancora più chiara la normativa in vigore, riformulando l'art. 20 e dell'art. 53-bis, del d.P.R. n. 131/1986.

Ciò con l'obiettivo di evitare simili contestazioni, che, causando incertezze nella tassazione delle operazioni rendono meno attraenti gli investimenti in Italia da parte di soggetti esteri.

La nuova normativa non è stata qualificata dal legislatore espressamente come di natura interpretativa.

Come rilevato da autorevole dottrina (Assonime in Circolare n. 3/2018), la sua funzione chiarificatrice parrebbe confermata anche dalla relazione governativa al disegno di legge la quale afferma che ”trattandosi di norma di natura chiarificatrice, dalla stessa non derivano effetti in termini di gettito. In particolare, la misura si limita esclusivamente a precisare le modalità con cui gli uffici devono effettuare le valutazioni ai fini del controllo, in tema di imposta di registro”.

Di tale avviso anche una recentissima dei giudici di merito (Sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Reggio Emilia del 31 gennaio 2018, n. 4/2/18) che, discostandosi da quanto stabilito da quelli di legittimità (Corte di Cassazione del 26 gennaio 2018, n. 2007/2018 e Cass. Civ., 28 febbraio 2018, n. 4590/2018), ha rilevato che il nuovo art. 20, Tur ha natura interpretativa e non innovativa. Pertanto, le nuove disposizioni devono applicarsi anche per le operazioni effettuate e contestate precedentemente al primo gennaio 2018.

Ma anche nel caso in cui non si dovesse condividere la natura interpretativa della nuova normativa, altri giudici di merito (Sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Milano del 12 febbraio 2018, n. 571/18) hanno sancito che in ogni caso va tenuto in conto dell'intervento del Legislatore e, pertanto, anche sulla base del testo previgente, attualmente si deve preferire il diverso orientamento della Cassazione (pronuncia n. 2054/2017), rispetto a quello in commento, che impedisce all'Amministrazione Finanziaria di travalicare, nell'attività riqualificatoria, lo schema negoziale tipico nel quale l'atto risulta inquadrabile, pena l'artificiosa costruzione di una fattispecie imponibile diversa da quella voluta e comportante effetti giuridici differenti.

E questo sarebbe coerente con l'intento del legislatore che si sarebbe reso conto, non solo del danno che sta provocando la tesi degli Uffici in merito a tale normativa, ma anche del fatto che vi sarebbe un ingiusto trattamento delle operazioni contestate prima dell'entrata in vigore della nuova versione degli articoli in esame, malgrado, come si è cercato di esporre, anche nella versione precedente la ratio della normativa era chiara.

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