Al cavedio si applica il regime giuridico del cortile condominiale

Guerino De Santis
13 Marzo 2019

Spesso succede che le controversie condominiali abbiano ad oggetto anche la discussione circa l'uso di parti del fabbricato non chiaramente appartenenti ai beni comuni elencati dall'art. 1117 c.c., per cui sovente il giudice è chiamato ad interpretazioni analogiche di tale norma. Il caso del cavedio è emblematico...
Massima

Il cavedio, cortile di piccole dimensioni, circoscritto dai muri perimetrali e dalle fondamenta dell'edificio condominiale, essendo destinato prevalentemente a dare aria e luce a locali secondari (quali bagni, disimpegni, servizi), è sottoposto al regime giuridico del cortile, qualificato bene comune, salvo tiolo contrario, dall'art. 1117, n. 1), c.c., senza che la presunzione di condominialità possa essere vinta dal fatto che al cavedio si acceda solo dall'appartamento di un condomino o dal fatto che costui vi abbia posto manufatti collegati alla sua unità (nella specie, pilozza, scaldabagno, impianto di illuminazione), in quanto l'utilità particolare che deriva da tali fatti non incide sulla destinazione tipica e normale del bene in favore dell'edificio condominiale.

Il caso

Tizia acquistava un appartamento al piano rialzato facente parte di un fabbricato condominiale con balconata a livello, dalla quale si accedeva ad un'area pertinenziale scoperta. L'amministratore del condominio contestava alla suddetta proprietaria il possesso illegittimo della detta area pertinenziale, nonché l'effettuazione di lavori asseritamente abusivi della pavimentazione dello stesso, invitandola al rilascio solo per una parte di mq. 47, ritenendo la restante parte di mq. 35 non in contestazione. La proprietaria, dal canto suo, eccepiva la piena titolarità in via esclusiva di tutta l'area di mq. 82, sostenendo di averne goduto medio tempore del relativo possesso in via pacifica.

Citava dinanzi il Tribunale di Napoli il condominio e l'amministratore in proprio, al fine di far dichiarare l'inesistenza di diritti reali, totali o parziali, su detta corte.

Si costituivano in giudizio i convenuti contestando la domanda, ed il condominio chiedeva, in via riconvenzionale, il rilascio della parte comune estesa mq. 47. Alla prima udienza l'attrice, in risposta alle contestazioni avverse, eccepiva l'intervenuto acquisto della proprietà per usucapione decennale e/o ventennale, unendo il proprio possesso a quello del suo dante causa.

La questione

Si trattava, quindi, di verificare se l'area pertinenziale scoperta a servizio dell'appartamento dell'attrice, incastrata nelle mura del palazzo, fosse o meno condominiale. La tesi della condomina si fondava sul presupposto che l'atto gliene attribuisse la proprietà esclusiva, eccependo, in via subordinata, acquisto a titolo originario per intervenuta usucapione, mentre il condominio, dal canto suo, instava per il rilascio della porzione di mq. 47, ritenendo condominiale la predetta area, non contestando la restante parte di mq. 35 che riconosceva di proprietà esclusiva della controparte.

Le soluzioni giuridiche

Il Tribunale di Napoli, prima di decidere, ha ritenuto di dover focalizzare alcune questioni pregiudiziali al merito.

Innanzitutto, la titolarità dell'area contesa tra l'attrice e il condominio. La prima ne rivendicava la totalità in quanto a suo dire l'atto di acquisto ne aveva disposto l'attribuzione piena e comunque, in subordine, era intervenuto in suo favore un acquisto a titolo originario in virtù di un possesso pacifico e indisturbato protratto oltre il ventennio sommandosi anche quello del precedente proprietario. Il condominio si opponeva in quanto deduceva che l'atto di proprietà intestava alla istante solo mq. 35 di spazio, residuando mq. 47 soggetti alla presunzione di condominialità ai sensi dell'art. 1117 c.c.

Sul punto della titolarità in via esclusiva dell'attrice, il decidente ha posto un freno alla estensione interpretativa che questa aveva dato al tenore letterale dell'atto di acquisto del bene principale e della sua pertinenza (area), in quanto secondo il giudice napoletano il dato letterale era chiaro: ella aveva acquistato solo mq. 35 e non tutta l'area, fondando tale assunto sulla considerazione per la quale «ragionare diversamente, cioè attribuire alle parti di un contratto quello di modificare l'estensione del suo oggetto in contrasto con quanto risulta da precedente atto pubblico intervenuto tra parti parzialmente diverse, significherebbe stravolgere le regole che presiedono ad una regolare e verificabile circolazione dei beni, circolazione ispirata al noto brocardo nemo plus iuris ad alium transferre potest quam ipse habet».

Così come rigettava l'eccezione di usucapione, sia breve che ordinaria, sul presupposto che non era possibile usucapire una sola parte dell'area dando atto che «presupposto indispensabile… è la perfetta coincidenza tra il bene posseduto e quello oggetto del titolo»(Cass. civ., sez. II, 24 febbraio 2016, n. 3648) e che il possesso ventennale ai fini della configurabilità della usucapione ordinaria andava escluso perché non dimostrate nel corso del giudizio le circostanze che comprovavano l'esercizio di tutte le facoltà che connotano un possesso ad usucapionem (Cass. civ., sez. II, 14 febbraio 2017, n. 3898).

Concludeva, quindi, il giudice di rigettare la domanda, per la parte relativa alla estensione di mq. 47, e di accogliere quella riconvenzionale spiegata dal condominio, ordinandone la restituzione a carico dell'attrice e in favore del condominio trattandosi di bene condominiale.

Al fine del riconoscimento di bene comune, il giudice del tribunale napoletano ha ritenuto di configurare l'area come cavedio, applicando allo stesso le regole giuridiche alle quali è sottoposto il cortile, qualificato bene comune dall'art. 1117 c.c., senza che la presunzione di condominialità possa essere superata dal fatto che al cavedio si fosse avuto accesso solo dall'appartamento dell'attrice o dal fatto che costei abbia posto in essere manufatti collegati alla sua unità immobiliare (scaldabagno, impianto di illuminazione, ecc.), atteso che l'utilità particolare che un condomino fa di una parte comune non incide sulla destinazione tipica e normale del bene in favore dell'edificio condominiale (Cass. civ., sez. II, 1 agosto 2014, n. 17556).

Osservazioni

La decisione de qua si muove nel solco dell'ormai consolidato orientamento giurisprudenziale che ritiene il cavedio, in assenza di titolo contrario, assistito dalla presunzione di condominialità.

Il cavedio (dal latino cavum aedium, ossia spazio interno) è un cortile interno, che differisce dai cortili ordinari, a causa dello spazio molto ridotto, ed è circoscritto da muri perimetrali e la sua funzione è quella di dare luce ed aria a locali secondari, quali bagni e disimpegni.

Esso non è elencato tra i beni comuni di cui all'art. 1117 c.c., ma è da considerarsi bene comune, dunque condominiale, salvo titolo contrario. Tra i titoli possiamo annoverare, oltre agli atti pubblici e le sentenze, il regolamento condominiale contrattuale redatto dal proprietario originario allegato ai singoli atti di compravendita e accettato dai compratori. La Suprema Corte in più occasioni ha qualificato alla stregua di titolo contrario anche il regolamento condominiale assembleare purché sottoscritto e approvato da tutti, anche se in dottrina questo principio resta controverso.

L'art. 1117 c.c. prevede la c.d. presunzione di comunione sui beni legati da vincolo di accessorietà all'edificio condominiale. Si evidenzia in proposito che la giurisprudenza è ferma nel ritenere che l'articolo contenga un elenco meramente esemplificativo e che dunque le “parti necessarie all'uso comune” non siano solo quelle testualmente previste dalla norma (v., ex multis, Cass. civ., sez. II, 29 gennaio 2015,n. 1680). Il termine presunzione è spesso utilizzato dalla giurisprudenza in senso atecnico con riguardo all'art. 1117 c.c. poiché - come sottolineato costantemente dalla stessa Suprema Corte - «non stabilisce propriamente una “presunzione di condominialità” dei beni che vi sono menzionati, trattandosi di norma che direttamente li attribuisce ai titolari delle proprietà individuali, i quali senz'altro li acquistano insieme con le rispettive loro porzioni immobiliari, in ragione della connessione materiale o funzionale che lega gli uni alle altre, salvo che il titolo disponga diversamente» (Cass.civ., sez. II, 4 marzo 2008, n. 5891).

Recentemente la Cassazione con l'ordinanza del 28 febbraio 2018 n. 4687, decidendo favorevolmente circa la presunzione di condominialità di un'area esterna adiacente al fabbricato condominiale, ha esteso il suo sindacato a qualsiasi area scoperta compresa tra i corpi di fabbrica di un edificio, o più edifici, che serva a dare luce ed aria agli ambienti circostanti, nonché gli spazi liberi disposti esternamente alle facciate degli edifici come gli spazi verdi, le zone di rispetto, le intercapedini, i parcheggi, anche se non menzionate nell'art. 1117 c.c., concludendo che grava sul condomino ricorrente dimostrare la proprietà esclusiva sul bene oggetto di causa, attraverso un titolo contrario che superi la presunzione di condominialità del medesimo.

Così come statuito dal giudice del Tribunale di Napoli, il cavedio è ritenuto comune anche nel caso in cui si possa accedere ad esso soltanto dall'appartamento di uno dei condòmini o anche quando questi vi abbia installato servizi utili ad una migliore fruibilità del suo appartamento, in quanto la sua destinazione è quella di dare aria e luce alle unità immobiliari del condominio (Cass. civ., sez. II, 11 maggio 1978, n. 2309; Cass. civ., sez. II, 3 agosto 1984, n. 4625; sul cavedio parte comune, v. anche Cass. civ., sez. II, 7 aprile 2000, n. 4350, escludendo Cass. civ., sez. II, 22 febbraio 1980 n. 1291, la presunzione di condominialità per lo spazio intercluso risultante da costruzioni confinanti).

La legge di riforma del condominio (l. n. 220/2012), rispetto all'indicazione delle parti comuni e alla loro suddivisione, non ha apportato modifiche sostanziali all'impianto originario della norma risalente al 1942.

Il principio generale risiede nel fatto che il diritto di contitolarità sulle parti comuni esiste nel momento in cui tali parti siano necessarie per l'esistenza dell'edificio stesso in quanto permanentemente destinate all'uso od al godimento comune. Tale contitolarità necessaria viene meno quando la cosa comune, per le sue caratteristiche strutturali, serve in modo esclusivo all'uso ed al godimento solo di una parte dell'edificio: in tal caso la destinazione particolare del bene prevale sull'attribuzione legale alla stregua di un titolo contrario (in tal senso, v Cass. civ., sez. II, 2 agosto 2010, n. 17993).

Infatti, il Tribunale era stato chiamato anche a decidere sull'eventuale esistenza di un titolo di proprietà in via originaria sulla restante parte del cavedio, pari a mq. 47, di cui il condominio reclamava la restituzione ritenendola cosa comune, mentre l'attrice in prima battuta aveva rivendicato la proprietà in base al titolo di acquisto (tentativo naufragato di fronte all'evidenza del fatto che il suo dante causa le avesse venduto solo una ben definita metratura di 35 mq., nulla dicendo sulla restante parte), e in subordine eccepiva l'acquisto a titolo originario per intervenuta usucapione mediante un possesso pacifico e indisturbato della superficie di mq. 47.

Il Tribunale - come detto - ha rigettato entrambe le richieste di riconoscimento della titolarità esclusiva su detta parte, in quanto non portata da un titolo e non dimostrata l'usucapione attraverso la prova testimoniale circa un uso intenso e ininterrotto, richiamandosi, in quest'ultimo caso, al consolidato orientamento della Corte di legittimità (v., da ultimo, sempre Cass. civ., sez. II, 14 febbraio 2017, n. 3898).

Sul punto, autorevole dottrina ha osservato che il condomino non estende il suo dominio sulla cosa comune solo in ragione di un uso più intenso, essendo necessario il compimento di atti idonei a mutare il titolo del suo possesso. Così, il condomino che utilizzi in modo esclusivo il bene, con la tolleranza, pur inconsapevole degli altri condòmini che facciano affidamento sulla apparenza del suo diritto, potrà rivendicarne la proprietà per usucapione allorché tale suo utilizzo si sia protratto nel tempo.

Nel caso di specie, la curia napoletana non ha inteso riconoscere la titolarità per intervenuta usucapione sulla parte restante di mq, 47 in testa all'attrice, difettando il requisito della dimostrazione del possesso ed utilizzo del bene durante il tempo necessario al maturarsi del diritto.

Guida all'approfondimento

De Tilla, Il nuovo condominio, Milano, 2015;

Celeste, Destinazione comune del cavedio e utilizzo del singolo partecipante, in Immob. & proprietà, 2015, fasc. 2, 87;

Triola, Il nuovo condominio, Torino, 2013;

Celeste, L'uso esclusivo delle porzioni comuni del fabbricato tra (inconsapevoli) atti di tolleranza e (impreviste) pretese di usucapione, in Immob. & proprietà, 2016, fasc. 3, 145.

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