Sui limiti della confiscabilità in via “diretta” del denaro depositato su conto corrente per reati tributari

01 Aprile 2019

In tema di reati tributari, e in particolare in relazione ai reati consistenti nell'omesso versamento delle imposte, le giacenze rinvenute sul conto corrente nella disponibilità dell'imputato nel momento del sequestro possono essere oggetto di confisca “diretta” ovvero possono essere sottoposte ad un provvedimento di confisca “per equivalente” o “di valore”?
Massima

In tema di reati tributari, può essere oggetto di confisca c.d. diretta il saldo positivo del conto corrente nella disponibilità dell'imputato alla scadenza del termine per l'adempimento dell'obbligazione fiscale fino alla concorrenza dell'esborso che sarebbe stato necessario per il pagamento dell'imposta, in quanto queste somme costituiscono il profitto del reato di omesso versamento, rappresentando il “risparmio di spesa” conseguito grazie al mancato pagamento dell'imposta.

Il caso

Il Tribunale di Teramo condannava l'imputata per il reato di omesso versamento dell'Iva previsto dall'art. 10-ter D.Lgs. n. 74/2000, perché, nella qualità di amministratrice di una società, non corrispondeva l'importo di oltre € 200.000,00 dovuto in base alla dichiarazione presentata per il 2007. Con la medesima sentenza, il Tribunale disponeva la confisca di taluni beni immobili e delle somme di denaro sequestrate sui conti correnti e sui libretti di deposito nella disponibilità dell'imputata.

A seguito dell'impugnazione della decisione, la Corte di appello dichiarava non doversi procedere nei confronti dell'imputata per l'intervenuta prescrizione del reato a lei ascritto, revocando il provvedimento di confisca limitatamente ai beni immobili, di cui ordinava la restituzione alla proprietaria.

Avverso la sentenza di appello, l'imputata proponeva ricorso per cassazione, deducendo che le somme giacenti sui conti correnti e sui libretti di deposito nella sua titolarità sarebbero state illegittimamente ritenute suscettibili di confisca “diretta”, non essendo stati compiuti i necessari accertamenti sui saldi esistenti alla data di scadenza dell'obbligo di tributario. Detti importi, infatti, erano stati sequestrati nell'agosto 2012, mentre il versamento dell'Iva sarebbe dovuto intervenire il 27dicembre 2008, sicché era dimostrato che le somme rinvenute non provenivano dal reato.

L'imputata, inoltre, ha eccepito la violazione degli

artt. 597,

comma 3, e 603, comma 3, c.p.p., perché la Corte di appello, senza operare alcuna rinnovazione istruttoria, avrebbe indebitamente riqualificato la tipologia di confisca del profitto adottata, ritenendola “diretta”, sebbene essa fosse stata disposta originariamente dal Tribunale “per equivalente”.

La questione

In tema di reati tributari, e in particolare in relazione ai reati consistenti nell'omesso versamento delle imposte, le giacenze rinvenute sul conto corrente nella disponibilità dell'imputato nel momento del sequestro possono essere oggetto di confisca “diretta” ovvero possono essere sottoposte ad un provvedimento di confisca “per equivalente” o “di valore”?

Le soluzioni giuridiche

1. L'art. 1, comma 143, della legge 244 del 24 dicembre 2007, come è noto, ha esteso anche ai reati tributari l'istituto della confisca per equivalente di cui all'art. 322-ter c.p., che era stato originariamente introdotto dall'art. 31 della legge n.300 del 29 settembre 2000 per i soli delitti previsti nell'art. 322-ter cod. pen. La disciplina del 2007, successivamente, ha trovato collocazione nell'art. 12-bis del d.lgs. 74/2000, che è stato inserito in tale corpo normativo dall'art. 10 del d.lgs. 158/2015. Il primo comma di quest'ultima norma dispone che «nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delleparti a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale per uno dei delitti previsti dal presente decreto, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto».

La possibilità di adottare la confisca per equivalente incontra un limite nell'eventuale declaratoria di estinzione del reato per prescrizione.

Secondo l'orientamento accolto dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, infatti, il giudice, dichiarando l'estinzione del reato per intervenuta prescrizione, può applicare, a norma dell'art. 240, comma 2, n. 1, c.p., la confisca del prezzo del reato e, a norma dell'art. 322 ter cod. pen., la confisca del prezzo o del profitto del reato, sempre che si tratti di confisca diretta e vi sia stata una precedente pronuncia di condanna, rispetto alla quale il giudizio di merito permanga inalterato quanto alla sussistenza del reato, alla responsabilità dell'imputato e alla qualificazione del bene da confiscare come profitto o prezzo del reato (Cass. 26 giugno 2015, n. 31617, Lucci).

La confisca diretta del profitto ricavato dal reato, al pari di quella del prezzo dell'illecito, infatti, «non presenta connotazioni di tipo punitivo, dal momento che in tal caso il patrimonio dell'imputato non viene intaccato in misura eccedente il pretium sceleris, direttamente desunto dal fatto illecito e rispetto al quale l'interessato non avrebbe neppure titolo civilistico alla ripetizione, essendo frutto di un negozio contrario a norme imperative.

Essa, inoltre, deriva dal giudizio “pericolosità intrinseca” di quanto derivato dal delitto, non diverso da quello che può essere manifestato per le cose di cui l'art. 240, comma 2, c.p. prevede la confisca obbligatoria.

Il successivo intervento della prescrizione, pertanto, non impedisce la confisca “diretta”, essendo fondata, del resto, su una sostanziale “conferma” del precedente accertamento di responsabilità, sempre che la decisione di condanna abbia accertato che l'imputato ha conseguito un vantaggio patrimoniale dal reato e che questo costituisca il prezzo o il profitto dell'illecito penale.

Diversa è la disciplina della confisca per equivalente, che assolve una funzione sostanzialmente sanzionatoria.

Essa, infatti, mira a ripristinare la situazione economica, modificata in favore del reo dalla commissione del fatto illecito, mediante l'imposizione di un sacrificio patrimoniale di corrispondente valore a carico del responsabile. Detto provvedimento, inoltre, non presenta una funzione di prevenzione che costituisce la finalità principale delle misure di sicurezza, essendo parametrata al profitto oal prezzo dell'illecito solo da un punto di vista "quantitativo".

In ragione della funzione afflittiva, la confisca per equivalente può essere disposta solo all'esito di un giudizio di condanna, non potendo conseguire alla declaratoria della prescrizione.

2. Nel caso di reati tributari, il profitto è integrato da qualsiasi vantaggio patrimoniale conseguito per consumazione del reato. Esso, in particolare, può consistere anche in un “risparmio di spesa”, corrispondendo al mancato decremento del patrimonio del debitore che non adempie tempestivamente all'obbligazione tributaria (Cass., S.U.,31/01/2013, n. 18374, Adami).

Detto profitto è confiscabile sia in forma diretta, ai sensi della generale previsione di cui all'art. 240 c.p., sia per equivalente (cfr., tra le altre, Cass. 23 aprile 2013, n. 23108). I due istituti, peraltro, presentano presupposti diversi, perché, nel caso di confisca diretta, occorre dimostrare l'esistenza del nesso di pertinenzialità tra il bene e il reato, relazione diretta che, invece, non è necessaria per quella di valore.

3. La distinzione tra i due istituti assume una particolare rilevanza con riguardo alla confisca del denaro.

Sul punto, l'indirizzo recepito dalla giurisprudenza di legittimità afferma che, nel caso in cui il profitto o il prezzo del reato sia rappresentato da una somma di denaro, questa si confonde con le altre disponibilità economiche dell'autore del fatto, perdendo qualsiasi autonomia quanto alla sua identificabilità fisica.

Non avrebbe alcun significato, infatti, né sul piano economico, né su quello giuridico, accertare se la massa monetaria percepita quale profitto o prezzo dell'illecito sia stata spesa, occultata o investita, perché ciò che conta è che le disponibilità monetarie del percipiente si siano accresciute di quella somma.

La confisca del prezzo o del profitto del reato rappresentato da denaro, pertanto, è sempre “diretta”, ovunque e presso chiunque sia custodia nell'interesse del reo, non necessitando, tuttavia, per la sua natura e per l'attitudine a confondersi con le altre liquidità del reo, della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato (Cass. pen., Sez. unite, 26 giugno 2015, n. 31617, Lucci).

Anzi, secondo l'indirizzo consolidato della giurisprudenza, solo nelle ipotesi in cui è impossibile la confisca diretta del denaro, si può porre la necessità di procedere alla confisca degli altri beni di cui disponga l'imputato per un valore corrispondente a quello del prezzo o del profitto del reato.

4. La Corte, peraltro, ha rilevato che l'approdo giurisprudenziale illustrato necessiti di alcune precisazioni.

Nonostante la natura fungibile del denaro, infatti, deve ritenersi preclusa la confisca diretta delle somme depositate su conto corrente bancario del reo, qualora sia stata raggiunta la prova che le stesse non derivino dal reato, non costituendo, in tale caso, profitto dell'illecito. È il caso, ad esempio,di somme corrispondenti a rimesse effettuate da terzi dopo la scadenza deltermine per il versamento delle imposte dovute.

Nell'ipotesi di reati tributari, pertanto, integra il profitto del reato il solo saldo attivo esistente sul conto corrente al momento della scadenza del termine previsto per adempiere l'obbligazione fiscale. Tale importo, infatti, equivale al “risparmio di spesa” determinato dal mancato versamento e può ritenersi direttamente derivato dal reato. Detto saldo può essere oggetto di confisca diretta, anche nel caso in cui, dopo una sentenza di condanna, sia stata dichiarata l'intervenuta prescrizione del reato.

Le somme che fossero state versate successivamente sul conto, invece, non possono essere ritenute il profitto del reato. Rispetto ad esse, difatti, manca qualsivoglia collegamento con l'illecito che possa giustificare la confisca “diretta” o, meglio, può ritenersi raggiunta la prova che non derivino dal reato, proprio perché è dimostrato che sono state versate sul conto in un momento successivo al perfezionamento dell'illecito.

Esse, peraltro, possono essere oggetto di confisca per equivalente, nei limiti in cui sussistono i presupposti per l'applicazione di detto istituto, al quale, come si è visto, si può ricorrere solo a seguito della sentenza di condanna, non essendo sufficiente una pronuncia che dichiari la prescrizione del delitto.

5. Così ricostruita la disciplina applicabile alla confisca del denaro presente sul conto corrente dell'imputato, diviene essenziale l'accertamento del saldo esistente alla data di consumazione del reato, perché permette di qualificare il provvedimento con il quale è disposta l'apprensione in termini di confisca “diretta” o “per equivalente”.

Nel caso di specie, secondo la Corte, è mancato qualsiasi accertamento all'entità dei saldi presenti sui conti correnti e sui libretti di deposito oggetto di sequestro alla data di scadenza dell'obbligazione tributaria e, dunque, alla data di consumazione del reato di omesso versamento dell'Iva dovuta.

Per accertare se il denaro costituisca profitto del reato tributario, cioè “risparmio di spesa” determinato dall'omesso versamento al fisco aggredibile con la confisca in via diretta, è necessario avere riguardo alle disponibilità giacenti sui conti del contribuente al momento della scadenza del termine previsto per il pagamento del debito tributario.

Non occorre riferirsi all'identità fisica delle somme, ma al loro valore numerario, che può essere oggetto di sequestro e, poi, di confisca in via diretta, solo se di segno positivo al momento della scadenza del termine per il versamento dell'imposta.

Al contrario, il profitto non può essere mai considerato "diretto" per la parte eccedente il saldo alla data della scadenza del termine di pagamento che potrebbe essere stata rinvenuta in occasione del sequestro. Tale parte, al più, potrebbe essere oggetto di un provvedimento di confisca “di valore” che, tuttavia, presentando natura sanzionatoria, presuppone l'intervento di una pronuncia di condanna.

La Corte, pertanto, ha annullato la sentenza impugnata limitatamente alla confisca, rinviando alla Corte di appello per un nuovo giudizio.

Osservazioni

1. La sentenza in esame si segnala per la ricostruzione della disciplina della confisca del profitto del reato tributario, di cui sono illustrate le coordinate interpretative offerte negli anni dalla giurisprudenza di legittimità. Essa, in particolare, si sofferma sulla confisca del profitto del reato nel caso in cui il provvedimento riguardi somme di denaro, illustrando l'evoluzione giurisprudenziale intervenuta e che è stata segnata in modo particolare dalla sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni unite, 26 giugno 2015, n. 31617, Lucci.

In questa decisione, la Corte ha affermato che, qualora il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come “diretta”.

In tal modo, la giurisprudenza ha preso atto della natura di bene fungibile del denaro, riconoscendo come, ai fini della confisca diretta del profitto e per individuare il necessario nesso di pertinenzialità con l'illecito, non si possa pretendere l'identità fisica delle somme rinvenute sul conto corrente, nel senso che, per la legittimità dell'ablazione, si debba trattare proprio del denaro derivante dal reato. Il denaro che perviene su un conto corrente, infatti, si confonde immediatamente con le altre disponibilità economiche dell'autore del reato, perdendo ogni autonomia e divenendo un'appartenenza del reo. Ciò non impedisce la confisca “diretta” perché, a tale fine, conta solo che il patrimonio del reo sia stato accresciuto di un importo pari al profitto.

Da questa conclusione è stata tratta un'importante conseguenza: in considerazione della natura del bene oggetto del provvedimento, per adottare la confisca diretta del denaro, non è necessaria la prova del nesso di derivazione tra la somma materialmente oggetto del provvedimento ablatorio e il reato.

2. La sentenza in esame, peraltro, presenta il suo profilo più significativo nella determinazione dei limiti entro cui si può procedere alla confisca “diretta” del denaro.

La Corte, infatti, ha ribadito l'indirizzo giurisprudenziale secondo cui la natura fungibile del denaro non giustifica la confisca diretta delle somme depositate su conto corrente bancario del reo, nel caso in cui sussista la prova che le stesse non possono in alcun modo derivare dal reato e costituiscano, pertanto, profitto dell'illecito (Cass. 12 luglio 2018, n. 41104; Cass. 29 gennaio 2019, n. 6816).

In questa ipotesi, infatti, è dimostrata l'insussistenza del nesso di pertinenzialità tra il denaro e il reato e, dunque, non vi è spazio per l'applicazione della confisca – misura di sicurezza patrimoniale prevista dal codice penale.

A tee proposito è determinante la valutazione del momento in cui il denaro è confluito sul conto, che va confrontata con l'epoca di consumazione dell'illecito penale che ha prodotto il profitto.

3. Nel caso in cui il profitto del reato sia integrato da una somma di denaro, dunque, la confisca diretta può legittimamente avere ad oggetto un importo di pari entità comunque presente nei conti bancari o nei depositi nella disponibilità dell'autore del reato, purché si tratti di denaro già confluito nel conto corrente o nel deposito bancario al momento della commissione del reato (a meno che, ovviamente, per il denaro che fosse pervenuto dopo il perfezionamento del reato non sia stata acquisita la prova della derivazione dall'illecito).

Solo in tale ipotesi è possibile ragionevolmente sostenere che il denaro è confiscabile in via diretta come profitto “accrescitivo” delle disponibilità dell'imputato, indipendentemente da ogni verifica in ordine al rapporto di concreta pertinenzialità con il reato.

La relazione di pertinenzialità rispetto al reato, invero, è ritenuta fittiziamente sussistente proprio per effetto della confusione del profitto concretamente conseguito con tutte le altre disponibilità economiche del reo.

Diversamente argomentando, cioè ammettendo che il vincolo reale possa estendersi anche a importi di denaro accreditati sui conti o nei depositi dell'autore del reato sulla base di crediti lecitamente maturati in epoca successiva al momento della commissione del reato, si finirebbe per trasformare una confisca “diretta” in una “per equivalente” (Cass., Sez. VI, 29 gennaio 2019, n. 6816).

D'altro canto, «se la finalità della confisca diretta è quella di evitare che chi ha commesso un reato possa beneficiare del profitto che ne è conseguito, bisogna ammettere che tale funzione è assente laddove l'ablazione colpisca somme di denaro entrate nel patrimonio del reo certamente in base ad un titolo lecito ovvero in relazione ad un credito sorto dopo la commissione del reato, e non risulti in alcun modo provato che tali somme siano collegabili, anche indirettamente, all'illecito commesso» (Cass., Sez. VI, 29 gennaio 2019, n. 6816).

4. Le somme che fossero state versate sul conto corrente dopo il perfezionamento del reato e che fossero state rinvenute al momento del sequestro – il quale, evidentemente, è sempre successivo alla consumazione del reato – non possono essere oggetto di confisca diretta, perché non rappresentano il diretto profitto del reato che abbia accresciuto le disponibilità dell'imputato.

Esse, peraltro, possono essere oggetto di un provvedimento di confisca per equivalente.

Sul punto, la sentenza in esame pone in luce la diversa natura della confisca diretta rispetto a quella per equivalente, sottolineando come dalla stessa derivi una diversa disciplina.

In modo specifico, dalla natura sanzionatoria della confisca per equivalente discende che essa possa essere disposta solo con la sentenza di condanna, non essendo sufficiente una pronuncia che dichiari l'intervenuta prescrizione, dopo una precedente decisione di condanna.

Di recente è stato pure evidenziato che la natura sanzionatoria della confisca per equivalente implica che il provvedimento non possa essere disposto per un valore superiore all'entità del profitto del reato, risolvendosi, in caso contrario, nell'applicazione di una pena illegale, il cui importo deve essere ridotto dal giudice anche d'ufficio (Cass., Sez. III, 28/03/2018, n. 46049).

5. Il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente (e la successiva confisca), secondo la giurisprudenza, non basandosi sul nesso di pertinenzialità della "res" rispetto al reato, è legittimo soltanto se i proventi dell'illecito non sono rinvenuti nella sfera giuridico - patrimoniale dell'indagato - imputato o, nel caso di reati tributari commessi dal legale rappresentante di una persona giuridica, non sono rinvenuti nella sfera patrimoniale dell'ente nel cui interesse il reato tributario è stato commesso, dovendo farsi ricorso a questo istituto solo quando non sia possibile procedere al sequestro diretto del profitto, del prodotto o del prezzo del reato (Cass., Sez. III, 28 marzo 2018, n. 46709; Cass., Sez. IV, 24 gennaio 2018, n. 10418).

La confisca per equivalente, inoltre, deve essere obbligatoriamente disposta con la sentenza di condanna o di patteggiamento, anche in mancanza di sequestro, senza che ciò comporti alcuna violazione del diritto di difesa, potendo il destinatario ricorrere al giudice dell'esecuzione qualora si ritenga pregiudicato dai criteri adottati dal pubblico ministero nella selezione dei cespiti da confiscare (Cass., Sez. III, 20/07/2017, n. 55482).

6. Per completezza, appare opportuno segnalare che, ai sensi dell'art. 12-bis, comma 2, D.Lgs. n. 74/2000, «la confisca - diretta o per equivalente, dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo di uno dei reati tributari previsti dal decreto medesimo - non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all'Erario anche in presenza di sequestro».

Questa previsione si riferisce ai soli casi di obbligo di versamento assunto in maniera formale dal contribuente, tra i quali rientra l'ipotesi di accordo, raggiunto con l'Agenzia delle Entrate, per il pagamento rateale del debito di imposta (Cass., Sez. III, 14 gennaio 2016, n. 5728; Cass., Sez. III, 9 febbraio 2016, n. 28225).

Al fine di attribuire un significato logicamente plausibile alla norma in esame, deve ritenersi che la locuzione “non opera” non significhi affatto che la confisca, a fronte dell'accordo rateale intervenuto, non possa essere adottata, quanto piuttosto, e più semplicemente, che la stessa non divenga efficace con riguardo alla parte "coperta" da tale impegno.

La confisca "non operativa", dunque, sarebbe un provvedimento ablatorio applicato, ma non eseguibile perché non produttiva di effetti, la cui produzione è condizionata al verificarsi di un evento futuro ed incerto, costituito dal mancato pagamento del debito (Cass., Sez. III, 11 ottobre 2018, n. 6246).

Fonte: ilpenalista.it

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