Cessione di calciatori professionisti: è deducibile se l'atto è a titolo oneroso

11 Aprile 2019

In tema di imponibilità ai fini IRES ed IRAP, la cessione del contratto di un calciatore professionista, da una società sportiva all'altra, ex art. 5 della Legge n. 91/1981, avendo ad oggetto un bene immateriale strumentale all'esercizio dell'impresa...
Massima

In tema di imponibilità ai fini IRES ed IRAP, la cessione del contratto di un calciatore professionista, da una società sportiva all'altra, ex art. 5 della Legge n. 91/1981, avendo ad oggetto un bene immateriale strumentale all'esercizio dell'impresa, è idonea a generare minusvalenze deducibili ai sensi dell'art. 101, comma 1, del d.P.R. n. 917/1986 (nel testo applicabile ratione temporis) se avviene a titolo oneroso; in assenza di corrispettivo, detto trasferimento diviene, invece, fiscalmente irrilevante, vertendosi in ipotesi di atto (non liberale bensì) a titolo gratuito, a nulla rilevando che la cessionaria debba corrispondere al calciatore ceduto il compenso dovutogli, posto che la causa concreta risiede nell'interesse della società cedente a privarsi del suo diritto esclusivo a godere delle prestazioni sportive senza ricevere alcunché in cambio.

Il caso

L'Agenzia delle Entrate contestava alla società calcistica AC Milan l'indeducibilità di minusvalenze ed ammortamenti derivanti dalla c.d. cessione di calciatori, assumendo che, trattandosi di trasferimenti avvenuti in assenza di corrispettivo, non fosse applicabile l'art. 101, comma 1, T.U.I.R. in base al quale le minusvalenze di beni relativi all'impresa sono deducibili solo ove realizzate mediante cessione a titolo oneroso.

La società contribuente ricorreva avverso gli avvisi di accertamento sostenendo che il trasferimento delle prestazioni sportive di un calciatore da un club ad un altro è riconducibile ad una cessione di contratto tra datori di lavoro, con conseguente trasferimento del diritto di esigere la prestazione sportiva dietro pagamento dell'ingaggio annuale, sicché detta cessione, seppur effettuata “a costo zero”, non sarebbe stata a titolo gratuito.

In primo grado, l'adita Comm. trib. prov. accoglieva in parte le richieste della ricorrente, annullando la pretesa fiscale relativa al mancato riconoscimento della deducibilità delle minusvalenze da cessione e confermando quella concernente il disconoscimento della maggior quota di ammortamento dedotta per l'acquisto in compartecipazione di due giocatori.

Insorgeva l'Agenzia delle Entrate, il cui atto di appello, tuttavia, veniva respinto dalla Comm. trib. reg., la quale accoglieva l'appello incidentale interposto dalla contribuente con riferimento al capo di sentenza attinente ai maggiori ammortamenti dedotti.

Di qui il ricorso per cassazione dell'Amministrazione finanziaria.

La Suprema Corte, sez. trib., con sentenza n. 345/2019 - decidendo nel merito ai sensi dell'art. 384 c.p.c. e cassando la sentenza impugnata - accoglieva definitivamente i ricorsi proposti in primo grado dalla società contribuente limitatamente al recupero a tassazione delle quote di ammortamento detratte in relazione alla cessione dei contratti di prestazione sportiva di due calciatori, respingendo per la restante parte.

Nella coeva sentenza n. 346/2019, la Sezione Tributaria, in medesima composizione, rigettava il ricorso della società contribuente avverso la sentenza della Comm. Trib. reg. che, in relazione alla medesima questione delle c.dd. cessioni di calciatori, aveva accolto l'appello erariale, confermando le operate rettifiche frutto di due tipologie di recuperi:

  • il primo, avente ad oggetto i diritti pluriennali alle prestazioni dei calciatori che, ad avviso dell'ente accertatore, erano avvenuti a titolo gratuito, con conseguente indeducibilità in applicazione dell'art. 66 del T.U.I.R. (nel testo anteriore alla riforma introdotta dal D.Lgs. n. 344/2003);
  • il secondo, avente ad oggetto due minusvalenze che l'ufficio procedente non aveva riconosciuto per mancata documentazione dei relativi contratti, rispettivamente, di acquisto e di valorizzazione.

La questione

Le sentenze “gemelle” in commento, al di là dei rispettivi esiti, trattano ambedue della problematica del trattamento fiscale – e, in particolare, l'imponibilità ai fini IRAP delle correlate plusvalenze – delle cessioni dei contratti di calciatori professionisti con le quali viene trasferito il diritto pluriennale all'utilizzo esclusivo della prestazione sportiva ai sensi dell'art. 5 della Legge n. 91/1981.

Ai fini delle rassegnate soluzioni, due le due questioni di diritto affrontate – e risolte in termini identici – dai due dicta.

Anzitutto la Suprema corte si pone il quesito se il diritto di una società sportiva a godere della prestazione professionale di un calciatore rientri fra i beni relativi all'impresa ai sensi dell'art. 101, comma 1, oppure 66, comma 1, del T.U.I.R.

In secondo luogo, data risposta affermativa, si chiede la relativa cessione da un club all'altro, qualora avvenga in assenza di corrispettivo, sia qualificabile come atto a titolo gratuito o, in ragione dell'assunzione, ad opera della parte cessionaria, dell'obbligo di pagare il compenso del ceduto, sia da intendere a titolo oneroso (e, quindi, deducibile fiscalmente).

Le soluzioni giuridiche

Le disposizioni in tema di IRAP prevedono che la base imponibile sia determinata anche dalle plusvalenze derivanti dalla cessione di immobilizzazioni strumentali sia materiali che immateriali, vale a dire di beni correlati all'attività di impresa, da intendere ai sensi dell'art. 2424-bis c.c., quali elementi patrimoniali destinati ad essere utilizzati durevolmente.

Le società di calcio, pur iscrivendo di solito i costi collegati alle operazioni in questione fra le immobilizzazioni immateriali in quanto diritti pluriennali alle prestazioni sportive dei calciatori, hanno negato si trattasse di cessioni del contratto di prestazione sportiva assumendo che si sarebbe verificata non una cessione contrattuale ai sensi dell'art. 1406 c.c. bensì un triplice rapporto negoziale, composto dalla risoluzione anticipata dell'originario contratto fra il calciatore e la società presso cui giocava con successiva stipula fra il medesimo professionista e la nuova società di un nuovo contratto. La somma eventualmente versata da una società all'altra sarebbe stata quindi - secondo la tesi propugnata da parte contribuente - non il corrispettivo di una cessione insussistente, ma del diritto a contrarre con il calciatore in seguito alla risoluzione anticipata del rapporto con la società cedente.

Di contro, la tesi dell'Amministrazione finanziaria – cristallizzata nella Risoluzione n. 213 del 19 dicembre 2001 – è sempre stata che l'operazione in questione rappresentasse un'unitaria cessione contrattuale, conformemente a quanto ritenuto dal Consiglio di stato (parere n. 5285/2012) ove ha chiarito che, nella specie, si realizza una cessione di contratto, per l'esattezza la cessione del diritto all'utilizzo esclusivo della prestazione dell'atleta professionista verso corrispettivo, diritto da qualificare come «bene immateriale strumentale all'esercizio dell'impresa, sia sul piano tributario, poiché ammortizzabile, sia su quello civilistico, in quanto necessario per il conseguimento dell'oggetto sociale».

Tale soluzione è stata fatta propria, implicitamente, anche da un recente arresto di legittimità (Cass. civ., sez. VI-T, n. 24588/2016: fattispecie in cui la S.C., nel confermare il rilievo operato ai fini IRAP nei confronti di un'altra società calcistica, ha affermato che il cessionario acquisisce solo il diritto a concludere un nuovo contratto con il giocatore, e ciò non costituisce “alcuna autonoma funzione produttiva”, atteso che occorre il consenso/accordo con il giocatore).

Entrambe le decisioni in rassegna danno continuità a tale orientamento, assumendo – condivisibilmente, stante la chiara lettera dell'art. 5 della Legge n. 91/1981 – che «la tesi che scompone in tre parti quella che appare essere una vicenda negoziale unitaria non riesce ad non riesce ad individuare l'interesse concreto che dovrebbe giustificare le stipulazioni in esame, che resterebbero senza causa se prese singolarmente.

Ravvisata, civilisticamente, la ricorrenza di una cessione del contratto (che è essa stessa un contratto autonomo, che prescinde dalla natura onerosa o gratuita di quello ceduto: arg. Cass. civ., sez. III, n. 5244/2004), la Sez. Tributaria focalizza l'oggetto della cessione: in particolare spiega che ad essere trasferito, nel rapporto tra cedente e cessionario, è il diritto a beneficiare della prestazione professionale del calciatore, cioè un'«utilità giuridica assolutamente suscettibile di valutazione economica e di circolazione, con riferimento alla quale non sussistono ragioni per escluderla dal novero delle immobilizzazioni immateriali e, quindi, dei beni correlati all'attività d'impresa ex art. 2424-bis c.c., in particolare dei beni immateriali». Ed il fatto che la società cessionaria subentri nell'intera posizione del cedente per gli “ermellini” di Piazza Cavour rappresenta un ulteriore argomento in favore della ricorrenza di un trasferimento fiscalmente rilevante a condizione che avvenga a titolo oneroso, poiché solo in questo caso le plusvalenze concorrono a formare il reddito imponibile.

A questo punto il problema si sposta, dunque, sulla seconda questione, venendo in rilievo nella specie cessioni di contratti di calciatori in assenza di corrispettivo ma con coeva assunzione, ad opera della società cessionaria, dell'obbligo di pagare il compenso dell'atleta ceduto.

Secondo la Corte regolatrice, un atto posto in essere senza corrispettivo deve considerarsi «in linea di principio, a titolo gratuito», accogliendo così una «nozione di causa gratuita in termini di interesse al conferimento di beni o alla prestazione di servizi senza una corrispondente prestazione principale a carico del beneficiario». Ma – rimarca il Supremo collegio – il fatto che da una cessione possa derivare un costo per il club cessionario non determina l'onerosità dell'atto, rilevando (civilisticamente e, quindi, fiscalmente) non già l'effetto economico conseguenza (indiretta) del trasferimento, bensì la sua causa in concreto, vale a dire «l'interesse del cedente a privarsi del suo diritto esclusivo a godere delle prestazioni sportive del calciatore senza ricevere nulla in cambio».

La conclusione, quindi, è che l'operazione in contestazione debba considerarsi unitaria e gratuita ed in forza del chiaro disposto normativo di cui all'art. 101, comma 1, ovvero art. 66, comma 1, del T.U.I.R., indeducibile in quanto avvenuta senza corrispettivo.

Osservazioni

Le pronunce in commento meritano di essere segnalate perché affrontano funditus – per la prima volta, a quel che consta, nel panorama della giurisprudenza di legittimità – la problematica della rilevanza fiscale del diritto all'utilizzo esclusivo del calciatore professionista ceduto, da un club all'altro, senza corrispettivo.

L'inquadramento dell'operazione in termini di cessione di contratto agli effetti dell'art. 1406 c.c. è inedito, poiché nel menzionato precedente di legittimità n. 24588/2015 la Cassazione aveva affrontato solo indirettamente la questione dell'imponibilità, ai fini IRAP, delle plusvalenze e minusvalenze generate da cessioni di calciatori, essendosi occupata dell'esimente dell'obiettiva incertezza normativa ai fini dell'esimente ex art. 6, comma 2, D.Lgs. n. 472/1997 (nella specie ravvisata almeno fino al parere del Consiglio di Stato del dicembre 2013) in tema di responsabilità amministrativa tributaria.

Ineccepibile è, poi, il riconoscimento, quale “bene immateriale strumentale all'esercizio dell'attività di impresa”, del diritto trasferito all'utilizzo della prestazione sportiva, essendo nella natura delle società calcistiche mettere sotto contratto gli atleti.

Infine particolarmente interessanti – sotto il profilo squisitamente civilistico (ma ridondante ai fini fiscali) – sono i passaggi motivazionali relativi alla distinzione tra gratuità e liberalità degli atti. Come cadenza autorevolmente la Corte, nulla esclude che un atto, ancorché gratuito, arrechi un beneficio, in termini di esclusione di un costo (nella specie: il compenso del giocatore), od eviti un danno a chi lo compie, mentre è atto donativo (sia tipico che atipico) solo quello che presuppone una causa donandi o, comunque, negli atti direttamente traslativi, una notevole di differenza di valore fra le controprestazioni.

In questo senso il Supremo collegio fa propria la diffusa opinione che rientrano nell'ambito dell'arricchimento donativo le sole prestazioni di dare e quelle di facere che si sostanzino in un dare: al di fuori di tale ambito, si avrebbe contratto a titolo gratuito, integrante gli estremi di un effetto-vantaggio gratuito e non quelli di un effetto-arricchimento liberale, sicché, «l'esclusione delle prestazioni di fare porta ad espungere dallo schema donativo il risparmio di spesa, così come il mancato guadagno».

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