Infortunio sul lavoro e risarcimento del danno non patrimoniale: tabelle milanesi e valutazione globale del pregiudizio
24 Maggio 2019
Massima
Il danno biologico, quello morale e quello dinamico-relazionale integrano componenti autonome dell'unitario danno non patrimoniale. Esse, pur da apprezzarsi nella loro differenza ontologica, devono dar sempre luogo ad una valutazione globale. Pertanto, ove si impugni la sentenza per la mancata liquidazione del c.d. danno morale, non ci si può limitare ad insistere sulla separata liquidazione di tale voce di pregiudizio, ma è necessario articolare chiaramente la doglianza come erronea esclusione, dal totale liquidato, delle componenti di danno diverse da quelle originariamente descritte come danno biologico, nella specie in applicazione delle c.d. tabelle milanesi. In difetto di ciò, la relativa censura deve ritenersi inammissibile, atteso il carattere tendenzialmente onnicomprensivo delle previsioni delle suddette tabelle. Il caso
A seguito di infortunio sul lavoro dal quale era derivata la perdita anatomica di due falangi distali del II dito, della falange ungueale del III dito e la perdita dell'intero anulare della mano sinistra, S.A. si rivolge al Tribunale di Piacenza per la liquidazione del danno differenziale, eccedente cioè la liquidazione delle somme già erogate da parte dell'INAIL. Il giudice emiliano, pur accogliendo la domanda, condanna la società datrice a corrispondere all'infortunato la sola somma residua di euro 9.597,27, detratto l'ulteriore importo determinato complessivamente in euro 85.450,32, in precedenza corrisposto dall'assicuratore sociale. Il lavoratore impugna la decisione piacentina, lamentando nel complesso l'insufficienza della liquidazione operata, sia in riferimento al danno non patrimoniale, che a quello patrimoniale. La Corte felsinea respinge il gravame, convalidando in toto la decisione del primo giudice. Osservano difatti i giudici di appello come il Tribunale abbia fatto in concreto corretta applicazione dei criteri di liquidazione con riferimento all'età dell'infortunato e alla personalizzazione del danno in relazione all'entità della menomazione subita, non potendo ritenersi - in particolare - che, come invece preteso dall'infortunato, il danno morale costituisca una voce ontologicamente distinta e, in quanto tale, da liquidarsi in via autonoma. Le c.d. Tabelle del Tribunale di Milano, devono invero ritenersi complessivamente riferite anche alla liquidazione del danno non patrimoniale in termini di danno morale, come peraltro comprovato anche dal procedimento di liquidazione seguito nella specie. Il lavoratore soccombente non si dà per vinto e propone dunque ricorso avanti al giudice di legittimità affidandolo a due motivi. In base alla prima censura, la decisione gravata avrebbe violato ed erroneamente applicato norme di diritto processuale e sostanziale, omettendo l'esame di fatti decisivi enunciati specificamente e oggetto di contraddittorio tra le parti. Più in particolare, ferma l'applicabilità dei parametri “milanesi” - a dire del ricorrente - il giudice, in presenza di specifiche circostanze di fatto che valessero a superare le conseguenze ordinarie già previste e compensate dalla liquidazione forfettaria tabellare, avrebbe dovuto procedere alla personalizzazione del danno entro le percentuali massime di aumento previste nelle stesse tabelle. E nell'attendere a tale operazione, lo stesso giudice sarebbe stato soltanto tenuto a dare conto nella motivazione della sussistenza di peculiari ragioni di apprezzamento meritevoli di tradursi in una differente (più ricca, e dunque, individualizzata) considerazione in termini monetari. Il secondo motivo di doglianza attiene invece alla liquidazione del danno da inabilità lavorativa, ritenuta incongruente rispetto agli esiti dell'indagine peritale espletata in giudizio che dava invece conto di una sostanziale impossibilità o estrema difficoltà nel reperimento di un nuovo impiego lavorativo per l'infortunato. La questione
L'interrogativo alla base del ricorso del lavoratore piacentino è spesso approdato, in termini più o meno sovrapponibili a quelli qui esaminati, al vaglio del giudice nomofilattico con esiti spesso discordanti. Impregiudicata l'applicazione del criterio tabellare “milanese” e salvo il suo carattere tendenzialmente onnicomprensivo, è possibile una liquidazione autonoma, individualizzata, del cosiddetto danno morale soggettivo, vale a dire della sofferenza interiore, dell'afflizione provata dal leso? In presenza di quali presupposti può dirsi effettivamente soddisfatto il principio dell'integralità e della personalizzazione del risarcimento e, al tempo stesso, scongiurato il rischio di una duplicazione risarcitoria? E, sotto un altro profilo, come può essere scrutinata a posteriori l'esattezza del procedimento di liquidazione del danno con riguardo a voci di danno non patrimoniale che sfuggono ad una rigorosa verifica clinica? Le soluzioni giuridiche
La soluzione adottata dai giudici di piazza Cavour si pone in perfetta continuità con i più rigorosi indirizzi interpretativi già tracciati, tra le altre, anche con una decisione pressoché identica dell'anno prima della (Cass. civ., sez. III, n. 25817/2017). La pronuncia bolognese viene così confermata nella sua validità e viene integralmente respinto il ricorso del lavoratore infortunato. La Suprema Corte, con una motivazione sintetica, quanto pregnante, ribadisce invero i punti fermi del sistema unitario del danno non patrimoniale, come venutosi a consolidare con le celebri sentenze gemelle del novembre 2008 e con la parallela vicenda delle ormai universalizzate “tabelle milanesi”, poste a loro volta a garanzia di uniformità e prevedibilità delle decisioni. Il danno biologico, incidente sul bene salute, il danno morale, derivante dalla sofferenza interiore del leso e il danno dinamico relazionale, spesso etichettato come “esistenziale”, consistente a sua volta nel peggioramento delle condizioni di vita quotidiane dell'individuo, sono altrettante dimensioni descrittive di un danno che deve, ciò nondimeno, ritenersi irriducibilmente unitario. Le anzidette tre voci di pregiudizio, pur caratterizzate da una reciproca differenza ontologica, devono dar dunque sempre luogo ad una valutazione e quindi ad una liquidazione globale, unica. Questa soluzione ermeneutica, come dianzi accennato, non è a tutt'oggi universalmente seguita dalla giurisprudenza di legittimità. Persiste infatti, in parallelo, anche un contrapposto indirizzo della Cassazione (tra queste si vedano, in particolare, Cass. civ., n. 901/2018 e Cass. civ., n. 7513/2018, c.d. “decalogo”) che pur predicando in apparenza i medesimi principi, ammette bensì la separata valutazione e liquidazione del danno “da sofferenza interiore” (sul tema cfr., amplius, D. SPERA, Time out: il ‘decalogo della Cassazione sul danno non patrimoniale e i recenti arresti della Medicina Legale minano le sentenze di San Martino, Focus, 4 settembre 2018, in Ridare.it). In ben diverso avviso, va invece la sentenza qui in esame. Non è dunque ammissibile, come preteso dal ricorrente, insistere sulla separata liquidazione “additiva” di una singola voce di danno, nella specie quello morale, invocando una più ricca e individualizzata personalizzazione e, si intende, liquidazione risarcitoria. Ne discende, inoltre, che la quantificazione del danno, pur adeguatamente personalizzato ove ne ricorrano i presupposti, non può che avvenire in modo unitario e onnicomprensivo. Come unitaria e onnicomprensiva è, del resto, la valorizzazione tabellare del danno, comprensiva appunto della componente biologica standard e dello stesso danno morale, accorpati in un capitolo congiunto, benché concettualmente distinti. Cartina di tornasole della correttezza del procedimento di liquidazione è naturalmente l'iter argomentativo sotteso alla singola decisione. Dovrà dunque risultare, in presenza di peculiari condizioni del caso concreto e di una loro adeguata allegazione e dimostrazione (evidentemente mancata o del tutto insufficiente nel caso in esame), che il giudice abbia accuratamente apprezzato anche le eventuali componenti del complessivo danno eccedenti nella specie la stretta nozione di “danno biologico” o “morale” standardizzato, come risultanti dall'evidenza ed esperienza clinica. E che in funzione dell'effettiva sussistenza ed entità di queste e all'esito di un'approfondita istruttoria abbia quindi proceduto a quella operazione di personalizzazione, mirante ad integrare nella liquidazione - onnicomprensiva - anche le conseguenze non comuni di pregiudizio, proprie e peculiari di quella specifica vicenda portata alla sua attenzione. Siffatta verifica, si intende, può essere fatta anche nell'opposta direzione, in questo caso per contrastare il rischio dell'eccesso risarcitorio. Sicché, in questa diversa ottica, quante volte si “personalizzino” profili di danno già ordinariamente ricompresi nell'ampia nozione di danno tabellare e quindi sforniti di qualsivoglia carattere di peculiarità e specificità, potrà dirsi consumata - appunto - una duplicazione del risarcimento. Osservazioni
Il dictum in commento si pone nell'ampio solco interpretativo inteso a “chiudere” il sistema risarcitorio, mettendolo al riparo dal pericolo di automatismi e riflessi operativi e mentali ancora duri a morire ad oltre un decennio dalla rivoluzione inaugurata con gli arresti di San Martino. Come peraltro si è visto, gli esiti di tale svolta epocale trovano tuttora forti, quanto autorevoli, resistenze anche nella stessa giurisprudenza di legittimità. Questo filone “dissidente”, pur muovendosi nello stesso ambiente teorico e definitorio messo a punto dalle sentenze gemelle del 2008, sembra infatti voler promuovere un sostanziale ritorno al passato: a quel passato delle duplici, triplici, liquidazioni di cui forse è davvero meglio non sentire nostalgia. Il rischio è infatti quello di una strisciante reviviscenza di quel caos applicativo che la cristallina architettura dogmatica delle Sezioni Unite e l'affermazione generalizzata, paranormativa, del sistema tabellare nelle sue sempre più evolute accezioni sembravano aver lasciato definitivamente alle spalle. Potremmo così ritrovarci a dover fare ancora i conti con gli incerti di un processo di liquidazione discrezionale e ampiamente impredicibile. In quanto tale in aperta tensione con alcuni dei pilastri della civiltà giuridica, quali i principi di uguaglianza e ragionevolezza, o quelli di prevedibilità e omogeneità delle decisioni giudiziarie. Ma potremmo confrontarci anche, come anzidetto, con l'alea di una - spesso - ingiustificata dilatazione dei risarcimenti, con altrettanto indesiderabili effetti sistemici. La composita struttura concettuale, una e trina, del danno non patrimoniale, ove non correttamente intesa nei suoi presupposti dogmatici, può in effetti tuttora agevolare la tendenza ad allargare le maglie del processo di liquidazione moltiplicandone arbitrariamente gli input. E così ammettendo alla personalizzazione (o, peggio, alla separata e discrezionale liquidazione) danni variamente denominati, ma del tutto privi in concreto di quelle caratteristiche peculiari, individuali, che li differenzino effettivamente dalla condizione cristallizzata nella quantificazione tabellare standard. La chiave però non è nelle etichette definitorie, ciascuna delle quali immancabilmente rivendichi la propria parte nel processo di liquidazione, aumentandone così a dismisura le poste. Si tratta invece, ci ammonisce ancora il Supremo Collegio con la pronuncia in commento, di un processo che deve restare irriducibilmente unitario e che deve confluire, appunto, in un esito globale e onnicomprensivo. Un esito che, in ossequio al principio dell'integrale risarcimento del danno potrà essere all'occorrenza eccezionalmente differenziato, ovvero personalizzato ai fini risarcitori. Ma solo allorchè se ne riscontrino, a seguito di una specifica e rigorosa istruttoria, gli specifici presupposti individualizzanti, propri cioè di quella fattispecie concreta e di quella soltanto. |