Aliquote IRAP maggiorate su istituti finanziari

19 Giugno 2019

In base alla normativa nazionale, per l'anno di imposta 2002, l'aliquota Irap stabilita per gli istituti di credito in via transitoria era pari al 4,75%. A decorrere dal terzo anno successivo a quello di emanazione del decreto legislativo n. 446/97, si attribuiva poi alle Regioni la facoltà di variare l'aliquota fino ad un massimo di un punto percentuale, avendo la giurisprudenza costituzionale però già chiarito che tale facoltà di variazione era riferibile alla sola aliquota ordinaria, al 4,25% e non anche alle aliquote speciali, già maggiorate. La disciplina del tributo in esame rientrava peraltro...
Massima

In base alla normativa nazionale, per l'anno di imposta 2002, l'aliquota Irap stabilita per gli istituti di credito in via transitoria era pari al 4,75%. A decorrere dal terzo anno successivo a quello di emanazione del decreto legislativo n. 446/97, si attribuiva poi alle Regioni la facoltà di variare l'aliquota fino ad un massimo di un punto percentuale, avendo la giurisprudenza costituzionale però già chiarito che tale facoltà di variazione era riferibile alla sola aliquota ordinaria, al 4,25% e non anche alle aliquote speciali, già maggiorate. La disciplina del tributo in esame rientrava peraltro nella potestà legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell'art. 117, co. 2, lett. e), Cost., dovendo la potestà legislativa attribuita alle Regioni essere, esercitata nei limiti fissati dal legislatore statale. In conclusione, secondo la Consulta, doveva essere dichiarata, sul punto, l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 6, della legge della Regione Marche n. 35 del 2001, nonché dell'art. 5, comma 1, della legge della Regione Lazio n. 34 del 2001 e dell'art. 7, comma 1, della legge della Regione Siciliana n. 2 del 2002.

Il caso

La Corte Costituzionale, con la Sentenza 28 maggio 2019, n. 128, si è pronunciata nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 6, della legge della Regione Marche 19 dicembre 2001, n. 35, dell'art. 5, comma 1, della legge della Regione Lazio 13 dicembre 2001, n. 34, e Tabella A, e dell'art. 7, comma 1, della legge della Regione Siciliana 26 marzo 2002, n. 2, promossi dalla Commissione Tributaria Provinciale di Padova e dalla Commissione Tributaria Regionale del Lazio.

Tutte le disposizioni regionali censurate apportavano, per il periodo di imposta 2002, per le banche e gli altri enti e società finanziari, oltre che per le imprese assicurative, un incremento dell'aliquota dell'imposta sulle attività produttive (IRAP) - fissata dal comma 2 dell'art. 45 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446 nella misura del 4,75 % - elevandola al 5,75 % (per le Regioni Marche e Lazio) ed al 5,25 % (per la Regione Sicilia).

L'istituto di credito ricorrente davanti alla CTP di Padova aveva impugnato il silenzio-rifiuto, formatosi in ordine alla istanza di rimborso prodotta in relazione alla maggiore IRAP versata per l'anno 2002. La banca aveva infatti corrisposto l'importo complessivo di euro 34.809.171,00, in applicazione delle aliquote IRAP riferibili alle diverse Regioni ove operava, pari al 5,75 % dell'imponibile per le Regioni Marche, Lazio e Lombardia ed al 5,25 % per la Regione Siciliana, ma riteneva che l'imposta avrebbe dovuto essere calcolata facendo applicazione dell'aliquota del 4,75 %, a norma del comma 2 dell'art. 45 del Dlgs. n. 446 del 1997.

La ricorrente aveva, quindi, dedotto che le Regioni, con le censurate disposizioni, avevano ecceduto le proprie competenze legislative in materia di IRAP, in violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., in quanto avevano disposto un aumento dell'aliquota speciale (prevista cioè per le banche e gli altri enti e società finanziarie, nonché per le imprese assicurative, ossia i soggetti di cui agli artt. 6 e 7 del Dlgs. n. 446 del 1997), disciplinata dall'art. 45, comma 2, del Dlgs. 446 del 1997, nel testo allora vigente, e fissata, per il periodo di imposta 2002, nella misura del 4,75 %, mentre tale facoltà di incremento dell'aliquota IRAP era attribuita alle Regioni dall'art. 16, comma 3, del medesimo Dlgs. n. 446 del 1997 unicamente per l'aliquota ordinaria, prevista per la generalità dei soggetti passivi, disciplinata dal comma 1 del medesimo art. 16 e fissata nella misura del 4,25 %.

Tanto premesso, il collegio rimettente, quanto alla non manifesta infondatezza della questione sollevata, ricordava che, ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., è riservata alla competenza legislativa esclusiva statale la disciplina della materia tributaria dello Stato, e quindi anche dell'IRAP, e che, conseguentemente, l'intervento del legislatore regionale è ammesso solo nei termini stabiliti dalla norma statale.

E, nel caso in esame, la facoltà riconosciuta, dal comma 3 dell'art. 16 del Dlgs. n. 446 del 1997, al legislatore regionale di disporre l'incremento della aliquota IRAP, a far tempo dal terzo anno successivo a quello della entrata in vigore della normativa istitutiva della suddetta imposta, ossia dall'anno 2000, era limitata alla cosiddetta aliquota ordinaria, di cui all'art. 16, comma 1, del Dlgs. n. 446 del 1997, rimanendo esclusa, quindi, l'aliquota speciale di cui all'art. 45, comma 2, del medesimo Dlgs. n. 446 del 1997, che riguardava appunto alcune specifiche categorie di soggetti, tra i quali anche le banche.

Veniva poi ricordata la sentenza n. 177 del 2014 della stessa Consulta, che aveva già dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 5, della legge della Regione Lombardia 18 dicembre 2001, n. 27, che disponeva analogo aumento dell'aliquota speciale.

La Regione Marche interveniva nel giudizio, chiedendo che la questione fosse dichiarata infondata e sostenendo che la facoltà riconosciuta dal comma 3 dell'art. 16 del Dlgs. n. 446 del 1997 comprendeva anche le aliquote speciali, come poteva evincersi dalla genesi dell'IRAP - che nasceva in sostituzione di una serie di tributi diretti, tra l'altro, a finanziare il servizio sanitario, per consentire alle Regioni di acquisire risorse per finanziare i propri servizi (in particolare, appunto, in materia sanitaria e ospedaliera) - e dalla finalità della predetta previsione statale, diretta a riconoscere alle Regioni un margine di discrezionalità nella determinazione delle aliquote IRAP in relazione a tutte le varie categorie imprenditoriali.

Una diversa interpretazione, tesa a limitare la facoltà di maggiorazione alla sola aliquota ordinaria, avrebbe peraltro condotto al risultato paradossale - opposto a quello perseguito dal legislatore statale - di vedere applicata alle banche e alle imprese di assicurazione un'aliquota (pari al 4,75 % fissata dall'art. 45, comma 2, del Dlgs. n. 446 del 1997) inferiore a quella ordinaria (pari al 5,25 %, a seguito della maggiorazione di 1 punto percentuale consentita dall'art. 16, comma 3, del medesimo Dlgs. n. 446 del 1997).

Veniva poi richiamata la normativa statale successiva - artt. 1, commi 61, 174 e 175, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 -, la quale, nell'introdurre una deroga alla sospensione delle maggiorazioni dell'aliquota IRAP disposta con l'art. 3, comma 1, lettera a), della legge 27 dicembre 2002, n. 289, non operava alcun distinguo tra i diversi tipi di aliquote e si sottolineava, in particolare, che dal tenore di tale deroga sembrava ammettersi espressamente che le Regioni potessero aver deliberato maggiorazioni dell'aliquota IRAP in difformità rispetto a quanto previsto dalla normativa statale, prevedendosi comunque per esse una vera e propria sanatoria.

Anche la Regione Siciliana, interveniva nel giudizio, chiedendo che la questione venisse dichiarata inammissibile, o comunque infondata.

Quanto all'infondatezza della questione, si rammentava inoltre la competenza della Regione Siciliana in materia di tributi, fissata dall'art. 36 del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (approvazione dello statuto della Regione Siciliana) e dall'art. 6 del Dpr. n. 1074 del 1965.

In tale quadro normativo, il censurato art. 7, comma 1, della legge reg. Siciliana n. 2 del 2002 non esulava quindi dalla competenza riconosciuta alla Regione in materia tributaria, in quanto non modificava gli elementi essenziali del tributo (presupposto di imposta, soggetto passivo e base imponibile), come del resto confermato dalla circostanza che analoga facoltà era riconosciuta dal legislatore statale alla generalità delle Regioni con riferimento all'aliquota ordinaria.

La CTR del Lazio, per conto suo, premetteva di essere stata investita dell'appello proposto dall'Agenzia delle Entrate avverso la sentenza con la quale la CTP di Roma aveva accolto in parte il ricorso della società ricorrente avverso il silenzio rifiuto formatosi in ordine alla istanza di rimborso avente ad oggetto la maggiore IRAP versata per l'anno 2002, sulla base, tra l'altro, della motivazione della sentenza della Corte costituzionale n. 177 del 2014, dichiarandosi, al contempo, carente di giurisdizione in ordine alla connessa richiesta risarcitoria.

La CTR del Lazio, segnalato che l'appello era fondato sulla lettura che l'Agenzia delle Entrate adottava della facoltà riconosciuta alle Regioni, dall'art. 16 del Dlgs. n. 446 del 1997, di aumentare l'aliquota IRAP fino ad un massimo di un punto percentuale (facoltà ritenuta estesa alle aliquote da applicare alle banche), e ribadito, quindi, che, conseguentemente, dalla stessa veniva riconosciuto il diritto ad un rimborso (solo) nella misura 0,50 per cento di quanto corrisposto, sosteneva la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 5, comma 1, della legge reg. Lazio n. 34 del 2001 e correlativa statuizione della Tabella A ad essa allegata, che disponeva la maggiorazione di un punto percentuale dell'aliquota speciale prevista dall'art. 45 del medesimo decreto legislativo.

La Commissione rimettente, reputando non condivisibile la tesi sostenuta dall'appellante, riteneva che le disposizioni di legge statale sopravvenute all'anno di imposta 2002 dovevano ritenersi prive di efficacia retroattiva e, pertanto, inidonee a determinare il carico fiscale dovuto per un periodo d'imposta precedente a quello considerato.

La questione

La Commissione Tributaria Provinciale di Padova e la Commissione Tributaria Regionale del Lazio dubitavano quindi della legittimità costituzionale di alcune disposizioni regionali, che apportavano, per il periodo di imposta 2002, per gli istituti bancari, un incremento dell'aliquota IRAP rispetto a quella fissata, nella misura del 4,75 %, dal legislatore statale.

Entrambi i giudici rimettenti prospettavano la lesione della potestà legislativa statale esclusiva in materia di sistema tributario dello Stato, in quanto la facoltà di variazione delle aliquote sarebbe stata riconosciuta alle Regioni, dal comma 3 dell'art. 16 del Dlgs. n. 446 del 1997, limitatamente all'aliquota ordinaria dell'IRAP, ovverosia a quella disciplinata, per la generalità dei destinatari, dal comma 1 del medesimo art. 16, e non anche all'aliquota speciale, fissata dal citato comma 2 dell'art. 45 del medesimo decreto legislativo per i soggetti di cui ai precedenti artt. 6 e 7, cioè per le banche e altri enti e società finanziari, nonché per le imprese di assicurazione.

La stessa Consulta, in merito all'eccezione sollevata dalla Regione Sicilia, evidenzia poi che la stessa Regione ha il potere di integrare la disciplina dei tributi erariali, nei limiti segnati dai princìpi della legislazione statale relativi alla singola imposizione (cfr., sentenze n. 138 e n. 111 del 1999), in termini non dissimili da quanto previsto per le Regioni ordinarie dall'art. 117, co. 2, lettera e), Cost. (cfr., Corte Cost., sent. n. 152 del 2018) e correttamente, quindi, il giudice rimettente si era soffermato solo sul contrasto con la normativa statale di riferimento e sulla conseguente violazione del parametro costituzionale.

Secondo il disegno delineato dal legislatore statale, la Regione Siciliana aveva infatti facoltà di dare attuazione alle disposizioni del Titolo I del Dlgs. n. 446 del 1997, relativo alla istituzione ed alla disciplina dell'IRAP, rimanendo però comunque nel perimetro in esso delineato (ivi compresa, quindi, la disciplina degli artt. 16 e 45 del medesimo decreto), laddove l'art. 24 del Dlgs. n. 446 del 1997, nell'individuare i poteri delle Regioni, dispone che quelle a statuto ordinario possono disciplinare, con legge, nel rispetto dei princìpi in materia di imposte sul reddito, le procedure applicative dell'imposta, ferme restando le disposizioni degli artt. 19, da 21 a 23, e da 32 a 35, mentre le Regioni a statuto speciale e le Provincie autonome di Trento e Bolzano «provvedono, con legge, alla attuazione delle disposizioni del presente titolo in conformità delle disposizioni della legge 23 dicembre 1996, n. 662, articolo 3, commi 158 e 159».

E, a sua volta, l'art. 3, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, al comma 158, prevede una cosiddetta clausola di salvaguardia, in base alla quale la Regione Siciliana «provvede con propria legge alla attuazione dei decreti di cui ai commi da 143 a 149 [tra cui quello relativo alla istituzione dell'IRAP], con le limitazioni richieste dalla speciale autonomia finanziaria preordinata dall'articolo 36 dello Statuto regionale e dalle relative norme di attuazione».

La disposizione regionale censurata - emessa in attuazione dell'art. 24 del Dlgs. 446 del 1997, secondo quanto dettato dalla ricordata clausola di salvaguardia - dava quindi applicazione alla normativa statale ed era pertanto esclusivamente ad essa che occorreva fare riferimento per verificare se vi fosse stata invasione rispetto alle competenze legislative dello Stato.

Le soluzioni giuridiche

Tanto premesso, in ordine alla questione oggetto del giudizio, secondo la Consulta, le questioni sollevate da entrambi i giudici rimettenti erano fondate.

Evidenziano infatti i giudici costituzionali che, in base alla normativa nazionale (comma 1 e comma 2 dell'art. 16 del Dlgs. n. 446 del 1997), per l'anno di imposta 2002 - in relazione al quale veniva chiesto il rimborso - l'aliquota stabilita in via transitoria era pari al 4,75 %.

Il comma 3 del citato art. 16, poi, a decorrere dal terzo anno successivo a quello di emanazione del medesimo decreto legislativo, attribuiva alle Regioni la facoltà di variare «l'aliquota di cui al comma 1 fino ad un massimo di un punto percentuale», avendo la giurisprudenza costituzionale già chiarito che tale facoltà di variazione è riferibile alla sola aliquota ordinaria di cui al precedente comma 1 e non anche alle aliquote speciali di cui al successivo art. 45 (cfr., Corte Cost., sent. n. 357 del 2010).

Tanto premesso sul quadro normativo statale di riferimento, per affrontare le questioni in esame, secondo la Consulta, occorreva prendere le mosse dalla citata pronuncia della Corte Costituzionale n. 177 del 2014, la quale ha affermato che la disciplina del tributo in esame rientra nella potestà legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell'art. 117, co. 2, lettera e), Cost. e che, pertanto, la potestà legislativa attribuita alle Regioni deve essere esercitata nei limiti fissati dal legislatore statale.

Nella sentenza citata la disciplina veniva quindi ricostruita, ribadendo che la facoltà di variazione attribuita alle Regioni dal comma 3 del citato art. 16 è riferibile alla sola aliquota ordinaria di cui al precedente comma 1, con esclusione, dunque, dell'aliquota speciale fissata, per i soggetti di cui ai precedenti artt. 6 e 7, nella misura (non passibile di variazioni) pari al 4,75 %. Solo dall'anno successivo al 2002, cessata la disciplina transitoria, trovava dunque applicazione quella ordinaria, di cui all'art. 16, che, al comma 1, fissa l'aliquota al 4,25 % e, al comma 3, attribuisce alle Regioni la potestà di variare l'aliquota fissata dal legislatore statale fino ad un punto percentuale.

Secondo la Consulta, anche per le disposizioni regionali in esame valevano quindi le medesime considerazioni, trattandosi sempre di norme con le quali le Regioni avevano disposto l'aumento dell'aliquota IRAP al di fuori del perimetro delineato dal legislatore statale con il Dlgs. n. 446 del 1997.

E a tale conclusione si doveva giungere anche per l'art. 7, comma 1, della legge della Regione Siciliana n. 2 del 2002, in quanto, come sopra ricordato, tale Regione ha, sì, il potere di integrare la disciplina dei tributi erariali, ma sempre nei limiti segnati dai princìpi della legislazione statale relativi alla singola imposizione.

Né, contrariamente a quanto prospettato dalle Regioni intervenienti, esse potevano beneficiare della cosiddetta "sanatoria", prevista dal legislatore statale con l'art. 2, comma 22, della legge 24 dicembre 2003, n. 350.

Tale norma, infatti, evidenzia la Corte, ha introdotto, nelle more del completamento dei lavori dell'Alta Commissione di studio per il federalismo fiscale, una "sanatoria", tra l'altro, delle disposizioni legislative emanate dalle Regioni in tema di IRAP «in modo non conforme ai poteri ad esse attribuiti in materia dalla normativa statale». Nel caso in esame, invece, non si trattava dell'esercizio «in modo non conforme» di poteri attribuiti alle Regioni dalla normativa statale. Quest'ultima, infatti, come visto, non attribuiva alcun potere di maggiorazione dell'aliquota speciale disciplinata dall'art. 45 del Dlgs. n. 446 del 1997, potere invece attribuito con riferimento alle ipotesi di cui all'art. 16 del medesimo decreto legislativo, ovvero per la generalità dei destinatari, nonché per i soggetti di cui agli artt. 6 e 7 del medesimo Dlgs. 446 del 1997, limitatamente ai periodi di imposta successivi a quelli oggetto della disciplina speciale e transitoria dell'art. 45.

Gli interventi regionali si collocavano pertanto al di fuori dell'oggetto della sanatoria.

In conclusione, secondo la Consulta, doveva essere dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 6, della legge della Regione Marche n. 35 del 2001, nonché dell'art. 5, comma 1, della legge della Regione Lazio n. 34 del 2001 e correlata statuizione della Tabella A ad essa allegata e dell'art. 7, comma 1, della legge della Regione Siciliana n. 2 del 2002, limitatamente a quanto disposto per il periodo di imposta 2002 per i soggetti di cui agli artt. 6 e 7 del Dlgs. n. 446 del 1997.

Osservazioni

La questione oggetto del giudizio costituzionale è sempre stata molto controversa.

La questione della maggiorazione delle aliquote Irap a carico degli istituti finanziari era stata del resto fin da subito oggetto di contestazione, in sede costituzionale, laddove la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 21/2005, aveva tuttavia bocciato le censure sollevate, affermando che “è errato l'assunto dei giudici rimettenti secondo cui la disciplina dell'Irap, per sottrarsi ai prospettati dubbi di legittimità costituzionale, dovrebbe prevedere un'aliquota unica da applicare alle basi imponibili diversificate ai sensi degli artt. Da 4 a 11-bis del Dlgs n. 446 del 1997”.

Non sfuggiva inoltre alla Corte, in quell'occasione, la considerazione che l'Irap aveva già apportato uno “sgravio consistente” per il settore dell'intermediazione finanziaria e “un aggravio significativo” per il settore agricolo, essendo dunque giusto dunque ricorrere ad una sorta di “compensazione”.

La medesima questione era stata allora sostanzialmente riproposta sotto altra luce, contestando, come detto, l'applicazione maggiorata dell'aliquota Irap sulle banche, seppur sotto il diverso profilo di una presunta sospensione delle maggiorazioni regionali ad opera dell'art, 2, comma 21 della L. 289/2002 e successive proroghe.

Per dare un quadro normativo/storico ancora più completo, occorre del resto ricordare che, come visto, da una parte, l'art. 16 del Dlgs. 446/97, ratione temporis applicabile, prevedeva che “a decorrere dal terzo anno successivo a quello di emanazione del presente decreto, le Regioni hanno facoltà di variare l'aliquota IRAP fino ad un massimo di un punto percentuale. La variazione può essere differenziata per settori di attività e per categorie di soggetti passivi” e che, dall'altra parte, le banche e gli altri soggetti di cui agli articoli 6 e 7 del D. Lgs. 446/97, ai sensi dell'art. 45 del medesimo decreto, erano però soggetti, già, a livello nazionale, ad un'aliquota speciale e maggiorata pari al 5,4%, per i periodi di imposta 1998- 1999- 2000, al 5% per il 2001 e al 4,75% per il 2002.

Per rilevare il “corto circuito” interpretativo che dalla lettura del combinato delle suddette norme poteva derivare, basta del resto fare riferimento ad un'altra legge regionale, quella della Toscana, che (con la legge regionale 43/2002) aveva sì innalzato l'aliquota per le banche sopra quella ordinaria al 4,25%, stabilendola però sotto la quota del 4,75% e precisamente nella misura del 4,40%.

Eppure anche questo aumento era stato contestato dagli istituti di credito.

Se quindi nel 2002 era in vigore, per le banche, l'aliquota del 4,75%, a livello nazionale ed anche per la Regione Toscana, proprio seguendo il ragionamento della sentenza della Corte Costituzionale in commento, la stessa aliquota del 4,75% costituiva l'unico parametro per verificare se l'aliquota deliberata dalla Regione per l'anno 2003, nella misura del 4,40%, rientrasse nei casi di sospensione.

Posto che la sospensione disposta dalla finanziaria nazionale per il 2003 riguardava unicamente le maggiorazioni non confermative delle aliquote in vigore per l'anno 2002, l'Amministrazione Finanziaria, nei contenziosi su tale questione instaurati, aveva dunque obiettato che l'aliquota deliberata dalla Regione Toscana, a partire dal 2003, nella misura del 4,40%, per le banche e per gli altri soggetti ivi indicati, non fosse sospesa, in quanto addirittura inferiore all'aliquota in vigore per il 2002 per gli stessi soggetti, pari al 4,75%.

E questo anche in linea con gli orientamenti della Corte Suprema, laddove la Cassazione aveva infatti rilevato che il legislatore, con le norme in esame, avesse inteso “comunque limitare l'effetto sospensivo a quelle maggiorazioni che determinassero, o nella misura in cui determinassero, il superamento delle aliquote in vigore nel 2002 (e, in quanto tali, fossero non confermative di tali quote” (Cass., Sent. n. 19838 del 14.11.2012).

E ancora la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21327 del 18 settembre 2013, adottando una interpretazione non solamente “letterale” ma anche “teleologica” delle norme in questione, aveva affermato che “la sospensione fu disposta "in funzione dell'attuazione del titolo 5 della parte seconda della Costituzione e in attesa della legge quadro sul federalismo fiscale", in ragione, quindi, di una moratoria che, giustificata dalla mancanza di una legge quadro sul federalismo fiscale, non pregiudicasse però del tutto l'obiettivo finale dell'autonomia e del decentramento fiscale delle Regioni, obiettivo che sarebbe rimasto certamente ridimensionato dall'applicazione generale e indifferenziata - cioè comune ad ogni altro contribuente - dell'aliquota ordinaria a banche e società finanziarie, soggetti invece già destinatari per legge di possibili e specifici incrementi dell'aliquota ordinaria stessa, come determinato dalla disciplina statuale e deliberato, in senso maggiorativo, con altri atti normativi dalle Regioni”.

Proprio riferendosi al citato caso della Legge regionale Toscana, dalla lettura della norma emergevano dunque alcune considerazioni, che è bene rilevare:

1. la norma parla di aliquota sospesa quando non sia confermativa di quella già in vigore per l'anno 2002, pari, come visto, al 4,75%;

2. questo vuol dire che se l'aliquota maggiorata fosse del 4,75%, non ci dovrebbe essere alcun dubbio sul fatto che la sospensione non opera (come ora ribadito anche nella sentenza in commento);

3. solo nel caso in cui una legge regionale avesse disposto un'aliquota superiore all'aliquota già vigente nel 2002 (4,75%), allora la sospensione avrebbe eventualmente avuto effetto;

4. la sospensione dunque, poteva valere solo per aliquote superiori a quella già operante nel 2002 e non nel caso di aliquote inferiori a quella già vigente (come appunto nel caso della Toscana): il parametro per la sospensione, anche da un punto di vista di interpretazione letterale della norma, non è dunque la maggiorazione rispetto all'aliquota ordinaria, ma la maggiorazione rispetto all'aliquota speciale già vigente; anche perché, come detto, non esisteva in realtà per le banche un'aliquota ordinaria del 4,25% e quindi una maggiorazione rispetto a tale aliquota sarebbe semplicemente impossibile.

Infine persiste comunque un ultimo dubbio.

Dato che la norma parla di sospensione e non di abrogazione, una volta verificatasi la condizione sospensiva già prevista nella disposizione legislativa, il provvedimento poteva riprendere la propria efficacia, con effetti ex tunc?

Essendo poi stato raggiunto l'accordo Stato/Regioni a cui la stessa norma richiamata legava il perdurare della sospensione, gli effetti delle leggi regionali, laddove sospesi, potevano riprendere efficacia, confermando dunque la loro validità, con effetti ex tunc?

Insomma non sono pochi i punti ancora controversi.

Compresa, ad avviso di chi scrive, la questione della cosiddetta “sanatoria”, considerata invece irrilevante dalla Consulta.

Anche laddove le aliquote maggiorate fossero state stabilite in misura superiore al citato 4,75%, il comma 22 dello stesso articolo 2 della L. 289/2002, come detto, aveva infatti stabilito una sorta di sanatoria per quelle Regioni che nelle more avessero emanato disposizioni Irap in modo non conforme ai poteri ad esse attribuiti in materia dalla normativa statale.

La lettera della norma, quindi, era chiara nello stabilire che la “sanatoria” atteneva alle disposizioni eventualmente “non conformi ai poteri attribuiti” alle Regioni, laddove era stata del resto la stessa Corte Costituzionale, con la sentenza n. 381 del 14 dicembre 2004, relativa proprio all'eccezione di illegittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, lett. a) della L. 289/2002 del 29 settembre 2002, ad affermare che i provvedimenti legislativi di aumento delle aliquote adottati dopo il 29 settembre 2002 dovevano considerarsi “non conformi ai poteri … attribuiti in materia dalla normativa statale”, contraddicendo quindi la conclusione invece ora raggiunta nella sentenza in commento.

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