Risarcito per lesione del diritto alla riservatezza il soggetto ripreso nell’ambito di un processo penale trasmesso in RAI
26 Giugno 2019
Massima
Con la sentenza n. 9340 la Corte di Cassazione afferma la violazione del diritto alla protezione dei dati personali poiché non sono state adottate, dalla RAI, le misure necessarie per nascondere l'identità dei testimoni che hanno prestato il consenso alle riprese a patto di non essere riconosciuti da nessuno. La Cortedi Cassazione rinviagli atti alla Corte territoriale in diversa composizione, la quale dovrà accertare se gli accorgimenti tecnici adottati dalla RAI erano o meno sufficienti ad impedire il riconoscimento dei soggetti inquadrati. Il caso
Due donne agiscono in giudizio per ottenere dalla RAI il risarcimento dei danni subiti a seguito della violazione del diritto alla privacy per la diffusione di loro dati personali (quali il tono di voce, l'immagine parziale del volto) nel corso di una trasmissione televisiva relativa ad un processo penale nel quale avevano reso deposizioni testimoniali quali vittime di reato. Nello specifico le due donne avevano accettato di partecipare ad una trasmissione televisiva a condizione di non essere riprese e di mantenere, quindi, il loro anonimato. I giudici di primo grado accoglievano la richiesta delle due donne mentre, invece, la Corte territoriale, successivamente adita, negava il risarcimento. Le due donne ricorrono, quindi, in Cassazione sulla base di un unico motivo, denunciando violazione dell'art. 360 c.p.c. in relazione alla falsa applicazione degli artt. 136, 137 e 139 Codice Privacy, disciplinante il Titolo XII Giornalismo ed espressione letteraria ed artistica, e nonché degli artt. 6, 8, 9, 10, 11, 12 del Codice Deontologico (l. n. 675/1996 art. 25). La questione
Per garantire l'anonimato nell'ambito di una trasmissione televisiva è sufficiente oscurare gli occhi della vittima o di un testimone? Le soluzioni giuridiche
Con la sentenza n. 9340 del 4 aprile 2019 la Corte di Cassazione rafforza il diritto alla protezione dei dati affermandone la relativa violazione ove non siano adottati gli accorgimenti per nascondere l'identità dei testimoni che manifestano il consenso alle riprese a patto di non essere riconosciuti da nessuno. La Corte di Cassazione rinvia gli atti alla Corte territoriale in diversa composizione, la quale dovrà accertare in fatto se gli accorgimenti tecnici adottati dalla RAI fossero o meno sufficienti ad impedire il riconoscimento delle due donne. Accogliendo il ricorso, la Suprema Corte, affronta il caso partendo dal seguente assunto: se è vero che le donne avevano autorizzato la diffusione delle proprie deposizioni, avevano tuttavia posto come condictio sine qua non che venisse tutelato il proprio diritto all'anonimato e che non fossero trasmesse immagini che consentissero la loro identificazione. Ciò era finalizzato ad un corretto bilanciamento tra diritto all'informazione e diritto alla dignità e alla riservatezza dei soggetti coinvolti e doveva tradursi nell'adozione di ogni accorgimento idoneo ad impedire l'identificazione delle testimoni. La condizione imposta dalle donne di non essere riprese e di mantenere, quindi, il loro anonimato, va intesa in senso restrittivo: l'identificazione non doveva essere possibile da terzi, quindi nemmeno dai conoscenti delle donne. Tra i diritti della personalità, il diritto all'immagine, pur non essendo espressamente contemplato dalla nostra Costituzione, può certamente essere ricondotto alla categoria dei diritti fondamentali dell'uomo. Esso, infatti, è preposto alla tutela di quella sfera di intimità che, ormai, è considerata quale valore primario della persona. Il diritto all'immagine nasce dalla necessità di tutelare ogni individuo dall'indiscriminata diffusione della sua immagine e deriva da un'istanza essenzialmente individualistica, secondo la quale ciascuna persona deve essere arbitro di consentire, o meno, alla pubblicazione e alla propagazione delle proprie fattezze. Abitualmente accostati alla tutela dell'immagine sono il diritto alla riservatezza e il diritto all'identità personale, intendendosi con tale ultima espressione il diritto riconosciuto a ciascuna persona ad avere una “proiezione di sé” nel sociale il più possibile conforme al suo reale modo d'essere. Il diritto all'immagine è, al contempo, il diritto alla non diffusione della propria immagine, indipendentemente dalla circostanza che essa sia rappresentata in un contesto di intimità o secondo modalità tali da poter arrecare un'offesa all'onore o alla reputazione. Ciò che assume rilevanza ai fini dell'applicabilità della tutela è che la rappresentazione dell'immagine renda riconoscibile ed individuabile la persona ritratta. In questo senso, si suole parlare di parte “secondaria” dell'immagine (o di immagine secondaria) per identificare quella parte dell'immagine (o quell'immagine) che, non esprimendo tratti caratteristici ed essenziali della persona, non soggiace ai predetti vincoli di esposizione e diffusione. Nell'ordinamento giuridico italiano il diritto all'immagine trova specifica disciplina nel codice civile, nella legge sul diritto d'autore e, seppur di riflesso, nella normativa speciale in materia di protezione dei dati personali. L'art. 10 c.c. prevede che qualora l'immagine di una persona sia esposta o pubblicata, fuori dai casi in cui l'esposizione o la pubblicazione siano consentite dalla legge, o in ogni caso qualora dall'esposizione o dalla pubblicazione derivi pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona, l'autorità giudiziaria, su richiesta dell'interessato, può disporre che cessi l'abuso, salvo l'ulteriore diritto al risarcimento del danno. Si tratta di una norma di carattere generale, che specifica gli strumenti di tutela previsti contro l'abuso dell'immagine (ricorso all'autorità giudiziaria) e i relativi diritti riconosciuti all'interessato (ottenimento dell'inibitoria alla prosecuzione della condotta illecita, oltre al diritto al risarcimento del danno). La disciplina sostanziale della fattispecie è, invece, riscontrabile negli artt. 96 e 97 della legge sul diritto d'autore. L'art. 96 l.d.a., in particolare, stabilisce che, ogni qual volta si voglia esporre, riprodurre, o mettere in commercio, il ritratto di una persona, è necessario il suo consenso. Il principio consensualistico, quale condizione di legittimità per la diffusione dell'immagine altrui, costituisce il cardine attorno al quale ruota la disciplina autoriale. Il consenso richiesto dall'art. 96 l.d.a. può essere acquisito senza particolari vincoli di forma (distinguendosi, al riguardo, dal consenso prescritto dalla normativa privacy che, come noto, deve essere essenzialmente “espresso”). Questo, pertanto, può ritenersi legittimamente prestato anche in modo implicito, tacitamente, per fatti concludenti e, a seconda delle circostanze, può anche ritenersi presunto, come, ad esempio, nel caso in cui un soggetto si sia volontariamente collocato tra personaggi pubblici dimostrando gradimento per la possibilità di essere ritratto. A tale libertà di forma, tuttavia, considerata anche la delicatezza della materia e la rilevanza degli interessi tutelati, deve corrispondere un'adeguata prudenza nella valutazione dell'effettiva accondiscendenza dell'avente diritto. Così, si ritiene che il consenso debba comunque essere specifico e la relativa efficacia considerata entro gli stretti limiti definiti dalle circostanze di tempo e luogo, e dalle finalità, per le quali il permesso è stato accordato. Anzitutto, il consenso è efficace nell'esclusivo riguardo dei soggetti a favore dei quali è stato prestato: nei confronti di tutti gli altri, resta inalterato il c.d. jus imaginis della persona ritratta ed il conseguente diritto di consentire o meno alla comunicazione della propria immagine. Nella loro accezione più comune i termini “anonimo” e “anonimato” vengono utilizzati per indicare, rispettivamente, l'asserzione di cui non sia nominato l'autore e la conseguente, particolare, condizione nella quale si trova quest'ultimo. La nozione più ricorrente di anonimato finisce, così, per coincidere con lo status di chi vuole lasciare ignoto il proprio nome, ovvero vuole rinunciare a manifestare, o a rivelare, la propria identità. Dal punto di vista giuridico, tuttavia, il concetto di anonimato appare più eterogeneo e, invero, più complesso. Il significato di “informazione anonima” espresso dal Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR), ad esempio, coincide solo parzialmente con la nozione di anonimato connessa alle denunce anonime (o notizie anonime di reato), disciplinate dall'art. 333, comma 3, c.p.p. Ancora, i valori essenziali tutelati dal diritto all'anonimato riconosciuto alla madre che non intenda rendere note le proprie generalità (art. 30, d.P.R. n. 396/2000) sono, evidentemente, differenti dai pur meritevoli interessi che la disciplina autoriale intende salvaguardare, consentendo all'autore la pubblicazione dell'opera anonima. Nel caso ora analizzato, per i giudici di primo grado che inizialmente accolsero la richiesta delle donne, la Rai avrebbe dovuto adottare degli «accorgimenti atti a non svelare l'identità personale dei soggetti». Il servizio televisivo trasmesso in Rai, invece, non aveva adottato modalità di oscuramento efficaci tali da rendere non riconoscibili le testimoni; pur non essendo stata trasmessa la parte del processo in cui venivano indicate le loro generalità, le riprese erano in primo piano, l'oscuramento dei volti era parziale e non erano state alterate le voci delle donne. Inoltre in alcuni cambi di inquadratura si intravedeva perfino il naso e l'occhio di una delle testimoni. I predetti accertamenti tecnici, non erano stati secondo la Corte di Cassazione, correttamente eseguiti dai giudici d'appello, che si erano limitati ad affermare l'avvenuto contemperamento degli interessi, prescindendo però dalla loro effettiva valutazione in fatto. Per tali ragioni i Giudici cassano con rinvio la sentenza dei giudici di secondo grado. La Corte d'appello aveva ribaltato la decisione dei giudici di prime cure con una motivazione che la Cassazione considera contraddittoria. ; Da una parte aveva riconosciuto il diritto a mantenere segreta l'identità, dall'altra aveva affermato l'esistenza di «un equilibrato bilanciamento tra il dovere di cronaca e la tutela della riservatezza» perché altri accorgimenti avrebbero privato le riprese di «qualsiasi valenza». Ad avviso della Suprema Corte, tale affermazione è «palesemente falsa sul piano logico». Per la Suprema Corte é evidente che oscurare completamente i volti, oppure riprendere le testimoni di spalle o alterare la loro voce, non può in nessun modo influire sulla completezza dell'informazione. E se il principio di diritto da rispettare impone di diffondere immagini delle deposizioni solo se si impedisce l'identificazione del teste, non si può concludere che gli accorgimenti suggeriti dal tribunale avrebbero impedito la «valenza delle riprese», ritenendo così legittimi anche i mezzi che non garantiscono l'anonimato. Una conclusione, non in linea con la premessa prodotta, che la Corte d'Appello è chiamata a rivedere con un nuova decisione con la quale dovrà accertare se i sistemi messi in atto dalla Rai fossero tali da non permettere neppure ai conoscenti di individuare le due donne. Osservazioni
In tema di tutela del diritto di cronaca nei procedimenti penali è interessante rilevare l'intervento del Garante per la protezione dei dati personali (Garante Privacy) in tema di attività giornalistica. In particolare, ai sensi dell'art. 20, comma 4 del d.lgs. n. 101/2018 che ha emendato il Codice Privacy italiano (verificata la conformità al Regolamento delle disposizioni del “Codice di deontologia relativo al trattamento dei dati personali nell'esercizio dell'attività giornalistica”), il Garante ha disposto che le regole indicate nell'allegato 1 del provvedimento (di seguito “Regole”), siano pubblicate come “Regole deontologiche relative al trattamento dei dati personali nell´esercizio dell'attività giornalistica” e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana. Le predette Regole costituiscono una norma dell'ordinamento giuridico generale, e ad esse devono adeguarsi tutti coloro che esercitino funzioni informative mediante mezzi di comunicazione di massa; pertanto, il suo rispetto verrà garantito dai diversi organi pubblici e, quindi, dalle testate giornalistiche che agiscono in qualità di Titolare del trattamento. Il rispetto delle disposizioni contenute nelle predette Regole costituisce condizione essenziale per la liceità e correttezza del trattamento dei dati personali e, «in caso di violazione delle sue prescrizioni, il Garante può vietare il trattamento ovvero disporre il blocco o imporre sanzioni». Il GDPR, al considerando 153, conferma la necessità di una considerazione particolare al trattamento per le finalità giornalistiche, richiedendo agli Stati membri di conciliare le norme che disciplinano la libertà di espressione e di informazione, con il diritto alla protezione dei dati personali, prevedendo altresì esenzioni e deroghe, per conciliare il diritto alla protezione dei dati personali e il diritto alla libertà d'espressione e di informazione sancito nell'art. 11 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. In particolare il diritto di informare è legittimo, e quindi può anche prevalere sul diritto alla riservatezza,se l'utilità sociale dell'informazione persegue la ricerca della verità e la forma della esposizione sia corretta e frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca dei fatti esposti. L'art. 5 delle suddette Regole deontologiche disciplina il diritto all'informazione e conseguentemente i fatti di interesse pubblico. Detta norma estende le esenzioni previste per il trattamento dei dati personali ai fini di giornalismo, anche alle nuove categorie particolari di dati, ai sensi dell'art. 9 del GDPR. È rilevante notare come il giornalista, nel raccogliere dati personali atti a rivelare origine razziale ed etnica, convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, opinioni politiche, adesioni a partiti, sindacati, associazioni o organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché dati genetici, biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, nonché dati atti a rivelare le condizioni di salute e la sfera sessuale, deve garantire il diritto all'informazione su fatti di interesse pubblico, nel rispetto dell'essenzialità dell'informazione, evitando riferimenti a congiunti o ad altri soggetti non interessati ai fatti.Nel secondo capoverso delle predette Regole viene, inoltre, confermato che, in relazione a dati riguardanti circostanze o fatti resi noti direttamente dagli interessati o attraverso loro comportamenti in pubblico, è fatto salvo il diritto di addurre successivamente motivi legittimi meritevoli di tutela. |