Novazione del contratto di locazione e principio di immutabilità del canone legalmente dovuto
26 Luglio 2019
Massima
Nel caso di stipula, tra le medesime parti, locatore e conduttore, di un successivo contratto di locazione avente ad oggetto il medesimo immobile, la clausola che preveda un mero aumento di canone, secondo il c.d. meccanismo del “canone a scaglioni in aumento” - peraltro, nulla per contrarietà alla norma imperativa di cui all'art. 79, l. n. 392/1978 (legge sulla locazione di immobili urbani), in quanto non controbilanciata da un elemento contrattuale tale da riequilibrare il sinallagma inter partes - non è elemento tale da configurare la novazione del rapporto contrattuale sotto il profilo oggettivo. Invero, la novazione, da intendersi quale fatto estintivo del rapporto contrattuale originario e fonte di nuove obbligazioni, postula, oltre alla sussistenza degli elementi essenziali del contratto, l'animus novandi e l'aliquid novi. Di contro, ricorre la novazione allorquando intervenga la modifica di destinazione d'uso dell'immobile rispetto a quella prevista ab origine, con conseguente attribuzione al conduttore del diritto di svolgere ulteriori e diverse attività commerciali rispetto alle precedenti. Ne consegue, in detta ipotesi, la legittimità della clausola di aumento del canone, avente in tale caso il precipuo fine di adeguare il corrispettivo del godimento dell'immobile alla sua diversa destinazione d'uso, e quindi al suo maggiore valore locatizio. In detta ultima ipotesi, la natura novativa del contratto preclude al conduttore succeduto nel contratto per effetto della cessione del ramo d'azienda ex art. 36, l. n. 392/1978 di agire nei confronti del locatore, invocando la nullità della clausola di aumento del canone contenuta nel pregresso contratto, stante la propria carenza di legittimazione attiva. Il caso
Con ricorso ex art. 447-bis c.p.c. parte ricorrente, nel permettere di condurre in locazione un immobile in forza di un contratto stipulato nel 1989, successivamente modificato da una convenzione del 2004, per effetto del contratto di cessione di ramo d'azienda intercorso con gli originari conduttori, eccepiva la nullità della clausola di aumento del canone contenuta nella convenzione modificativa del contratto di locazione del 2004, da considerarsi nulla ai sensi dell'art. 79, l. n. 392/1978, con conseguente richiesta di condanna del locatore a restituire quanto indebitamente corrisposto rispetto al dovuto. Costituitosi in giudizio, il convenuto chiedeva rigettarsi la domanda, affermando carattere novativo dell'accordo del 2004, e di essere autorizzato a chiamare in causa il proprio amministratore, che aveva provveduto a redigere il contratto del 2004. Detto ultimo, a propria volta costituitosi in giudizio, preliminarmente eccepita la prescrizione del diritto di garanzia, chiedeva il rigetto nel merito della domanda, e l'autorizzazione alla chiamata in causa della propria compagnia di assicurazioni, anch'essa regolarmente costituita in giudizio. Il conduttore proponeva poi altro separato giudizio con il quale, eccepita la preliminare sussistenza di un pregresso contratto di locazione del 1982 stipulato dal locatore convenuto in giudizio con gli originari conduttori, chiedeva venisse accertata e dichiarata la nullità della clausola di aumento del canone contenuta nel contratto del 1989, con applicazione del canone originariamente previsto nel contratto del 1982 e conseguente restituzione di quanto corrisposto in eccesso rispetto ad esso. Riunite le cause, il giudice di prime curerigettava entrambe le domande, ritenendo che la clausola di aumento del canone contenuta nel contratto 1989, strutturata secondo il meccanismo sopra riportato, pur avendo portata modificativa di quello del 1982, fosse legittima in quanto si sarebbe trattato di canone liberamente concordato tra le parti. Quanto all'accordo del 2004, riteneva avesse natura novativa, con conseguente inapplicabilità di detta norma e legittimità della clausola di aumento del canone. Parte attrice proponeva appello avverso detta sentenza, censurando, con il primo motivo, la decisione del giudice di prime cure di aver ritenuto legittimo il canone previsto dal contratto del 1989, eccependo la nullità ex art. 79, l. n. 392/1978, delle pattuizioni intese a determinare una mera modifica del canone di locazione, stante la prioritaria tutela normativa del contraente debole, e, con il secondo motivo, la ritenuta natura novativa dell'accordo modificativo del contratto di locazione del 2004, asserendo non essere mutate le originarie parti contraenti, posto che la società conduttrice era subentrata, previo consenso della locatrice, agli originari conduttori, persone fisiche soci della società, nonché l'irrilevanza dell'ampliamento della destinazione d'uso dell'immobile, trattandosi di conseguenza dell'entrata in vigore del decreto Bersani in materia di licenze. Dedotto, pertanto, che il canone da corrispondere, c.d. canone legale, avrebbe dovuto considerarsi quello di cui all'art. 4 dell'originario contratto di locazione del 1982, l'appellante chiedeva la restituzione di quanto corrisposto in eccesso rispetto ad esso nel periodo dal 1989 al 2016. Censurava poi il punto della sentenza ove non si procedeva alla compensazione parziale delle spese di lite, pur considerata la dichiarazione di inammissibilità della domanda riconvenzionale dell'appellato, nonché la decisione di porre a carico dell'appellante anche le spese di lite sostenute dall'amministratore della locatrice e dalla propria assicurazione, pur nonostante l'infondatezza della domanda di garanzia svolta dall'appellato in primo grado. Costituitisi in giudizio, gli appellanti chiedevano il rigetto della spiegata impugnazione. Il giudizio d'appello si concludeva con sent. n. 2925 del 13/11/2018, con la quale la Corte d'Appello, compiuta un'accurata analisi circa la sussistenza degli elementi giuridici che consentono di individuare la novazione del contratto, quale fatto estintivo del pregresso rapporto e costitutivo di nuove obbligazioni contrattuali, nonché in merito all'interpretazione dell'art. 79, l. n. 392/1978, sotto il profilo della legittimità della clausola di aumento del canone nel contratto di locazione commerciale, purché ancorata ad elementi predeterminati del contratto tale da consentire il mantenimento dell'equilibrio sinallagmatico Inter partes riteneva l'appello principale proposto parzialmente fondato ed in detta misura accoglibile. Nello specifico, la Corte affermava che il contratto di locazione del 1989 non aveva avuto effetti novativi rispetto a quello in essere tra le medesime parti nel 1982, non contenendo alcun elemento di novità sotto il profilo sia dell'oggetto che dei soggetti, limitandosi, unicamente, a prevedere una clausola di aumento del canone ritenuta insufficiente a configurare un'ipotesi di novazione del contratto. Accoglieva, pertanto, il motivo di gravame con il quale l'appellante si doleva della mancata applicazione, nella sentenza di primo grado, della sanzione della nullità della clausola di aumento del canone ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 79, l. n. 392/1978. Quanto all'altro motivo di gravame, la Corte statuiva la portata novativa dell'accordodel 2004, la c.d.convenzione modificativa del contratto di locazione, avendo ravvisato la sussistenza del cosiddetto aliquid novi costituito, nel caso di specie, dalla modifica della destinazione d'uso dell'immobile, con incremento delle possibilità di suo utilizzo e conseguente legittimità del canone cosiddetto “a scaglioni crescenti”. In merito alla spiegata eccezione di difetto di legittimazione attiva svolta dall'appellata riguardo alla possibilità dell'attuale conduttrice di chiedere la restituzione dei canoni corrisposti in eccesso dagli originari conduttori dal 1989 al 2004, la Corte, nel premettere l'effetto novativo dell'accordo del 18 novembre 2004, rappresentava come l'attuale società conduttrice non fosse legittimata a chiedere la restituzione dei canoni versati dagli originari conduttori, posto che il contratto di cessione d'azienda aveva fatto subentrare l'appellante nella posizione contrattuale della propria dante causa unicamente a decorrere dal 2004 e non anche per il periodo di tempo antecedente. Oltretutto mancava nel contratto di cessione d'azienda una esplicita clausola che prevedesse il subentro di parte cessionaria dei nei rapporti giuridici attivi della cedente, essendo, anzi, contenuta in detto contratto una clausola che prevedeva espressamente non vi fosse alcun subentro del cessionario nelle precedenti ragioni di credito della cedente. L'accoglimento di detta eccezione determinava il rigetto della domanda di restituzione dei canoni proposta dell'appellante. In punto spese di lite, veniva accolto il motivo di ricorso inerente la richiesta di condanna al pagamento del rappresentante della locatrice e della propria compagnia di assicurazione venendo, per contro, confermata la statuizione nei confronti di parte locatrice, considerato che la dichiarata inammissibilità della domanda riconvenzionale da questi proposta, non aveva determinato lo svolgimento di attività istruttoria di sorta. La questione
Nel caso sottoposto al proprio vaglio, la Corte d'Appello è stata chiamata ad affrontare la duplice questione della novazione nel caso del contratto di locazione ad uso commerciale e, dall'altro, la problematica inerente alla legittimità della clausola di aumento del canone, intervenuto in un momento successivo rispetto alla stipula dell'originario contratto di locazione, nell'un caso con un altro contratto, e nell'altro con una convenzione modificativa, secondo il meccanismo del cosiddetto canone a scaglioni in aumento. Nello specifico, si trattava di comprendere se il contratto di locazione intercorso in epoca (1989) successiva al primo (1982), tra il medesimo locatore ed i medesimi conduttori, ed avente ad oggetto il medesimo immobile, che prevedeva al proprio interno una clausola secondo cui il canone avrebbe subito degli aumenti annuali nel corso di tutta la propria durata, novasse il primo contratto e se, conseguentemente, alla stregua delle vigenti disposizioni normative e degli orientamenti giurisprudenziali, la clausola potesse considerarsi o meno legittima. La Corte era poi chiamata ad esaminare la questione della legittimità della clausola di aumento del canone contenuta all'interno di un successivo contratto, denominato “convenzione modificativa di contratto di locazione” intercorso nel 2004 tra il medesimo locatore e, quale nuova conduttrice, una società in nome collettivo di cui erano soci le persone fisiche che precedentemente conducevano il medesimo immobile che, nel frattempo, aveva mutato destinazione d'uso. A dette tematiche si aggiungeva quella della restituzione dei canoni corrisposti in aumento rispetto al dovuto a far data dal 1982 al 1989 e dal 2004 in avanti, formulata dalla società nel frattempo subentrata, ex art. 36, l. n. 392/1978, nel contratto di locazione commerciale del 2004 quale cessionaria del ramo d'azienda da parte della dante causa conduttrice. Invero l'appellante, società attrice conduttrice, da un lato aveva eccepito la nullità, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 79, l. 392/1978, dell'art. 3 del contratto di locazione stipulato il 25 maggio 1989 e dall'altro la nullità dell'art. 2 della convenzione modificativa di contratto di locazione ad uso commerciale del 18 novembre 2004, stante le contenute previsioni di aumenti del canone di locazione rispetto a quello originario, con conseguente richiesta di accertamento e declaratoria che il canone di locazione riferito all'immobile per cui era causa doveva essere corrisposto in forza del contratto di locazione del 28 dicembre del 1982. Altra questione da risolvere riguardava la sussistenza o meno della legittimazione attiva della società conduttrice a formulare la domanda di restituzione dei canoni corrisposti in eccesso, evidentemente intimamente connessa al carattere novativo o meno della convenzione modificativa di contratto di locazione del 2004 rispetto al precedente contratto del 1989. Le soluzioni giuridiche
Nell'esame delle questioni sottoposte al proprio vaglio la Corte d'Appello, nel preliminarmente occuparsi della tematica inerente alla successione nel tempo dei rapporti contrattuali, ha ritenuto che il contratto del 1989 non avesse avuto effetti novativi rispetto al precedente del 1982, non contenendo alcun elemento di novità nè sotto il profilo soggettivo tantomeno sotto quello oggettivo, fatta eccezione per la clausola di aumento del canone rispetto a quello precedentemente determinato. Invero, la novazione, da intendersi come fatto estintivo del precedente rapporto obbligatorio e costitutivo di nuove obbligazioni, postula, tra i propri elementi essenziali, oltre alla imprescindibile volontà di far sorgere un nuovo rapporto giuridico che sostituisca il precedente, come disciplinato dall'art. 1230, comma 2, c.c., la previsione di nuove ed autonome obbligazioni. Affinché sorga, pertanto, un nuovo contratto, oltre agli elementi essenziali che lo connotano, sono necessari l'animus novandi, ovvero l'inequivoca volontà delle parti di estinguere l'originaria obbligazione sostituendola con una nuova, ed il c.d. aliquid novi ovvero, ai sensi dell'art. 1230 c.c., il mutamento dell'oggetto della prestazione o del titolo del rapporto. Ne consegue che la modifica dell'obbligazione sotto il mero profilo quantitativo, al pari dell'apposizione di termini o condizioni, non determina l'estinzione dell'obbligazione originaria (Cass. civ., sez. III, 9 marzo 2010, n. 5673; Cass. civ., sez. III, 13 giugno 2017, n. 14620). Alla stregua della premessa, la Corte, in accoglimento del proposto motivo di gravame, ha sancito la nullità della clausola di aumento del canone di locazione ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 79, l. n. 392/1978. Invero, costituisce il principio di diritto quello secondo cui, nel caso del contratto di locazione commerciale, la clausola avente ad oggetto non tanto l'aggiornamento del canone, previsto dall'art. 32 di detta legge, ma aumenti di canone deve ritenersi nulla ex lege, nello specifico per contrarietà alla norma imperativa di cui all'art. 79, l. n. 392/1978, in quanto diretta ad attribuire al locatore un vantaggio ingiustificato costituito da un canone più elevato rispetto a quello normativamente dovuto, senza che il conduttore possa, né in sede di conclusione del contratto, nè nel corso del rapporto, rinunciare al proprio diritto di non corrispondere aumenti non dovuti (Cass. civ., sez. III, 14 marzo 2018, n. 6124). Costituisce invero altro principio di diritto quello della cosiddetta immutabilità del canone di locazione legalmente dovuto, tale da intendersi il canone contrattualmente pattuito maggiorato degli aumenti secondol'indice Istat allorquando previsti (Cass. civ., sez. III, 14 marzo 2018, n. 6124). La norma, infatti, persegue l'interesse pubblicistico costituito dalla tutela del contraente debole, nello specifico parte conduttrice, che ha diritto a che il canone pattuito al momento della conclusione del contratto permanga inalterato durante il corso dell'intero rapporto contrattuale, fatti salvi i legittimi adeguamenti normativamente previsti (Cass. civ., sez. III, 14 marzo 2018, n. 6124; Cass. civ., sez. III, 14 marzo 2013, n. 2961). In ragione di tali considerazioni, il canone di locazione nel periodo intercorso dal 1989 al 2004 avrebbe dovuto essere corrisposto nella misura prevista dal contratto del 1982. Di contro, la Corte d'Appello ha ritenuto la natura novativa della convenzione del 2004, a tal fine rilevando, non tanto la modifica sotto il profilo soggettivo, costituita dal subentro, al conduttore originario, di un diverso conduttore, la società di persone, quanto piuttosto il cosiddetto aliquid novi costituito dalla modifica della destinazione d'uso dell'immobile, rispetto a quella dedotta nel precedente rapporto locatizio. Invero, essa determinava la possibilità per il conduttore di svolgere un'altra attività commerciale, diversa rispetto a quella originariamente prevista per l'immobile concesso in locazione. Detto elemento consentiva di desumere la sussistenza della volontà delle parti di stipulare un nuovo contratto di locazione, con possibilità di svolgere le molteplici attività commerciali divenute possibili a seguito del mutamento della destinazione d'uso. Evidente, da qui, la legittimità della clausola di aumento del canone, andando la medesima a riequilibrare il sinallagma contrattuale tra le parti in previsione della intervenuta modifica sotto il profilo oggettivo, remunerando in tal modo intervenuta modifica di destinazione d'uso dell'immobile, che, per tale effetto, si prestava a molteplici ulteriori e diverse attività rispetto a quelle originariamente previste (Cass. civ., sez. III, 4 aprile 2017, n. 8669). Riguardo alla spiegata eccezione di difetto di legittimazione attiva della parte appellante, rilevante sotto il profilo della domanda, da questi formulata nella propria qualità di attuale conduttrice dell'immobile, di restituzione dei canoni corrisposti in eccesso rispetto alla c.d. “misura legale”, la Corte, nel premettere l'effetto novativo del contratto nel 2004, e quindi la mancata successione della società conduttrice nell'originario rapporto contrattuale del 1982, ha statuito la carenza di legittimazione a richiedere la restituzione dei canoni versati in eccesso dagli originari conduttori. Di qui il rigetto delle domande di restituzione del canone proposte della società conduttrice. La Corte, poi, in accoglimento del relativo motivo di doglianza, riformava il punto della sentenza che condannava l'appellante al pagamento delle spese di lite sostenute dal rappresentante della locatrice e della compagnia di assicurazioni, confermando la statuizione sulle spese nei confronti di parte locatrice. Osservazioni
Nel caso in esame, la Corte d'Appello ha affrontato la questione della nullità della clausola del contratto di locazione ad uso commerciale contenente la previsione di successivi aumenti negli anni secondo il meccanismo del cosiddetto canone a scaglioni in aumento. Invero, nel caso del contratto di locazione commerciale, le parti sono libere di determinare contrattualmente la misura del canone, salve le limitazioni dettate dalla legge riguardo alla possibilità di aggiornarlo. L'autonomia negoziale delle parti, pur essendo apparentemente illimitata, incontra, tuttavia il limite di cui al comma 1 dell'art. 79, l. n. 392/1978, che sanziona con la nullità la clausola che attribuendo al locatore un canone superiore rispetto a quello pattuito o riconoscendo di un indebito vantaggio ai danni del conduttore determini una ingiustificata alterazione del sinallagma contrattuale. Pertanto, al di fuori della legittimità della clausola di aggiornamento del canone ai sensi dell'art. 32 di detta legge, ogni pattuizione, sia essa contestuale o successiva alla stipula del contratto di locazione, che preveda un aumento del canone deve considerarsi nulla. Nell'àmbito della determinazione del canone si è posta la questione relativa alla ammissibilità del sistema cd a canone progressivo o scaglionato durante il periodo di durata del rapporto contrattuale. Trattasi, nello specifico, di una clausola con la quale le parti convengono che il canone venga determinato in misura differenziata, crescente per frazioni di tempo, nel corso del rapporto locatizio o, in alternativa, preveda variazione in aumento del medesimo, correlate a determinati eventi aventi rilevanza economica indipendentemente dalla perdita del potere d'acquisto della moneta. Sul punto, la Corte di Cassazione, con orientamento oramai uniforme e consolidato, ha statuito ritenendo legittima la clausola in questione, purché l'aumento del canone sia ancorato ad elementi predeterminati “idonei ad influire sull'equilibrio economico del sinallagma contrattuale e del tutto indipendenti dalle eventuali variazione annuale del potere d'acquisto della moneta”, purché non risulti che la volontà delle parti sia diretta a perseguire, in maniera surrettizia, lo scopo di neutralizzare gli effetti della svalutazione monetaria andando in tal modo ad eludere i limiti previsti dall'articolo 32 della legge cosiddetta sull'equo canone (Cass.civ.,sez. III, 5 marzo 2009, n. 5349; Cass. civ., sez. III, 10 novembre 2016, n. 22909; Cass. civ., sez. III, 4 aprile 2017, n. 8669). La legittimità della clausola preclude la possibilità per il conduttore di agire per ottenere la restituzione dei canoni corrisposti in eccesso rispetto a quello che diversamente sarebbe da considerarsi dovuto, il c.d. canone legale, azione che, allorquando esperibile, costituisce una particolare, in quanto espressamente normata dalla legge speciale, ipotesi di ripetizione dell'indebito, esperibile nel termine decadenziale di sei mesi dell'avvenuto rilascio dei locali, secondo quanto stabilito dal disposto di cui al comma 2 dell'art. 79, l. n. 392/1978. Altra rilevante questione affrontata dalla Corte d'Appello è quella inerente la legittimazione dell'appellante a richiedere la restituzione delle somme versate in eccesso dagli originari conduttori. La società appellante era invero subentrata nel contratto di locazione ai sensi dell'art. 36, l. n. 392/1978, per effetto di contratto di cessione del ramo d'azienda, la cui dante causa era la società conduttrice. A tale proposito la sentenza della Corte d'Appello, che, nel preliminarmente affrontare la questione inerente alla successione nel tempo di diversi contratti di locazione, aveva sancito il carattere non novativo del contratto del 1989 rispetto all'originario contratto del 1982 e, di contro, il carattere novativo del contratto del 2004, aveva statuito che l'appellante conducesse l'immobile in forza del contratto del 2004, con conseguente difetto di legittimazione attiva in ordine alla restituzione dei canoni corrisposti in eccesso dai conduttori nel periodo dal 1989 al 2004, nonché dal 2004 a seguire. Invero, il contratto di cessione del ramo d'azienda non conteneva alcuna clausola che prevedesse il subentro del cessionario nei rapporti di credito pendenti contenendo, anzi e di contro, una disposizione contrattuale di segno opposto, che prevedeva non vi fosse alcun subentro del cessionario nei predetti. È evidente che detta clausola si riferisse anche al diritto di credito eventualmente vantato nei confronti del conduttore a titolo di maggiori canoni corrisposti, con conseguente impossibilità per la società conduttrice di azionare il relativo diritto di credito. |