Lo scostamento dallo studio di settore si può utilizzare ai fini della quantificazione dell'imposta evasa

26 Luglio 2019

Ai fini della configurabilità dei reati in materia di evasione IVA è necessario che i costi siano effettivamente documentati, essendo l'Iva collocata in un sistema chiuso di rilevanza sovranazionale che prevede la tracciabilità di tutte le fatture attive e passive. Relativamente ai costi non registrati, invece, la Suprema Corte rileva che possono essere considerati ai fini delle imposte dirette, dovendo considerarsi in tal caso legittima la presunzione di vendite “in nero” derivante dagli studi di settore.
Massima

In tema di IVA, essa è collocata in un sistema chiuso di rilevanza sovranazionale, che prevede la tracciabilità di tutte le fatture, attive e passive, emesse nei traffici commerciali, a nulla rilevando l'eventuale sussistenza di costi effettivi non registrati, i quali, invece, possono essere considerati con riferimento alle imposte dirette, non vincolate al rispetto di stringenti oneri documentali.

Pertanto, ai fini della configurabilità dei reati in materia di IVA, la determinazione della base imponibile, e della relativa imposta evasa, deve avvenire solo sulla base dei costi effettivamente documentati, non rilevando l'eventuale sussistenza di costi non registrati.

Il caso

Un contribuente era indagato per aver commesso il reato di omessa dichiarazione, previsto dall'art. 5 del D.Lgs. n. 74/2000.

Secondo gli inquirenti l'uomo, nella qualità di legale rappresentante di una società a responsabilità limitata operante nel settore del commercio di prodotti ittici, al fine di evadere le imposte aveva omesso di presentare la dichiarazione IVA, pur risultando una maggiore imposta evasa per un valore di gran lunga superiore alla soglia di punibilità (€ 50.000,00) prevista dalla norma violata.

Il Tribunale di Trapani, quale Giudice di primo grado, condannava il contribuente per il reato a questi ascritto.

Secondo la sentenza, confermata in grado secondo dalla Sezione Terza della Corte di Appello di Palermo, l'imputato, al fine di evadere le imposte, aveva omesso di presentare nel 2012 la dichiarazione fiscale relativa all'IVA e all'IRAP per l'anno 2011 e ciò, pur risultando accertati maggiori ricavi ed un'evasione dell'IVA pari ad € 245.207,00.

Contro tale sentenza di condanna il difensore dell'imputato proponeva Ricorso per Cassazione.

Con unico motivo di ricorso, il ricorrente lamentava la violazione di legge, ritenendo l'insussistenza, al di là di ogni ragionevole dubbio, della prova del superamento della soglia di punibilità di € 50.000,00, fondata solo sulle risultanze delle verifiche fiscali, essendo oltretutto opinabile ed arbitraria l'individuazione dell'indice di ricarico nella misura del 10% sulla vendita delle merci.

La Suprema Corte, con la sentenza in commento, respingeva il ricorso ritenendolo infondato e ribadiva, così, il suo costante orientamento secondo cui, ai fini della configurabilità dei reati in materia di Iva, la determinazione della base imponibile e della relativa imposta evasa, deve avvenire solo sulla base dei costi effettivamente documentati.

Dell'eventuale sussistenza di costi non registrati è, invece, possibile tenere conto per i reati concernenti le imposte dirette.

Infatti, ad avviso dei Supremi Giudici l'Iva è collocata in un sistema chiuso di rilevanza sovranazionale, che prevede la tracciabilità di tutte le fatture, attive e passive emesse nei traffici commerciali, con la conseguenza che non rileva l'eventuale sussistenza di costi effettivi non registrati, al contrario delle imposte dirette che non sono vincolate al rispetto di stringenti oneri documentali.

La questione

La questione giuridica sottesa nel caso in esame, verte nello stabilire se ai fini della configurabilità dei reati in materia di IVA e, in particolar modo in ordine al delitto di omessa dichiarazione di cui all'art. 5 D.Lgs. n. 74/2000, la determinazione della base imponibile, e della relativa imposta evasa, debba avvenire solo sulla base dei costi effettivamente documentati o se, all'opposto, rilevino anche i costi effettivi non registrati.

Le soluzioni giuridiche

Prima di fornire soluzione alla questione giuridica in premessa, occorre una breve disamina degli istituti coinvolti.

A mente dell'art. 5, comma 1 D.Lgs. n. 74/2000 (norma rubricata “Omessa dichiarazione”), chiunque al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non presenta, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni relative a dette imposte, quando l'imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte ad euro cinquantamila, è punito con la reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni.

Si applica la stessa pena, per chiunque che pur essendovi obbligato, non presenta la dichiarazione di sostituto d'imposta e ciò, quando l'ammontare delle ritenute non versate sia superiore ad euro cinquantamila.

Tale nuova previsione riguarda specificamente il sostituto d'imposta e implica che si debba prescindere dalla certificazione delle ritenute.

Tale comma è stato inserito dall'art. 5, comma 1, lett. a), D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158, che ha sostituito l'originario comma 1, con gli attuali commi 1 e 1-bis.

Viene, tuttavia, specificato che non si considera omessa la dichiarazione presentata entro 90 giorni dalla scadenza del termine (v. comma 2), ovvero non sottoscritta, oppure non redatta su stampato conforme al modello prescritto.

Il bene giuridico tutelato dall'anzidetta normativa è sia la trasparenza fiscale, sia l'interesse patrimoniale dell'Erario alla corretta percezione del tributo.

La fattispecie incriminatrice di cui all'art. 5 D.Lgs. n. 74/2000 è un tipico esempio di reato omissivo di natura propria (v. Cass. Civ., n. 43089/2015), in quanto può essere realizzata soltanto da chi, in forza della normativa tributaria, sia tenuto alla presentazione della dichiarazione prevista con riguardo a detti tributi.

La natura di reato omissivo proprio comporta che “l'affidamento a un professionista dell'incarico di predisporre e presentare la dichiarazione annuale dei redditi non esonera il soggetto obbligato dalla responsabilità penale per il delitto di omessa dichiarazione” (v. Cass. Civ., n. 16958/2012): trattandosi di reato omissivo proprio, la norma tributaria considera come personale e indelegabile il relativo dovere.

Sul punto la Suprema Corte ha precisato come il conferimento della delega alla presentazione della dichiarazione al commercialista, non esonera l'imprenditore dagli adempimenti fiscali, perché è quest'ultimo che è, e resta il soggetto onerato dell'obbligo di provvedere al pagamento delle imposte (v. Cass. Civ., n. 53980/2018).

In sintesi il contribuente deve, comunque, vigilare sul corretto comportamento del delegato e, ove necessario, provvedere direttamente alla presentazione della dichiarazione.

L'obbligo in questione non può infatti essere oggetto di delega di funzioni, non riguardando un'attività continuativa attribuita alla gestione di un terzo che agisce sotto la supervisione del legale rappresentante dell'impresa.

Ne consegue che il sol fatto di aver affidato ad un professionista, già incaricato della tenuta della contabilità, il compito di predisporre e trasmettere la dichiarazione dei redditi, non è circostanza che giustifica di per sé la violazione dell'obbligo o ne può escludere la consapevolezza dell'inutile scadenza del termine (v. Cass. Civ., n. 37856/2015).

All'opposto è esclusa la responsabilità del contribuente, solo nell'ipotesi di comportamento fraudolento del consulente incaricato della relativa trasmissione telematica (v. Cass. Civ., n. 8914/2018), finalizzato a mascherare il proprio inadempimento (v. Cass. Civ., n. 19422/2018), come ad esempio la falsificazione di modelli F24 ovvero di altre modalità di difficile riconoscibilità da parte del mandante (v. Cass. Civ., n. 11832/2016 e Cass. Civ., n. 12473/2010).

Elemento soggetto richiesto è il dolo specifico di evasione, la cui prova non deriva dalla semplice violazione dell'obbligo dichiarativo, né da una “culpa in vigilando” sull'operato del professionista, che trasformerebbe il rimprovero per l'atteggiamento antidoveroso da doloso in colposo, ma dalla ricorrenza di elementi fattuali dimostrativi che il soggetto obbligato, ha consapevolmente preordinato l'omessa dichiarazione all'evasione dell'imposta per quantità superiori alla soglia di rilevanza penale (v. Cass. Civ., n. 37856/2015).

In ordine alla condotta, essa consiste nel non presentare esclusivamente le dichiarazioni sulle imposte sui redditi (Irpef e Ires) e/o sul valore aggiunto.

Pertanto non assumono rilevanza penale quelle condotte il cui fine non è quello di evadere o far evadere tributi, come IRAP e altre imposte indirette o locali.

Per quanto concerne l'elemento psicologico, conformemente a quanto richiesto per l'integrazione degli altri delitti dichiarativi, il reato in esame è punito a titolo di dolo specifico, ossia nell'agente deve esservi coscienza e volontà finalizzata a uno scopo (nel caso concreto, di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto).

A tale proposito, la Suprema Corte ha chiarito che “la prova del dolo specifico di evasione, nel delitto di omessa dichiarazione (art. 5 D.Lgs. n. 74/2000), può essere desunta dall'entità del superamento della soglia di punibilità vigente, unitamente alla piena consapevolezza, da parte del soggetto obbligato, dell'esatto ammontare dell'imposta dovuta” (v. Cass18936/2016).

Per ciò che attiene al momento consumativo, la norma in premessa descrive un reato omissivo a consumazione istantanea: è necessario e sufficiente che decorrano - inutilmente - i novanta giorni (periodo di ravvedimento), dalla data ultima di presentazione della dichiarazione dei redditi o sul valore aggiunto previsti dalla legge tributaria

Invero, a mente del comma 2 dell'art. 5 D.Lgs. n. 74/2000, il momento consumativo del delitto di omessa dichiarazione, essendo il reato di natura istantanea, coincide con lo spirare del termine di tolleranza di 90 giorni successivi alla scadenza dei termini di presentazione delle dichiarazioni annuali previsti a mente dell'art. 8 d.P.R. n. 322/1998 (v. Cass. Civ., n. 43695/2011).

Pur non essendo escluso esplicitamente dall'art. 6 del D.Lgs. n. 74/2000, il tentativo non è possibile in quanto reato omissivo proprio.

È competente il giudice del luogo di domicilio fiscale del contribuente (v. art. 18 comma 2).

L'art. 18 del D.Lgs. n. 74/2000, infatti, regolamenta la competenza dell'Autorità Giudiziaria per i reati in materia di imposte sui redditi ed IVA sulla base di parametri compositi, diversificati a seconda delle concrete circostanze, solo in parte aderenti alle generali previsioni del codice penale.

Posto che, per la realizzazione del reato di omessa dichiarazione, l'imposta evasa (con riferimento a taluna delle singole imposte) deve essere superiore a 50.000,0 euro, è utile richiamare l'attenzione sulla definizione che ci viene fornita dall'art. 1, lettera f), D.Lgs. n. 74/2000, ai cui sensi: “per “imposta evasa” si intende la differenza tra l'imposta effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione, ovvero l'intera imposta dovuta nel caso di omessa dichiarazione, al netto delle somme versate dal contribuente o da terzi a titolo di acconto, di ritenuta o comunque in pagamento di detta imposta prima della presentazione della dichiarazione o di scadenza del relativo termine”.

È chiaro che nel caso di omessa dichiarazione, debba essere stabilito in che modo ricostruire l'importo dell'imposta dovuta, anche in ragione dell'eventuale sequestro finalizzato alla confisca per equivalente, atteso che tale misura ablatoria deve riferirsi all'ammontare dell'imposta oggetto dell'evasione in quanto costituente il vantaggio patrimoniale, in termini di profitto, derivante direttamente dalla condotta illecita (v. Cass. Civ., n. 19007/2015).

Ai fini della quantificazione del profitto del reato di omessa dichiarazione, è irrilevante l'evasione dell'imposta regionale sulle attività produttive (IRAP), non trattandosi di un'imposta sui redditi in senso tecnico (v. Cass. Civ., n. 12810/2016).

Per ciò che attiene alla quantificazione dell'imposta evasa, la Corte di Cassazione si è espressa in una serie di pronunce tese ad indicare le modalità di determinazione del tributo sottratto ad imposizione.

A detta della Suprema Corte, in assenza di elementi che facciano ritenere l'esistenza di poste passive, la determinazione delle imposte evase, può essere effettuata anche tendendo in considerazione i soli ricavi aziendali (v. Cass. Civ., n. 35773/2015).

Ciò significa che l'autorità inquirente, in mancanza di dati aziendali comprovanti l'effettivo sostenimento dei costi, può legittimamente considerare solo i ricavi in assenza di elementi che facciano ritenere l'esistenza di poste passive.

Per quanto concerne invece il compito demandato all'Autorità giudicante, con la sentenza Cass. Civ., n. 6823/2015 il Giudice di legittimità ha innanzitutto chiarito che l'accertamento presuntivo, ammesso in sede tributaria, non può trovare ingresso in sede penale, in quanto il giudice è tenuto a verificare la sussistenza della violazione a mezzo di specifiche indagini che possano far luce sulla fondatezza o meno della tesi accusatoria (v. Cass. Civ., n. 21213/2008 e Cass. Civ., n. 36396/2011).

Ad ogni buon conto è rimesso al giudice penale il compito di accertare l'ammontare dell'imposta evasa (v. Cass. Civ., n. 15899/2016) da determinarsi sulla base della contrapposizione tra ricavi e costi d'esercizio fiscalmente detraibili (v. Cass. Civ., n. 4516/2017) e le risultanze rese dalla Commissione Tributaria non sono vincolanti per il Giudice Penale il quale, nel determinare l'imposta evasa può anche sovrapporsi o entrare in contraddizione alle verifiche effettuate in sede tributaria (v. Cass. Civ., n. 32357/2015).

Va da sé che il Giudice penale, in sede di accertamento del reato di cui all'art. 5 D.Lgs. 74/2000, può avvalersi degli elementi probatori raccolti dagli uffici finanziari (ad esempio l'accertamento induttivo compiuto dagli uffici finanziari, v. Cass. Civ., n. 46500/2015, Cass. civ., n. 40992/2013 e Cass. Civ., n. 24811/2011), purché proceda a una specifica e autonoma valutazione degli stessi, non limitando la sua attività a constatarne l'esistenza o a effettuare un mero richiamo di elementi già evidenziati (v. Cass. civ. n. 40358/2015).

Preme rammentare che nell'ipotesi di reati tributari, il profitto confiscabile non va inteso al lordo dei vantaggi e risparmi conseguiti, bensì al netto delle somme dovute, con esclusione delle sanzioni amministrative (v. Cass. Civ., n. 17535/2019)

Il sequestro preventivo che risulti funzionale alla confisca per equivalente, invero, è costituito in via esclusiva dal risparmio economico derivante dalla circostanza di aver sottratto, tramite evasione fiscale, determinati importi alle casse erariali.

Di conseguenza detta misura non deve avere a oggetto le sanzioni, eventualmente correlate all'accertamento del debito tributario non assolto, non certamente annoverabili concettualmente nell'alveo del c.d. profitto del reato.

A livello procedurale va ricordato che per il delitto in premessa, non è basilare la condizione dell'art. 13, comma 2, del D.Lgs. n. 74/2000, ossia la preclusione all'accesso al rito del patteggiamento in caso di mancata estinzione del debito tributario.

Difatti, con una recente pronunzia di legittimità, la Cassazione ha ritenuto legittimo il patteggiamento della pena per il reato di omessa presentazione della dichiarazione, anche senza aver estinto il debito tributario (v. Cass. Civ., n. 10800/2019).

Invero, a mente del citato comma 2 dell'art. 13, il reato di omessa dichiarazione non è punibile se prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all'accertamento previste dalle norme tributarie, nonché del ravvedimento operoso.

In breve, a detta della Suprema Corte, il pagamento del debito tributario, da effettuarsi entro la dichiarazione di apertura del dibattimento, va considerato quale causa di non punibilità.

Ma trattandosi di causa di non punibilità, lo stesso non può logicamente fungere anche da presupposto di legittimità di applicazione della pena che, fisiologicamente, non potrebbe certo riguardare reati non punibili.

Pertanto, in ordine al delitto di omessa dichiarazione l'applicazione della pena, ai sensi dell'art. 444 c.p.p., potrà essere chiesta dalle parti anche senza pagamento del debito erariale.

Tornando al caso in premessa, il legale rappresentate di una società di capitali condannato nei due gradi di giudizio per il reato previsto dall'art. 5 del D.Lgs. n. 74/2000, proponeva ricorso per Cassazione lamentando, in sintesi, che la condanna era fondata su meri indizi e, la percentuale di ricarico applicata alle vendite, era calcolata su elementi opinabili.

Nello specifico il ricorrente contestava che le conclusioni in ordine al superamento della soglia di punibilità erano fondate esclusivamente sulle risultanze di una verifica fiscale, “e che altamente opinabile, se non arbitraria, era l'individuazione dell'indice di ricarico, nella misura del 10%, sulla vendita delle merci”.

La richiesta di assoluzione per insussistenza del fatto era, però, respinta dalla Corte di Cassazione che rigettava il ricorso dell'imputato.

Le conclusioni della Suprema Corte di Cassazione

A detta del Giudice di Legittimità, la presenza di gravi irregolarità fiscali, quali la mancata presentazione della dichiarazione, giustificano la ricostruzione induttiva del reddito complessivo e lo scostamento dalle risultanze dallo studio di settore è utilizzabile ai fini della quantificazione dell'imposta evasa per il reato di omessa dichiarazione.

Concludeva il Giudice di Legittimità affermando che nei reati in materia di IVA, la determinazione della base imponibile e della relativa imposta evasa, deve avvenire solo sulla base dei costi effettivamente documentati, non rilevando quelli non documentati, di cui si può, invece, tener conto per i di reati concernenti le imposte dirette (v. Cass. pen., sez. III, 13 giugno 2019, n. 26196).

Infatti, l'IVA è collocata in un sistema chiuso di rilevanza sovranazionale, che prevede la tracciabilità di tutte la fatture, attive e passive emesse nei traffici commerciali, con la conseguenza che non rileva l'eventuale sussistenza di costi effettivi non registrati (v. Cass. Civ., n. 53980/2018) al contrario delle imposte dirette che non sono vincolate al rispetto di stringenti oneri documentali (v. Cass. Civ., n. 38684/2014 e Cass. Civ., n. 21213/2008).

Osservazioni

Con la sentenza in commento, i Giudici della Sezione Tributaria prendono posizione sulle modalità di calcolo dell'imposta evasa in tema di omessa dichiarazione IVA.

Più nel dettaglio, posto il dato di fatto dell'omessa presentazione della dichiarazione, nel corso del procedimento amministrativo erano emersi diversi elementi indiziari da cui presumere l'esistenza di ricavi non contabilizzati, ossia:

1) sulla base dei dati contabili la società avrebbe venduto “sottocosto” per tutto il periodo d'imposta accertato, senza alcuna apparente motivazione;

2) la percentuale di ricarico applicata sulle vendita “in chiaro” era significativamente inferiore a quella applicata l'anno precedente;

3) detta percentuale risultava inferiore anche a quella risultante dall'applicazione degli studi di settore di imprese analoghe del settore;

4) il conto cassa “per ben otto giorni” ha presentato un saldo negativo quando, trattandosi di denaro contante a disposizione, può essere al massimo pari a zero;

5) n corso d'anno i soci hanno effettuato ingenti “finanziamenti in c/soci”, pur non avendo questi redditi dichiarati tali da giustificare dette operazioni, che apparivano come dirette più che altro a giustificare il reingresso nella società di capitali acquisiti mediante vendite “in nero”.

I giudici penali hanno ritenuto fondata e legittima la ricostruzione induttiva effettuata dall'Ufficio, che ha portato alla determinazione dell'imposta evasa, superiore alla soglia di punibilità prevista dalla legge penal-tributaria.

A parere degli ermellini, infatti, sebbene il ragionamento posto a base della decisione è indiziario, esso non si fonda solo, e genericamente, sull'applicazione della percentuale di ricarico risultante dagli studi di settore, come lamentato dall'imputato.

Infatti è apparso corretto il richiamo al dato risultante dall'applicazione degli studi di settore, in quanto lo stesso è inferiore a quello effettivamente riscontrato con riferimento alla società nell'anno precedente.

Al tempo stesso è risultato inverosimile, perché contrario al canoni di ragionevolezza, l'ipotesi della conduzione di un intero esercizio un anno con vendite “sottocosto” e per importi ingenti, anche in considerazione della generale inattendibilità della contabilità aziendale, anche sulla base del riscontro del conto cassa in negativo.

In merito ai costi non documentati, invece, la Suprema Corte non si discosta dall'indirizzo giurisprudenziale oramai formatosi in materia d'IVA.

A tal riguardo, la sussistenza di costi effettivi non documentati può esplicare effetti sulla determinazione della base imponibile e conseguentemente sulla determinazione dell'imposta, solo con riferimento ai reati concernenti le imposte dirette (v. Cass. Civ., n. 37131/2013) e non con riferimento all'IVA.

Quest'ultima imposta, infatti, si colloca in un sistema chiuso (v. Cass. Civ., n. 13068/1998) di rilevanza sovranazionale che può funzionare solo attraverso la specifica tracciabilità di tutte le fatture, attive e passive, emesse nei traffici commerciali, con la conseguenza che a nulla rileva l'eventuale sussistenza di costi effettivi non registrati che, in quanto tali, non possono esplicare alcun effetto sulla determinazione della base imponibile e, quindi, sulla quantificazione dell'imposta evasa.

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