Il condomino non può eliminare una servitù di aria e di luce posta a favore di una finestra delle scale comuni
30 Luglio 2019
Massima
L'azione proposta dall'amministratore senza autorizzazione e, poi, rinunciata non può pregiudicare il diritto del singolo condomino, né espropriarlo della facoltà di agire personalmente a tutela della proprietà comune. La realizzazione da parte di terze persone di illeciti anche più gravi di quello compiuto da un condomino (nella specie: chiusura delle terrazze esclusive) all'evidenza non scrimina quest'ultimo, essendo evidente che l'occlusione dell'affaccio diretto di una finestra sul vano scala causata dall'allestimento di una veranda riduce il passaggio di luce e di aria, ingabbiando lo sbocco naturale della finestra e svilendo apprezzabilmente la servitù di cui il bene comune gode nei confronti della proprietà esclusiva contigua. Il caso
I comproprietari di un appartamento sito in condominio citavano in giudizio altro condomino per sentirlo condannare alla rimessione in pristino della terrazza di sua proprietà, trasformata in vano chiuso mediante installazione di infissi e vetrate con conseguente pregiudizio della finestra condominiale posta in corrispondenza del vano scala. Questo, a seguito dell'intervento sul bene esclusivo, era rimasto privo di aria e di luce poiché la finestra in questione era stata praticamente inglobata nella veranda. Il convenuto si opponeva alla domanda e, in via riconvenzionale, chiedeva che il contenuto della servitù di aria e di luce gravante sulla terrazza venisse adeguato alla situazione attuale. Avverso la sentenza di primo grado, con la quale, rigettata la riconvenzionale, il convenuto era stato condannato alla rimozione delle opere eseguite, con rimessione in pristino dei luoghi nello stato quo ante e piena riattivazione della servitù in favore della finestra comune, il soccombente proponeva appello. Il gravame si fondava su tre motivi dei quali i primi due rilevanti: la mancata considerazione di una pregressa rinuncia del condominio su eguale domanda e la circostanza che l'innovazione non aveva prodotto alcun danno. La Corte territoriale respingeva integralmente l'appello. La questione
I problemi sui quali focalizzare l'attenzione riguardano, in primo luogo, l'effetto che la mancata azione promossa dal condominio verso un condomino può produrre sull'iniziativa di altro partecipante il quale, per tutelare la compagine condominiale ed indirettamente se stesso, abbia autonomamente agito in giudizio. In secondo luogo si è nuovamente parlato della questione concernente il rapporto tra violazioni già commesse daicondomini ed irregolarità attribuibili al singolo, al fine di accertare se i pregressi abusi possano attutire od eliminare il danno causato al bene comune dal secondo rispetto ai primi. Le soluzioni giuridiche
Per quanto concerne la precedente rinuncia del condominio alla domanda, poi promossa dai condomini, il Giudice del gravame ha affermato che tale rinuncia, che aveva per oggetto materia esorbitante dalle attribuzioni dell'amministratore, non poteva precludere il diritto degli attori ad esercitare un'azione successiva. Infatti, le azioni reali da esperirsi contro i singoli condomini o contro terzi e dirette ad ottenere statuizioni relative alla titolarità, al contenuto o alla tutela dei diritti reali dei condomini su cose o parti dell'edificio condominiale che esulino dal novero degli atti meramente conservativi (al cui compimento l'amministratore è autonomamente legittimato ex art. 1130, n. 4, c.c.) possono essere esperite dall'amministratore solo previa autorizzazione dell'assemblea, ex art.1131, comma 1, c.c., adottata con la maggioranza qualificata di cui all'art. 1136 stesso codice (Cass. civ., sez. II, 8 gennaio 2015, n. 40). La conseguenza diretta di tale pacifico principio è che, in tale situazione, il condomino non è spogliato del proprio diritto di agire in giudizio per fare valere un diritto che appartiene alla collettività, della quale il condomino stesso è parte integrante e, come tale, ugualmente leso (Cass. civ., sez. III, 16 maggio 2011, n. 10717). Con riferimento, invece, all'ipotetica mancanza di nocumento, correlata al fatto che quasi tutti i condomini avevano provveduto a chiudere le rispettive terrazze talchè l'intervento eseguito dall'appellante non aveva - a suo dire - prodotto, rispetto al vano scale, una diminuzione di aria e luce dissimile da quella conseguente a precedenti opere, la Corte si pronunciava per l'infondatezza del motivo. Ad avviso del giudice del gravame, in effetti, il fatto che altri soggetti avessero compiuto interventi anche più consistenti e gravi non poteva essere una “scriminante” per colui che aveva compiuto l'abuso oggetto di causa (nel caso di specie, peraltro, andava considerata la consapevolezza del fatto di avere inciso, con la chiusura del terrazzo esclusivo, in modo qualitativo e quantitativo rilevante, sulla servitù di aria e di luce che gravava sulla proprietà dell'appellante, poiché diversamente questi non avrebbe chiesto, in via riconvenzionale, di adeguare la stessa servitù alla nuova situazione di fatto). Osservazioni
Possiamo dire, senza temere di essere smentiti, che il caso affrontato dalla Corte fiorentina sia un caso di scuola, definito in modo del tutto condivisibile ed in linea con i plurimi orientamenti della giurisprudenza per tutti i profili portati all'esame dei giudicanti. Tuttavia, anche se l'intervento effettuato dal condomino è rappresentato dalla classica trasformazione del terrazzo esclusivo in veranda, questa volta l'oggetto della contesa non è la lesione al decoro architettonico, che sappiamo essere la causa di tante controversie e sulla quale, nel corso degli anni, molto è stato scritto, ma la violazione del diritto di servitù di aria e di luce gravante su detto terrazzo in favore di una parte comune (nella specie: una finestra delle scale). L'esame della questione di merito richiede una riflessione immediata sulle attribuzioni dell'amministratore del condominio e sui limiti alla sua legittimazione attiva, rispettivamente definiti dagli artt. 1130 e 1131, comma 1, c.c., dal cui combinato disposto risulta che questi può proporre tutte le azioni giudiziarie aventi carattere ordinario, dalle quali esulano le azioni reali, anche promosse nei confronti dei terzi, a difesa dei diritti dei condomini sulle parti comuni, trattandosi di giudizi che tendono a statuizioni concernenti la titolarità ed il contenuto di diritti che incidono sulla condizione giuridica dei beni cui gli atti stessi si riferiscono (Cass. civ., sez. II, 30 ottobre 2009, n. 23065; Cass. civ., sez. II, 6 febbraio 2009, n. 3044). E questo vale anche nel caso in cui si tratti di proporre - come nel caso in esame - un'azione reale di riduzione in pristino nei confronti di singoli condomini ed in assenza di una volontà assembleare. Da ciò consegue che nessuna responsabilità potrà mai essere posta a carico dell'amministratore che abbia omesso di agire in giudizio contro i responsabili a seguito di espresso volere negativo dell'organo deliberante (Cass. civ., sez. II, 16 ottobre 1999, n. 11688). A questo discorso di carattere generale, si aggancia la prima questione evidenziata: ovvero di quale diritto il condomino sia titolare se il condominio non fa valere in giudizio (per inerzia ovvero per espressa rinuncia) lo stesso diritto. Il punto di partenza per risolvere la questione è sempre quello canonico: la natura del condominio, oramai accertato come ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei condomini ed il cui organo amministrativo, quale l'amministratore, non priva i singoli partecipanti dalla facoltà di agire in difesa dei diritti siano essi esclusivi o comuni inerenti all'edificio (Cass. civ., sez. II, 9 novembre 2017, n. 26557). Si tratta di un principio di carattere generale dettato nell'interesse collettivo che, proprio in considerazione della peculiare forma giuridica del condominio consente al condomino, in caso di inerzia dell'amministratore di sostituirsi al medesimo nella tutela di diritti comuni in ragione della partecipazione del singolo alla compagine condominiale. Un diritto che la giurisprudenza afferma essere esercitato in base al principio della c.d. rappresentanza reciproca e della legittimazione sostitutiva (Cass. civ., sez. II, 3 agosto 2010, n. 18028) e che può valere solo qualora l'obiettivo sia la tutela dei beni comuni. Quanto alla seconda questione emersa dalla decisione in commento (se precedenti gravi violazioni possano essere un'esimente per il condomino), la risposta della giurisprudenza è, in via generale, negativa, anche se è sempre necessario fare i conti con il caso concreto. Anche in questo caso è necessario premettere che il caso in esame è sottoposto alle norme che presiedono all'esercizio delle servitù, tra le quali vanno rispettivamente individuati l'art. 1064 c.c., in base al quale il proprietario del fondo servente (il condomino) non può sopprimere la servitù stessa chiudendo il proprio fondo (trasformazione della terrazza in veranda) e l'art. 1067 c.c., che impone al proprietario del fondo servente di non compiere opere tali da diminuire l'esercizio della servitù o renderlo più gravoso. Ed in tal senso è proprio questo il comportamento tenuto dal condomino. Per la questione sollevata, poi, secondo la giurisprudenza nei casi di trasformazione di terrazze o balconi in verande si tenta sempre di sminuire la portata dei lavori, poiché, a fronte della violazione del decoro architettonico dell'edificio, tradizionalmente eccepito alla parte, si contrappone il pari comportamento illegittimo messo in atto dagli altri partecipanti. Se è vero che il caso concreto ha per oggetto fattispecie differente dall'alterazione delle linee architettoniche dello stabile, è altrettanto vero che la ratio ispiratrice di tante decisioni giurisprudenziali è comune alle varie fattispecie per le quali, sempre con riferimento alla lesione del decoro architettonico, si ritiene che in materia di innovazioni su parti comuni di un fabbricato condominiale non rileva che il decoro sia stato già notevolmente alterato, essendo sufficiente che il singolo e specifico intervento abbia una sua valenza negativa (Cass. civ., sez. VI/II, 18 gennaio 2018, n. 1235; Cass. civ., sez. VI/II, 12 settembre 2018, n. 22156, nella quale si è specificato che la preesistenza di una veranda di altro condomino già oggetto di altro giudizio non rende ininfluenti ulteriori fatti lesivi e non può costituire valida giustificazione). Un indirizzo giurisprudenziale che si può, dunque, applicare in via analogica anche all'ipotesi trattata. De Tilla, Legittimazione dell'amministratore del condominio ed azioni di natura reale, in Arch. loc. e cond., 2015 De tilla, Sui beni condominiali può esistere un diritto di servitù?, in Immob. & diritto, 7/2005 De Tilla,Sulle azioni dei singoli condomini a difesa dei diritti comuni e esclusivi, in Arch. loc. e cond., 2003 Musolino, La servitù di aria e di luce e la facoltà di soppressione delle luci, in Riv. notar., 2013 Sutti, Innovazioni vietate nel condominio di edifici e servitù, in Foro pad., 1993, I |