Distruggere (ingoiando) il verbale di assemblea costituisce reato e non blocca l'approvazione dei lavori

Maurizio Tarantino
25 Settembre 2019

Chiamata ad accertare la legittimità della condotta di un condomino che, per finalità ritorsive, aveva minacciato alcuni partecipanti all'assemblea e ingoiato una pagina del verbale, la Suprema Corte ha evidenziato che a nulla rilevava che la delibera fosse stata già approvata, in quanto la violenza concerneva l'aver costretto gli altri a tollerare un determinato comportamento. Di conseguenza, è stata confermata la condanna di violenza privata ex art. 610 c.p. per aver esercitato un'influenza limitativa e ostativa della libertà dei condomini.
Massima

La violenza privata è un delitto istantaneo che si consuma quando l'altrui volontà è costretta a fare o tollerare qualche cosa, senza la necessità che l'azione abbia un effetto continuativo, essendo sufficiente il dolo generico tramite violenza o minaccia, a fare, tollerare o omettere qualcosa. Dunque, commette il reato di violenza privata il condomino che strappa la pagina del verbale di assemblea che approva nuovi lavori condominiali e la ingoia, rendendola inservibile.

Il caso

La Corte d'Appello confermava l'affermazione di responsabilità resa in primo grado nei confronti di un condomino per il reato di violenza privata, per avere costretto i condomini dello stabile da lui abitato a sospendere i lavori della riunione condominiale ed a chiamare la polizia, minacciando alcuni partecipanti e strappando una pagina del verbale dell'assemblea, che ingoiava, rendendola inservibile.

Avverso tale pronuncia, il difensore dell'imputato evidenziava che la violenza o la minaccia attribuita ex art. 610 c.p., non avrebbero esercitato alcuna influenza limitativa o ostativa della libertà dei condomini, in quanto l'assemblea aveva già approvato i lavori che l'imputato non voleva; difatti, secondo tale difesa, la condotta in esame era una mera ritorsione alla deliberazione non gradita. Inoltre, secondo l'imputato, la Corte territoriale non avrebbe considerato che alcuni condomini presenti all'evento, dopo la condotta aggressiva dell'imputato, reagirono afferrandolo per il braccio, cagionandogli lesioni personali refertate; sicché, in tale situazione, non era configurabile un non facere, un omettere o un tollerare. Con altro motivo, era stata denunciata la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine al diniego dell'art. 131-bis c.p.

La questione

La questione in esame è la seguente: l'aver strappato e ingoiato il verbale di assemblea, blocca la delibera di approvazione dei lavori dell'edificio?

Le soluzioni giuridiche

Con le censure proposte, il ricorrente non lamentava una motivazione mancante, contraddittoria o manifestamente illogica, ma una decisione erronea, in quanto fondata su una valutazione asseritamente sbagliata del significato della condotta dell'imputato; invero, secondo il ricorrente, il reato di violenza privata non sarebbe stato integrato perché l'assemblea condominiale aveva già approvato i lavori che l'imputato non condivideva.

Diversamente da quanto esposto, secondo i giudici di legittimità, le condotte, integranti minaccia e violenza, avevano costretto i partecipanti dell'assemblea condominiale a tollerare quantomeno la sospensione dei lavori, ed a chiamare la polizia e poi redigere nuovamente il verbale strappato. Pertanto, a nulla rilevava che la delibera fosse stata già approvata (nel senso che si era già formata la volontà assembleare), in quanto la costrizione concerneva: il pati (la sospensione dell'assemblea condominiale) ed il facere (la richiesta dell'intervento della polizia e la nuova redazione del verbale strappato ed ingoiato dall'imputato).

Né dall'asserita reazione degli altri condomini che avrebbero provocato lesioni personali all'imputato, la condotta minacciosa e violenta e l'effetto costrittivo erano suscettibili di essere obliterati, trattandosi di comportamento che, a prescindere dalle valutazioni eventualmente rilevanti ai sensi dell'art. 52 c.p., era successiva alla condotta dell'imputato, e non ne elideva la tipicità.

Infine, quanto all'esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall'art. 131-bis c.p., i giudici di legittimità hanno evidenziato che la sentenza impugnata aveva negato il beneficio ritenendo che le modalità della condotta minacciosa e violenta, rivolta nei confronti di diverse persone, impedissero, unitamente al comportamento tenuto successivamente, con la tardiva denuncia nei confronti delle persone offese, di affermare la particolare tenuità dell'offesa. Sicché, le doglianze del ricorrente si limitavano ad una contestazione della valutazione giurisdizionale, ed alla sollecitazione di una non consentita rivalutazione del merito. Per le suesposte ragioni, il ricorso è stato rigettato.

Osservazioni

La pronuncia in oggetto è interessante in quanto si presta ad alcune precisazioni generali in merito al reato di violenza privata in condominio e dell'allontanamento del condomino pericoloso.

In argomento, in tema di violenza privata ex art. 610 c.p., giova ricordare che il bene giuridico oggetto di tutela è la libertà morale, e dunque la libertà psichica, contro ogni turbativa determinata anche semplicemente da attività di disturbo e molestia.

Per quanto riguarda il primo elemento costitutivo del reato, ovvero la violenza, essa va suddivisa in propria ed impropria. Per quest'ultima va intesa quando si utilizza un qualsiasi mezzo idoneo, esclusa la minaccia, a coartare la volontà del soggetto passivo, annullandone la capacità di azione o determinazione. Per violenza propria, si intende invece l'impiego di energia fisica sulle persone o sulle cose, esercitata direttamente o per mezzo di uno strumento. Per minaccia va invece intesa la prospettazione di un male ingiusto e notevole, eventualmente proveniente dal soggetto minacciante.

Quanto all'elemento soggettivo, esso consiste nella coscienza e volontà di usare violenza o minaccia al fine di costringere la vittima a fare, tollerare od omettere qualcosa. Trattasi comunque di dolo generico e non specifico, dato che il fine di costrizione realizza il momento consumativo.

Premesso quanto innanzi esposto, in àmbito condominiale, secondo alcuni autori, l'indeterminatezza della norma ha fatto sì che la giurisprudenza vi facesse rientrare anche l'ipotesi del parcheggio “sbagliato” ossia del parcheggio idoneo a limitare la libertà di determinazione del conducente di un'autovettura vicina. In tal senso, i giudici di legittimità hanno statuito che nel reato di violenza privata il requisito della violenza, ai fini della configurabilità del delitto, si identifica con qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente della libertà di determinazione e di azione l'offeso, il quale sia, pertanto, costretto a fare, tollerare o omettere qualcosa contro la propria volontà (Cass. pen., sez. V., 16 maggio 2006, n. 16571: in tale vicenda, è stata sancita la colpevolezza di un soggetto che aveva sostato la propria autovettura in un'area condominiale al fine di impedire al soggetto offeso di transitare con il proprio veicolo).

Dunque, l'esercizio arbitrario delle proprie ragioni si traduce nella indebita attribuzione a sé stesso da parte del privato e deve essere ricondotto all'ipotesi criminosa di cui all'art. 610 c.p., la quale è applicabile quando, per difetto dei presupposti o dell'elemento psicologico, non ricorrono gli estremi del delitto di cui all'art. 393 c.p. (Cass. pen., sez. V, 19 settembre 2014, n. 3857: nella specie, l'imputato aveva costretto la persona offesa a consegnarli documenti relativi al condominio, strappandole di mano la cartella che li conteneva).

Ebbene, dopo queste doverose premesse, l'analisi dell'istituto ci permette di capire che il reato in esame può realizzarsi anche nell'àmbito condominiale. In relazione alla fattispecie oggetto della presenta nota, a questo punto, occorre chiederci: è possibile allontanare un condomino dall'assemblea di condominio nel caso in cui ne intralci lo svolgimento?

Prima di rispondere al presente quesito, occorre evidenziare che, prima della riforma l. n. 220/2012, la precedente disposizione ex art. 67 disp. att. c.c. era l'unica che espressamente nominava la figura del presidente di assemblea in àmbito condominiale e lo faceva incaricandolo di dirimere le questioni che potevano insorgere tra i comproprietari di un'unità immobiliare che non si erano preventivamente accordati su chi di loro dovesse rappresentarli in seno all'assemblea. Con la riforma, il legislatore ha modificato l'art. 67 citato, eliminando questo riferimento. Tuttavia, la figura la ritroviamo ancora oggi in molti regolamenti di condominio e, in particolare, nella prassi.

In tema, la Suprema Corte ha affermato che la funzione del presidente dell'assemblea è quella di garantire l'ordinato svolgimento della riunione e, a tal fine, egli ha il potere di dirigere la discussione, assicurando, da un lato, la possibilità a tutti i partecipanti di esprimere, nel corso del dibattito, la loro opinione sugli argomenti indicati nell'avviso di convocazione e curando, dall'altro, che gli interventi siano contenuti entro i limiti ragionevoli. Ne consegue che il presidente, pur in mancanza di un'espressa disposizione del regolamento condominiale che lo abiliti in tal senso, può stabilire la durata di ciascun intervento, purché la relativa misura sia tale da assicurare ad ogni condomino la possibilità di esprimere le proprie ragioni su tutti i punti della discussione (Cass. civ., sez. II,13 novembre 2009, n. 24132).

In buona sostanza, il presidente è il moderatore dell'assemblea, colui che cerca di portare concretezza agli interventi, che cerca di tagliare sterili polemiche ed indirizza la discussione verso un dibattito costruttivo.

Allo stesso modo deve ritenersi che egli possa adottare ogni altro provvedimento necessario così come - ma solo nei casi più gravi - l'allontanamento dalla assemblea. Una decisione del genere, però, priverebbe il condomino della possibilità di votare su decisioni suscettibili di limitare i propri diritti e, dunque, si tratterebbe di una soluzione da assumere come estrema cautela.

Pertanto, in risposta al quesito in esame, solo la conclamata impossibilità di proseguire i lavori, a causa del comportamento grave, violento e prevaricatorio di un condomino, potrebbe giustificarne l'allontanamento. Così come, anche l'eventuale intervento della forza pubblica, legittimerebbe l'allontanamento solo in ipotesi tali da richiedere l'uso estremo “della forza”.

In conclusione, salvo situazioni eclatanti (come il caso in esame), non sembra legittimo l'ordine di un allontanamento, da parte dell'amministratore o del presidente, nei confronti del condomino che non stia diventando pericoloso. In tali ipotesi, nel caso in cui non si riescano a prendere i provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune o non si forma una maggioranza, i condomini possono sempre adire l'autorità giudiziaria (art. 1105 c.c.).

Guida all'approfondimento

Celeste

, Assemblea (adempimenti preliminari), in Condominioelocazione.it, 14 settembre 2008;

Cendon

, Trattato dei nuovi danni,

vol. 6,

Padova, 2011, 821.

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