Azione temeraria e abuso del processo. La cassazione introduce la sanzione come danno punitivo

08 Novembre 2019

La Suprema Corte si esprime sulla censurabilità o meno della condotta processuale della parte ricorrente alla luce dei principi che regolano il processo civile, non solo come strumento di accesso alla giustizia, tutelato dalla nostra Carta Costituzionale come diritto primario di ogni cittadino (art. 24 Cost.), ma altresì come meccanismo sociale di ricorso alla funzione di governo del diritto.
Massima

Ai fini della condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3, può costituire abuso del diritto all'impugnazione la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente incoerenti con il contenuto della sentenza impugnata, o completamente privo di autosufficienza oppure contenente una mera complessiva richiesta di rivalutazione nel merito della controversia, oppure fondato sulla deduzione del vizio di cui all'articolo 360 c.p.c., n. 5, ove sia applicabile, ratione temporis, l'art. 348-ter c.p.c., u.c. che ne esclude la invocabilità.

In tali ipotesi, il ricorso per cassazione integra un ingiustificato sviamento del sistema giurisdizionale, essendo non già finalizzato alla tutela dei diritti ed alla risposta alle istanze di giustizia, ma destinato soltanto ad aumentare il volume del contenzioso e, conseguentemente, a ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti ed il corretto impiego delle risorse necessarie per il buon andamento della giurisdizione.

Il caso

Una vicenda giudiziale promossa per il risarcimento di supposti danni per diffamazione a mezzo stampa, in esito ai due gradi di giudizi di merito, approdava all'esame della suprema Corte sulla base di tre motivi volti a censurare le sentenze di rigetto pronunciate dai giudici di merito.

Nel rigettare il ricorso articolato nei tre motivi, la Corte rileva che le censure sollevate erano tutte inammissibili: in parte per violazione del principio di autosufficienza ed in parte perché, sia pur attraverso il formale riferimento al vizio di cui all'art. 360 c.p.c., n. 3, si richiedeva, nella sostanza, un riesame nel merito dell'intera controversia, notoriamente non consentito in sede di legittimità.

Tali ragioni di censura – inammissibili in sede di legittimità ma di uso frequente nella prassi - devono ritenersi, secondo la Corte, gravemente erronee e non più compatibili con un quadro ordinamentale finalizzato alla tutela dei diritti delle persone.

La questione

Venendo alla tematica in esame, va detto che non rilevano le ragioni di censurabilità o di rigetto delle questioni oggetto di analisi già delle corti territoriali (come detto, un supposto danno per diffamazione a mezzo stampa), ma appunto la censurabilità o meno della condotta processuale della parte ricorrente alla luce dei principi che regolano il processo civile, non solo come strumento di accesso alla giustizia, tutelato dalla nostra Carta Costituzionale come diritto primario di ogni cittadino (art. 24 Cost.), ma altresì come meccanismo sociale di ricorso alla funzione di governo del diritto.

Così, in quest'ottica, il ricorso allo strumento della giurisdizione non sostenuto nemmeno da un criterio di praticabilità della scelta processuale, determina una prassi non compatibile, come detto, con il quadro ordinamentale che «da una parte, deve universalmente garantire l'accesso alla giustizia ed alla tutela dei diritti (cfr. art. 6 CEDU) e, dall'altra, deve tener conto del principio costituzionalizzato della ragionevole durata del processo (articolo 111 Cost.) e della necessità di creare strumenti dissuasivi rispetto ad azioni meramente dilatorie e defatigatorie».

In tale contesto dunque la Corte intende valorizzare la sanzionabilità dell'abuso dello strumento giudiziario (cfr. Cass. civ., n. 10177/2015), proprio al fine di evitare la dispersione delle risorse per la giurisdizione (cfr. Cass. civ., Sez. Un., n. 12310/2015) e consentire l'accesso alla tutela giudiziaria dei soggetti meritevoli e dei diritti violati, per il quale, nella giustizia civile, il primo filtro valutativo - rispetto alle azioni ed ai rimedi da promuovere - è affidato alla prudenza del ceto forense coniugata con il principio di responsabilità delle parti.

Le soluzioni giuridiche

Nell'affrontare il tema così inquadrato i giudici del Collegio rammentano di avere già recentemente riesaminato la questione relativa alla funzione sanzionatoria della condanna per lite temeraria prevista dall'art. 96 c.p.c., in relazione sia alla necessità di contenere il fenomeno dell'abuso del processo sia alla evoluzione della fattispecie dei "danni punitivi" che ha progressivamente fatto ingresso nel nostro ordinamento.

Al riguardo, è stato affermato che «la condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3, applicabile d'ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., commi 1 e 2, e con queste cumulabile, volta al contenimento dell'abuso dello strumento processuale».

La sua applicazione, pertanto, non richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di "abuso del processo", quale l'aver agito o resistito pretestuosamente (Cass. civ., n. 27623/2017) e cioè nell'evidenza di non poter vantare alcuna plausibile ragione.

La pronuncia odierna, come pure il precedente citato del 2017, si sono poi inseriti nel solco della nota sentenza resa dalle SSUU della suprema Corte che costituiscono oggi un fondamentale arresto volto a valorizzare la sanzione prevista dalla norma e secondo il quale «nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile, sicché non è ontologicamente incompatibile con l'ordinamento italiano l'istituto, di origine statunitense, dei "risarcimenti punitivi" (Cass. civ., Sez. Un., n. 16601/2017), nella motivazione della sentenza richiamata, tra cui l'art. 96 c.p.c., u.c. è stato inserito nell'elenco delle fattispecie rinvenibili, nel nostro sistema, con funzione di deterrenza.

Occorre, infatti, rammentare che il noto arresto nomofilattico del 2017 ha in buona sostanza riconosciuto nel nostro ordinamento l'istituto dei “danni punitivi” (tanto quelli originati da provvedimenti esteri, quanto, e a maggior ragione, quelli endogenerati dalla nostra giurisprudenza) a condizione che sussistano i seguenti tre imprescindibili requisiti:

1) Che vi sia una previsione normativa (nazionale o estera quale fonte chiara e riconoscibile in leggi e principi codificati) che costituisca ancoraggio del danno all'ordinamento al quale appartiene l'autorità giudiziaria che abbia emesso il provvedimento:

2) Che la fonte normativa (se estera) non contrasti con i principi dell'ordinamento italiano;

3) Che venga rispettato il principio della proporzionalità tra risarcimento compensatorio e punitivo e tra quest'ultimo e la condotta censurata.

Lo schema condizionale in tre fasi, come appena sintetizzato, sfocia nei seguenti passaggi essenziali di questo provvedimento così importante, che delineano il perimetro dell'indagine che il giudice è tenuto a compiere per riconoscere il risarcimento in parola, pur se emesso da una autorità giudiziaria estera.

A) «L'esame va portato sui presupposti che questa condanna deve avere per poter essere importata nel nostro ordinamento senza confliggere con i valori che presidiano la materia, valori riconducibili agli artt. da 23 a 25 della Costituzione».

B) «Così come si è detto che ogni prestazione patrimoniale di carattere sanzionatorio o deterrente non può essere imposta dal giudice italiano senza espressa previsione normativa, similmente dovrà essere richiesto per ogni pronuncia straniera».

C) «Ciò significa che nell'ordinamento straniero (non per forza in quello italiano, che deve solo verificare la compatibilità della pronuncia resa all'estero) deve esservi un ancoraggio normativo per una ipotesi dì condanna a risarcimenti punitivi».

D) «Il principio di legalità postula che una condanna straniera a "risarcimenti punitivi" provenga da fonte normativa riconoscibile, cioè che il giudice a quo abbia pronunciato sulla scorta di basi normative adeguate, che rispondano ai principi di tipicità e prevedibilità. Deve esservi insomma una legge, o simile fonte, che abbia regolato la materia "secondo principi e soluzioni" di quel paese, con effetti che risultino non contrastanti con l'ordinamento italiano. Ne discende che dovrà esservi precisa perimetrazione della fattispecie (tipicità) e puntualizzazione dei limiti quantitativi delle condanne irrogabili (prevedibilità)».

E) «Infine, il controllo delle Corti di appello deve essere volto a verificare la proporzionalità tra risarcimento riparatorio-compensativo e risarcimento punitivo e tra quest'ultimo e la condotta censurata, per rendere riconoscibile la natura della sanzione/punizione. La proporzionalità del risarcimento, in ogni sua articolazione, è, a prescindere da questo disposto normativo, uno dei cardini della materia della responsabilità civile».

Alla luce del pronunciamento in parola, dunque, si deve ritenere che lo schema operativo per il riconoscimento del danno punitivo nel nostro ordinamento (sia esso di fonte straniera o nazionale), non possa dunque essere mai equivocato in margini che lascino discrezionalità “creativa” o “sanzionatoria” al singolo giudice del caso specifico.

Si dovrà sempre, insomma, rispettare il canone della esistenza di una legge che legittimi l'inquadramento del danno che dovrà comunque avere una portata monetaria tale da essere prevedibile nella sua entità e proporzionata al danno civilistico generato dall'illecito.

Fonte di questo danno, dunque, ben potrà essere la norma contenuta nell'art. 96 del Codice di Procedura Civile che è riferibile ad un intendimento del legislatore di contenere il fenomeno dell'abuso del ricorso alla giurisdizione, con fini meramente speculativi o dilatori.

Detto di tale inquadramento ordinamentale del danno punitivo “italiano”, nel caso di cui si tratta la Corte ritiene di ribadire come «ai fini della condanna ex articolo 96 c.p.c., comma 3, può costituire abuso del diritto all'impugnazione la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente incoerenti con il contenuto della sentenza impugnata, o completamente privo di autosufficienza oppure contenente una mera complessiva richiesta di rivalutazione nel merito della controversia, oppure fondato sulla deduzione del vizio di cui all'articolo 360 c.p.c., n. 5, ove sia applicabile, ratione temporis, l'art. 348-ter c.p.c., u.c. che ne esclude la invocabilità».

In tali ipotesi, il ricorso per cassazione integra dunque un ingiustificato sviamento del sistema giurisdizionale, essendo non già finalizzato alla tutela dei diritti ed alla risposta alle istanze di giustizia, ma destinato soltanto ad aumentare il volume del contenzioso e, conseguentemente, ad ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti ed il corretto impiego delle risorse necessarie per il buon andamento della giurisdizione.

Osservazioni

Il diritto di accesso alla funzione giurisdizionale è, come noto, una facoltà tutelata dall'ordinamento, al punto da elevarlo a bene primario dell'individuo ed elevandolo a precetto costituzionale.

Ci piace nella pronuncia rinvenire l'eco dell'importante pronunciamento reso di recente dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 77 del 19 aprile 2018 - Pres. Lattanzi, est. Amoroso) chiamata a decidere sulla paventata illegittimità costituzionale della norma che nel nostro codice di procedura civile disciplina la regolamentazione delle spese legali alla fine di ogni processo.

In particolare, l'articolo 92 del codice di procedura civile (oggetto di censura parziale) al secondo comma limitava il potere del giudice di compensare le spese di lite (per effetto delle quali ogni parte è gravato dei propri costi di difesa) nelle sole ipotesi di “parziale soccombenza” e di “assoluta novità della questione trattata”, impedendola così in altre ipotesi ove pure la complessità della materia poteva (in passato) portare a questo provvedimento.

Impedendo l'applicazione dell'articolo a queste ultime pur incerte ipotesi, infatti, si gravava la parte soccombente di un eccessivo rischio nel processo sotto forma di doppio della difesa (quello proprio e quello dell'avversario).

Nell'accogliere la censura di illegittimità parziale della norma, la Corte rilevava che il giudice civile, in caso di soccombenza totale di una parte, può̀ compensare le spese di giudizio, parzialmente o per intero, non solo nelle ipotesi di “assoluta novità̀ della questione trattata” o di “mutamento della giurisprudenza rispetto a questioni dirimenti” ma anche quando sussistono “altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni”.

Il precedente testo del secondo comma dell'art. 92 c.p.c. era stato così voluto dalla legge del 2014 (n. 132) la quale, volendo introdurre misure urgenti per la definizione dell'arretrato in materia di processo civile, aveva fortemente delimitato nel modo riferito i casi in cui il giudice poteva compensare le spese, sul presupposto che il rischio di una soccombenza potesse costituire un freno al contenzioso civile, indotto appunto dalla paura della parte di subire le conseguenze sotto forma di costo ingente di difesa.

Limitando insomma i casi in cui il giudice può compensare le spese, di fatto non si consente al privato cittadino di rivolgersi al processo tutte le volte in cui abbia comunque una istanza di giustizia ma non la certezza della vittoria.

Per la Consulta, contrasta con il principio di ragionevolezza e con quello di eguaglianza, aver il legislatore del 2014 tenuto fuori dalle fattispecie nominate, che facoltizzano il giudice a compensare le spese di lite in caso di soccombenza totale, le analoghe ipotesi di sopravvenienze relative a questioni dirimenti e a quelle di assoluta incertezza, che presentino la stessa, o maggiore, gravità ed eccezionalità di quelle tipiche espressamente previste dalla disposizione censurata.

Il giudice insomma non deve essere troppo limitato nella scelta discrezionale della applicazione della norma, perché così facendo si limita il potere del magistrato di valutare il caso specifico ed il comportamento delle parti anche prima del contenzioso.

Perché questo richiamo in parallelo con la sentenza in commento?

Si legge nella sentenza n. 77/2018 che la rigidità di tale tassatività «ridonda anche in violazione del canone del giusto processo e del diritto alla tutela giurisdizionale perché la prospettiva della condanna al pagamento delle spese di lite anche in qualsiasi situazione del tutto imprevista ed imprevedibile per la parte che agisce o resiste in giudizio può costituire una remora ingiustificata a far valere i propri diritti».

Ci pare in effetti questo uno dei più alti richiami alla funzione centrale della giurisdizione al cui compimento sono chiamati molteplici attori (magistrati ed avvocati per primi) con una finalità che è inalienabile: offrire al cittadino uno strumento efficace e celere pe proteggerlo anche nel processo civile ogni qual volta lo stesso abbia la percezione di avere subito un torto.

La supposta crisi della giustizia e dei suoi tempi spesso biblici, insomma non si può combattere ostacolandone l'accesso al cittadino, facendo leva sul timore di essere esposto economicamente alla sanzione della doppia condanna alle spese.

Analogamente, anche l'uso illegittimo e defaticante della funzione giurisdizionale è parimenti distonico rispetto ai principi che regolano la funzione “giustizia” e la sanzione prevista dall'art. 96 c.p.c. costituisce dunque un similare ed efficace strumento di tutela dello stesso diritto dell'utente di accesso alla funzione.

Il diritto a ricorrere alla giurisdizione è un sacrosanto principio a tutela delle democrazie più moderne e nel nostro ordinamento è tutelato dall'art. 24 della nostra Carta Costituzionale per il quale «tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi» e «la difesa è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento».

Il processo deve essere, insomma, uno strumento (estremo certo) per l'utente del servizio giustizia per far valere un proprio interesse ritenuto violato, ma lo stesso diritto primario deve comunque essere accessibile a tutti ed idoneo a garantire in tempi brevi un esito, qualunque sia, certo e definitivo.

Non disallineata da questo principio e da quanto qui esposto, infine, è da ritenere il richiamo, contenuto sempre nella sentenza, al ruolo che l'avvocatura ha nell'esercizio del diritto di accesso alla giurisdizione. Il ruolo dell'avvocato è al tempo stesso strumento e propulsione essenziale della tutela dei diritti del cittadino, mentre il ricorso ad un esercizio ingiustificato sul piano giuridico o sostanziale dei meccanismi procedurali (come nel caso esaminato dalla Corte nella decisione in commento) può esporre lo stesso legale a profili di responsabilità professionale verso i propri assistiti.

Guida all'approfondimento

CESARE TRAPUZZANO, 23 Gennaio 2019, Responsabilità processuale aggravata e danno punitivo;

PAOLO MARIOTTI , RAFFAELLA CAMINITI, 23 Ottobre 2018 Responsabilità processuale aggravata e danno punitivo Natura della condanna ex art. 96, comma 3 c.p.c. e criteri di liquidazione proposti dall'Osservatorio sulla Giustizia Civile di Milano;

MARCO BONA, 6 Novembre 2017, Responsabilità processuale aggravata e danno punitivo – “Le Sezioni Unite n. 16601/2017: nessuna nuova prospettiva per i “punitive damages” interni”.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario