Profili di incostituzionalità della disciplina in tema di riqualificazione ai fini dell'imposta di registro

18 Novembre 2019

La Corte di Cassazione ha sempre seguito l'interpretazione, poi smentita dal Legislatore, secondo cui, al contrario di quanto oggi stabilito dall'attuale formulazione dell'art. 20 del d.P.R. n. 131/86, la qualificazione dell'atto secondo parametri di tipo sostanzialistico, e non nominalistico, comporta la necessaria considerazione anche di elementi esterni all'atto e, in particolare, anche di elementi desumibili da atti collegati con quello presentato alla registrazione. La Suprema Corte solleva dunque dubbi di legittimità costituzionale di una disposizione che vieti la qualificazione giuridica dell'atto (anche) in ragione di atti collegati, laddove tale tipo di interpretazione si porrebbe in contrasto con l'art. 53 e 3 della Costituzione.
Massima

La Corte di Cassazione ha sempre seguito l'interpretazione, poi smentita dal Legislatore, secondo cui, al contrario di quanto oggi stabilito dall'attuale formulazione dell'art. 20 del d.P.R. n. 131/86, la qualificazione dell'atto secondo parametri di tipo sostanzialistico, e non nominalistico, comporta la necessaria considerazione anche di elementi esterni all'atto e, in particolare, anche di elementi desumibili da atti collegati con quello presentato alla registrazione. La Suprema Corte solleva dunque dubbi di legittimità costituzionale di una disposizione che vieti la qualificazione giuridica dell'atto (anche) in ragione di atti collegati, laddove tale tipo di interpretazione si porrebbe in contrasto con l'art. 53 e 3 della Costituzione.

Secondo la Cassazione non appare coerente, sul piano costituzionale, che l'opera di emersione si debba arrestare alla disamina del solo atto presentato e per tale motivo ravvisa i presupposti per demandare al giudice delle leggi il vaglio di legittimità dell'art. 20 d.P.R. n. 131/1986, come da ultima versione di cui alla Legge di bilancio per il 2019.

Il caso

La Corte di Cassazione, con l'ordinanza n. 23549 del 23 settembre 2019 ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in rapporto agli art. 53 e 3 Cost, dell'articolo 20 del d.P.R. n. 131/1986, nella parte in cui dispone che, nell'applicare l'imposta di registro secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell'atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, si debbano prendere in considerazione unicamente gli elementi desumibili dall'atto stesso, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati.

Nel caso di specie, la società contribuente proponeva ricorso per la cassazione della sentenza con la quale la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, a conferma della decisione di primo grado, aveva ritenuto legittimo l'avviso di liquidazione per imposta proporzionale di registro, notificatole dall'Agenzia delle Entrate in esito a riqualificazione giuridica, ex art.20 del d.P.R. n. 131/1986, in termini di cessione di azienda, di una serie di operazioni di costituzione societaria, aumento di capitale, conferimento di rami d'azienda e cessione di quote di partecipazione.

La Commissione Tributaria Regionale aveva in particolare rilevato che:

  • la riqualificazione ex art. 20 cit. era legittima dal momento che, per quanto articolata mediante plurimi atti negoziali, l'operazione doveva ritenersi sostanzialmente unitaria, e con oggetto la cessione dei rami aziendali a favore della società, in veste di cessionaria finale delle quote;
  • non erano nella specie applicabili le tutele procedimentali di cui all'art. 37-bis del d.P.R. n. 600/1973, relativo alle sole imposte dirette;
  • la riqualificazione poteva anche prescindere dalla contestazione di abuso del diritto, posto che l'Amministrazione finanziaria si era limitata alla riqualificazione giuridica degli atti sottoposti a registrazione, assoggettandoli ad aliquota proporzionale e prendendo a riferimento la stessa base imponibile (non rettificata) indicata dalle parti.

La società ricorrente aveva poi depositato memoria, con la quale invocava lo jus superveniens, costituito sia dall'art. 1, co. 87, L. 205/2017 (Legge di bilancio 2018) e dall'art. 1, co. 1084, L. n. 145/2018 (Legge di bilancio 2019) ed aveva inoltre allegato risposta ad interpello, con la quale la stessa Agenzia delle Entrate, in fattispecie similare, sembrava orientata ad escludere la rilevanza ex art. 20 d.P.R. n. 131/1986 (nella formulazione risultante dal suddetto jus superveniens) di atti collegati ed elementi extratestuali.

Nell'impugnare la sentenza, con il primo motivodi ricorso, per quanto qui di interesse, la società lamentava quindi violazione e falsa applicazione dell'art. 20 del d.P.R. n. 131/1986, consentendo, a suo avviso, questa norma all'Amministrazione finanziaria di riqualificare il solo atto presentato alla registrazione, e non anche gli atti a questo esterni, e a questo asseritamente collegati.

Inoltre, secondo la ricorrente, l'ordinamento tributario escludeva espressamente (art. 176, co. 3, d.P.R. n. 917/1986) che operazioni quali quella in esame potessero concretare abuso del diritto.

Nella specie, evidenziava ancora la ricorrente, si trattava di operazione rispondente a reali esigenze di riorganizzazione aziendale, attraverso atti che si mantenevano soggettivamente, oggettivamente e finalisticamente distinti ed autonomi.

E, del resto, la riqualificazione ex art. 20 muoveva testualmente dalla considerazione dei soli effetti 'giuridici' dell'atto, e non anche di quelli 'economici', invece presi in esame dall'Amministrazione finanziaria nell'avviso opposto.

Infine, la società contestava anche la circostanza che l'Amministrazione finanziaria non avesse osservato le garanzie procedimentali di cui all'art. 37-bis, co. 4 e 5, d.P.R. n. 600/1973.

La questione

Il dato normativo di partenza, sul quale si era basato l'avviso di liquidazione opposto, era costituito dal previgente art. 20 d.P.R. n. 131/1986, secondo cui “l'imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente".

La già citata legge di bilancio per l'anno 2018 (art. 1, comma 87, lett. a), L. n. 205/2017) è intervenuta su questa norma, la quale trova oggi una più circoscritta definizione, affermandosi che "L'imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell'atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall'atto medesimo, prescindendo da quelli extra testuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi".

Fermo restando il principio basilare di prevalenza della sostanza sulla forma, l'intervento legislativo in questione ha dunque significativamente ristretto l'oggetto dell'interpretazione negoziale al solo atto presentato alla registrazione, ed agli elementi da quest'ultimo desumibili, non rilevando quindi più, come espressamente indicato, gli elementi evincibili da atti eventualmente ad esso collegati, così come quelli riferibili ad indici esterni o fonti extratestuali.

Quanto all'efficacia temporale di quest'ultima disposizione (se applicabile solo per il futuro, ovvero anche agli atti registrati prima della sua entrata in vigore ed ancora in corso di accertamento, o sub judice), la corte di legittimità aveva però maturato, nel corso del 2018, un chiaro orientamento, secondo cui: "in tema di imposta di registro, l'art. 1, comma 87, lett. a), della L. n. 205/2017, modificativo dell'art. 20 del d.P.R. n. 131/1986, con effetto dal 10 gennaio 2018, non ha natura interpretativa, ma innovativa, in quanto introduce limiti all'attività di riqualificazione della fattispecie precedentemente non previsti: ne deriva che tale disposizione non ha efficacia retroattiva e, pertanto, gli atti antecedenti alla data della entrata in vigore della stessa continuano ad essere assoggettati all'imposta secondo la disciplina contemplata dal detto art. 20 del d.P.R. n. 131/1986 nella previgente formulazione" (Cass. Civ., n. 2007/2018; così Cass. Civ. nn. 4407/2018; 5748/18; 7637/18; 8619/18; 13610/18 ed altre).

“Contro” tale indirizzo è poi tuttavia ancora intervenuto il legislatore, il quale con la Legge di bilancio per l'anno 2019, ha stabilito (art. 1, co. 1084, L. n. 145/2018) che: "L'art. 1, comma 87, lettera a), della Legge 27 dicembre 2017, n.205, costituisce interpretazione autentica dell'articolo 20, comma 1, del testo unico di cui al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131".

Con tale disposizione il Legislatore ha dunque palesato la volontà di attribuire portata retroattiva alla formulazione dell'art. 20 risultante dalla L. bilancio 2018, quale effetto normalmente riconducibile ad una norma di interpretazione autentica.

Secondo la Suprema Corte, però, tale nuova e più ristretta formulazione dell'art. 20 d.P.R. n. 131/1986 pone “una rilevante e non manifestamente infondata questione di legittimità costituzionale”, sussistendo consistenti dubbi di incompatibilità con quanto prescritto dagli artt. 53 e 3 Cost..

Le soluzioni giuridiche

La Corte ripercorre del resto l'orientamento che aveva portato alla diversa interpretazione poi invece smentita dal Legislatore, rilevando l'importanza del concetto di prevalenza della sostanza sulla forma, laddove, all'esatto contrario di quanto oggi stabilito dall'attuale formulazione dell'art. 20, la qualificazione dell'atto secondo parametri di tipo sostanzialistico, e non nominalistico o di apparenza, comportava la necessaria considerazione anche di elementi esterni all'atto e, in particolare, anche di elementi desumibili da atti eventualmente collegati con quello presentato alla registrazione.

L'orientamento di legittimità viene dunque evidenziato nei suoi passaggi essenziali, che possono così ricapitolarsi:

  • la natura di imposta d'atto, propria dell'imposta di registro, non osta alla valorizzazione complessiva di elementi interpretativi esterni e di collegamento negoziale, dal momento che l'atto presentato alla registrazione non si identifica con il sostrato materiale o cartaceo che lo contiene e veicola ('atto-documento'), bensì con l'insieme delle previsioni negoziali preordinate, anche mediante collegamento e convergenza finalistica, al perseguimento di una programmata regolazione unitaria degli effetti giuridici derivanti dai vari negozi collegati ('atto-negozio');
  • il recupero di elementi negoziali esterni e collegati all'atto presentato alla registrazione risponde all'esigenza di evidenziare, appunto in attuazione della regola per cui la sostanza vince sulla forma, la causa reale di tale atto, assunta quale criterio ispiratore di un'attività (quella di qualificazione negoziale volta all'emersione della materia imponibile) che, per sua natura, non può essere lasciata alla discrezionalità delle parti contribuenti, né a quello che le parti abbiano dichiarato (sulla "indisponibilità della qualificazione contrattuale ai fini fiscali": Cass. Civ., n. 2009/18);
  • un simile processo di riqualificazione è reso possibile, e normale, dal richiamo a scopo qualificatorio degli istituti civilistici generali, già da tempo enucleati dalla dottrina e dalla giurisprudenza, della causa concreta del contratto (focalizzata fin da Cass. Civ., n. 10490/06) e del collegamento negoziale, definibile nella risultante di un elemento oggettivo di connessione e di un elemento soggettivo di perseguimento di un 'fine ulteriore' rispetto a quello raggiungibile dai singoli negozi isolatamente considerati (tra le molte, Cass. Civ., n. 11914/10; Cass. Civ., nn. 7255/13; 19161/14; 20726/14; 10722/17; 22216/18 cit.).

Tanto premesso, conclude la Corte, i dubbi di legittimità costituzionale di una disposizione che vieta la qualificazione giuridica dell'atto (anche) in ragione di atti collegati trovano radice, giustificazione e logica conseguenzialità proprio nell'orientamento di legittimità sopra riassunto, il quale, da un lato, ha escluso qualsiasi menomazione ed incidenza, ex art. 41 Cost., sulla libera iniziativa economica e sull'autonomia negoziale delle parti, posto che la riqualificazione del contratto lascia comunque intatta la validità e l'efficacia del contratto stesso e dello schema negoziale liberamente prescelto dalle parti, risolvendosi unicamente nell'applicazione della disciplina impositiva più appropriata, secondo un criterio di tassatività e predeterminazione impositiva aderente all'art.23 Cost.; e che, dall'altro, ha paventato che proprio una opposta lettura dell'articolo 20 (cioè nel senso poi adottato dal legislatore del 2018) si sarebbe posta in disaccordo con l'art. 53 Cost. (cosicché l'interpretazione dominante nella giurisprudenza di legittimità risultava non solo consentita, ma addirittura imposta dal criterio generale dell'interpretazione costituzionalmente conforme).

E questo anche considerato che quella di registro - da tempo - non è più (se non in minima parte) una semplice tassa con funzione corrispettiva del servizio di registrazione, conservazione ed attribuzione di data certa all'atto presentato, avendo invece assunto i connotati di una vera e propria imposta, che trova nell'atto stesso il presupposto rivelatore di una determinata 'forza economica' e, per tale via, un tipico indice di capacità contributiva (tra le altre, Cass. Civ., nn. 2713/02, 14150/13 e, più recentemente, Cass. Civ., nn. 362/19 e 1962/19).

E ciò iscrive a pieno titolo l'imposta di registro nell'ambito dei principi impositivi di matrice costituzionale e, segnatamente, nella previsione di cui all'art. 53 Cost..

E, una volta ribadita questa esigenza, secondo la Cassazione, non appare allora coerente - proprio sul piano costituzionale - che l'opera di emersione si debba per forza arrestare alla disamina del solo atto presentato, esclusa ogni considerazione di quegli (eventuali) elementi meta-testuali e di collegamento negoziale, attraverso i quali può invece aversi (ed in certi casi, soltanto si ha) piena contezza e ricostruzione della forza economica e della capacità contributiva espresse dall'operazione.

È vero, sottolinea ancora la Cassazione che la Corte Costituzionale (C. Cost. n. 156/2001, sull'Irap) ha affermato che "è costante nella giurisprudenza di questa Corte l'affermazione secondo la quale rientra nella discrezionalità de/legislatore, con il solo limite della non arbitrarietà, la determinazione dei singoli fatti espressivi della capacità contributiva che, quale idoneità del soggetto all'obbligazione di imposta, può essere desunta da qualsiasi indice che sia rivelatore di ricchezza e non solamente dal reddito individuale: sentenze n. 111/1997, n. 21/1996, n. 143/1995, n. 159/1985)"; e che la stessa Consulta (C. Cost. n. 249/2017, in tema di revisione catastale) ha evidenziato che "la capacità contributiva, desumibile dal presupposto economico al quale l'imposta è collegata, può essere ricavata, in linea di principio, da qualsiasi indice rivelatore di ricchezza, secondo valutazioni riservate al legislatore, salvo il controllo di costituzionalità, sotto il profilo della palese arbitrarietà e manifesta irragionevolezza (sentenza n. 162/2008)".

Etuttavia, nel caso di specie, conclude la Corte, il dubbio verte proprio sul corretto esercizio della discrezionalità legislativa e sulla corretta applicazione del principio per cui le scelte del legislatore tributario non devono risultare irragionevoli o ingiustificate; doveroso essendo il controllo sull'uso ragionevole, o meno, che il legislatore abbia fatto dei suoi poteri discrezionali, al fine di verificare "la coerenza interna della struttura dell'imposta con il suo presupposto economico (...)" (C. Cost. nn. 111/1997 cit.; 223/12; 116/13, riprese anche da 10/2015).

Tornando all'art. 20, l'esenzione del collegamento negoziale dall'opera di qualificazione giuridica dell'atto produceva, secondo la stessa Corte, l'effetto pratico di sottrarre ad imposizione una tipica manifestazione di capacità contributiva.

E, oltre che sul piano della effettività dell'imposizione, tutto ciò provoca ripercussioni anche sul principio di uguaglianza, dal momento che, a pari manifestazioni di forza economica (e quindi di capacità contributiva), non possono corrispondere imposizioni di diversa entità, a seconda, per esempio, che si tassi la cessione unitaria di azienda, ovvero i vari atti di dismissione dei singoli cespiti strumentali che la compongono; ovvero ancora, per restare alla fattispecie oggetto del giudizio, che si tassi l'acquisizione dell'azienda a seconda che ad essa si pervenga attraverso una cessione diretta invece che mediante l'articolazione di un conferimento societario e di una successiva cessione di quote.

Altrimenti detto, le manifestazioni di forza economica (e quindi di capacità contributiva) non sembrano razionalmente differenziabili a seconda che le parti abbiano stabilito di realizzare il proprio assetto di interessi con un solo atto negoziale, piuttosto che con più atti collegati.

Né infine, in senso opposto, rileva sempre la Corte, milita l'applicabilità della disciplina sull'abuso del diritto, di cui all'art. 10-bis della L. n. 212/2000.

L'indirizzo più recente di legittimità ha infatti concluso nel senso della indifferenza dell'articolo 20 rispetto all'abuso del diritto ed all'elusione fiscale, dato che il fatto che la norma in questione attribuisca preminente rilievo alla 'intrinseca natura' ed agli 'effetti giuridici' dell'atto, rispetto al suo 'titolo' ed alla sua 'forma apparente', non presuppone necessariamente che l'operazione oggetto di riqualificazione abbia carattere elusivo, men che meno evasivo o fraudolento (tra le altre: Cass.nn.18454/16; 25487/15; 24594/15); con la conseguenza che "non grava sull'Amministrazione l'onere di provare i presupposti dell'abuso del diritto, atteso che i termini giuridici della questione sono già tutti desumibili dal criterio ermeneutico di cui all'articolo 20" (Cass. n. 3481/14).

Nè l'art.20 ha a che fare "con l'istituto della simulazione, atteso che la riqualificazione in parola avviene anche se le parti hanno realmente voluto quel negozio o quel dato collegamento negoziale, e ciò perchè quello che conta sono gli effetti oggettivamente prodottisi" (Cass. Civ., ord. n. 5748/2018).

In sostanza, anche l'introduzione della norma antiabuso non esclude che il collegamento negoziale continui purtuttavia a rilevare, ex art. 20 d.P.R. n. 131/86, anche al di fuori del contesto elusivo, e dunque anche quando esso emerga sul piano obiettivo della mera qualificazione giuridica e come opzione negoziale effettivamente rispondente ad esigenze pratiche sostanziali, nel senso di non deviate, né strumentali, né unicamente orientate al risparmio d'imposta.

Per tutti tali motivi, la Corte di Cassazione ha quindi ravvisato tutti i presupposti per demandare al giudice delle leggi il vaglio di legittimità dell'art. 20 d.P.R. n. 131/1986, in rapporto agli art. 53 e 3 Cost.

Osservazioni

La legge di Bilancio 2019, come visto, ha stabilito la natura interpretativa autentica e dunque retroattiva delle modifiche già apportate dalla Legge di Bilancio 2018 all'art. 20 del Dpr 131/86, in tema di riqualificazione ai fini imposta di registro.

L'art. 20 del d.P.R. n. 131/1986, come modificato dall'art.1, comma 87, lett. a), della Legge 27 dicembre 2017, n. 205, prevede infatti che "L'imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell'atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall'atto medesimo, prescindendo da quelli extra testuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi", mentre il vecchio testo stabiliva che "L'imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente".

La Corte di Cassazione (vedi Sentenza n. 4589 del 28/02/2018) non ha mai condiviso però la tesi della retroattività della norma di cui alla legge di bilancio appena citata, in quanto gli artt. 10 e 11 delle disposizioni sulla legge in generale prevedono che una norma non ha effetto retroattivo, salvo contraria espressa disposizione (Corte cost. 193/2017; nello stesso senso Corte Cost. n. 257/2017; Cass. Civ., 6 ottobre 2017, n. 23424; Cass. 30 maggio 2017, 13597), assente nel caso di specie.

La Corte Costituzionale, evidenziava ancora la Cassazione, si è del resto ripetutamente espressa nel senso che «va riconosciuto carattere interpretativo alle norme che hanno il fine obiettivo di chiarire il senso di norme preesistenti, ovvero di escludere o di enucleare uno dei sensi fra quelli ritenuti ragionevolmente riconducibili alla norma interpretata, allo scopo di imporre a chi è tenuto ad applicare la disposizione considerata un determinato significato normativo» (sentenze n. 132 del 2016 e n. 424 del 1993) ed ha altresì affermato che «il legislatore può adottare norme di interpretazione autentica non soltanto in presenza di incertezze sull'applicazione di una disposizione o di contrasti giurisprudenziali, ma anche quando la scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, così rendendo vincolante un significato ascrivibile ad una norma anteriore» (ex plurimis: sentenze n. 232 del 2016, n. 314 del 2013, n. 15 del 2012, n. 271 del 2011).

Tuttavia, rilevavano i giudici di legittimità, la Consulta ha anche più volte affermato che il divieto di retroattività della legge, pur non essendo stato elevato a dignità costituzionale (salvo la previsione dell'art. 25 Cost. per la materia penale), costituisce fondamentale valore di civiltà giuridica, per cui, allorquando «una norma di natura interpretativa persegua lo scopo di chiarire situazioni di oggettiva incertezza del dato normativo in ragione di un dibattito giurisprudenziale irrisolto o di ristabilire un'interpretazione più aderente all'originaria volontà del legislatore», non è precluso al legislatore di emanare norme retroattive (sentenza n. 232/2016; n. 150/2015), che però, oltre a dover espressamente contenere come detto tale previsione di retroattività, devono altresì, al fine di superare indenni il vaglio di costituzionalità, trovare adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza ed essere sostenute da adeguati motivi di interesse generale (ex multis, sentenze n. 232/2016, n. 69/2014 e n. 264/2012).

Pertanto, evidenziava la Suprema Corte, anche a voler prescindere, da un lato, dall'assenza di un'espressa menzione della retroattività del nuovo art. 20 nel corpo della legge e, dall'altro, da un'indagine circa la ragionevolezza della norma, non si riscontravano in tali fattispecie quegli «adeguati motivi di interesse generale» richiamati dalla Consulta, ritenuti necessari per sostenere la retroattività della norma.

Né, sottolinea la Corte, poteva dirsi che il nuovo testo fosse portatore di «un'interpretazione più aderente all'originaria volontà del legislatore», né che perseguisse lo scopo di superare un «dibattito giurisprudenziale irrisolto».

A sposare la linea della Cassazione era stata del resto anche una risposta ad interrogazione parlamentare (n. 5-0064), che, il 28 novembre 2018, aveva confermato la irretroattività delle modifiche fatte con la precedente Legge di Bilancio, laddove, però, a ben vedere, la relazione illustrativa alla Legge n. 205/2017 assegnava alla disposizione concernente l'imposta di registro proprio il compito di "chiarire" il criterio di individuazione della natura e degli effetti che dovevano essere presi in considerazione ai fini della registrazione, facendo quindi propendere per la natura interpretativa (e non innovativa) della norma, con dunque effetti retroattivi.

In un tale (intricato) contesto era infine intervenuta, al fine di chiarire ogni dubbio, la legge di Bilancio 2019 (art.1, co. 1084), la quale, come detto, superando l'orientamento della Suprema Corte, ha stabilito la natura interpretativa autentica e dunque retroattiva delle modifiche già apportate dalla Legge di Bilancio 2018.

Al di là di quale sarà l'esito del giudizio costituzionale, quello che è evidente è un contrasto apparentemente insanabile tra due poteri (legislativo e giudiziario), che, a prescindere dal caso specifico, deve far suonare una campanella di allarme sullo stato di salute del nostro Ordinamento.

Contrasto che, come viene evidenziato anche nella sentenza in commento, era anche interno alla stessa Cassazione, anche sotto il profilo della “natura” antielusiva o meno della disposizione di cui all'art. 20, d.P.R. n. 131/1986, laddove l'orientamento poi dominante aveva concluso nel senso di ritenere che non fosse disposizione predisposta al recupero di imposte "eluse", anche perché l'istituto dell'abuso del diritto, ora disciplinato dall'art. 10-bis L. n. 212/2000, presuppone una mancanza di "causa economica", che non è viceversa prevista per l'applicazione dell'art. 20 citato.

In conclusione, sul tema in oggetto siamo ormai abituati ad un “balletto” giurisprudenziale (e normativo), che, grazie all'intervento della Consulta, sarebbe bene trovasse ora definitiva soluzione.

Anche perché il susseguirsi di opposti orientamenti non giova certo alla certezza del diritto (e alla serenità del contribuente).


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