Causalità da perdita di chance ed anticipazione della morte: il decalogo riassuntivo della Cassazione del “San Martino II”

07 Gennaio 2020

La sussistenza di una privazione di chance di sopravvivenza, quale evento di danno distinto dalla prospettiva dell'anticipazione dell'evento fatale (ossia della riduzione della durata della sua vita), può essere fondatamente esclusa, qualora la possibilità per il paziente di sopravvivere alla situazione ingravescente risulti talmente labile e teorica da non poter essere determinata neppure in termini statistici e scientifici probabilistici..
Massima

La sussistenza di una privazione di chance di sopravvivenza, quale evento di danno distinto dalla prospettiva dell'anticipazione dell'evento fatale (ossia della riduzione della durata della sua vita), può essere fondatamente esclusa, qualora la possibilità per il paziente di sopravvivere alla situazione ingravescente risulti talmente labile e teorica da non poter essere determinata neppure in termini statistici e scientifici probabilistici e, ancor meno, equitativamente quantificata, fermo restando che il valore statistico/percentuale – se in concreto accertabile – può costituire al più un criterio orientativo, in considerazione della infungibile specificità del caso concreto, onde distinguere la concreta possibilità dalla mera speranza.

Il caso

La sentenza qui succintamente in commento rientra nel “pacchetto” delle dieci pronunce della Sezione III della Suprema corte dell'11 novembre 2019 (da n. 28985 a n. 28994), presentate quale insieme nell'intento di fornire una panoramica sui principali punti di approdo nel campo della tutela risarcitoria con particolare riguardo alla r.c. da attività medico-sanitarie.

La vicenda approdata in Cassazione nel precedente n. 28993/2019 trova le sue origini nel decesso di una paziente presso un'azienda ospedaliera milanese a seguito dell'intervento chirurgico elettivo di asportazione di un tumore benigno. A questa tragedia era seguita azione risarcitoria dei congiunti al contempo anche eredi della sventurata. Sia il Tribunale che la Corte di Appello di Milano avevano rigettato le pretese risarcitorie, ciò essenzialmente per ragioni relative alla sussistenza del nesso di causalità materiale tra l'intervento di timectomia e la lesione aortica produttiva della morte della donna, sia sotto il profilo della “causalità ordinaria” che della “causalità da perdita di chance”.

La questione

La Cassazione, per quanto qui d'interesse, era stata chiamata dai ricorrenti ad affrontare le seguenti tre prospettive di censura: - il diniego - in contrasto per i danneggiati in questione con i principi in tema di inversione dell'onere della prova, con il criterio di vicinanza della prova e con il modello del “più probabile che non” - del nesso di causalità tra l'intervento di timectomia e la fatale lesione aortica o, in alternativa, della relazione causale tra il tardivo/inadeguato reintervento ed il decesso (primi due motivi di ricorso); - l'esclusione del nesso di causa tra, da un lato, l'inadempimento sanitario da tardivo ed inadeguato reintervento e, dall'altro lato, la perdita delle chance di sopravvivenza (terzo motivo).

In particolare, in merito a quest'ultimo profilo la sentenza impugnata era stata censurata, laddove, così escludendo che vi fosse evento pregiudizievole risarcibile pure in termini di perdita di chance (nel caso di specie rappresentato, da parte dei ricorrenti, nella possibilità di allungamento della vita della paziente per diversi anni - circa dieci - in discrete condizioni di salute), aveva affermato che, anche se il secondo intervento operatorio fosse iniziato prima di quanto poi occorso (all'incirca due ore prima), le possibilità di sopravvivenza, come rilevato dai consulenti tecnici di ufficio, sarebbero state sostanzialmente non apprezzabili in termini statistici e scientifici.

Le soluzioni giuridiche

I primi due motivi di ricorso, aventi per oggetto profili di causalità materiale “ordinaria”, sono stati ritenuti in parte inammissibili (in quanto protesi a sollecitare una rivalutazione del fatto preclusa alla stregua della vigente formulazione dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, c.p.c.), in parte infondati dal momento che la sentenza d'appello, con motivazione valutata dalla Cassazione logica e coerente, aveva escluso che vi fosse nesso causale tra la condotta dei sanitari ed il decesso; a questo fine i giudici territoriali avevano addotto come non potesse ritenersi individuabile un nesso tra l'operazione di timectomia, con necessaria “cruentazione del distretto” e la lesione aortica, viceversa potendo questa individuarsi quale lesione di origine ignota comunque non accertabile, il cui accadimento rappresentava una “complicanza” dell'intervento del tutto rara ed inusuale.

Così superata la questione dell'insussistenza del nesso di “causalità ordinaria”, la Suprema corte ha poi concentrato tutta la sua attenzione sullo scenario della “causalità da perdita di chance terapeutiche” e, più specificatamente, sulle possibilità di sopravvivenza della paziente nel caso in cui fosse stata tempestivamente diagnosticata l'emorragia interna in atto e, quindi, fosse stata disposta per tempo una nuova operazione, dunque venendo in rilievo, in termini di responsabilità, la vigilanza del personale medico sul decorso postoperatorio (dopo la prima operazione di timectomia) e la tardività il secondo intervento operatorio, effettuato dopo che la paziente era uscita dalla sala operatoria, con prognosi sostanzialmente favorevole, ed era stata riportata in corsia.

Nell'affrontare tale questione la Cassazione, con l'evidente scopo di fissare un tassello certamente fondamentale nel mosaico della responsabilità civile di cui al “pacchetto” delle dieci sentenze del “San Martino”, ha operato una ricca sintesi dei suoi approdi sulla prospettiva causale della perdita di chance.

In particolare, riassumendo attraverso ben 23 punti tutte le tappe precedenti ed i ragionamenti tipici di questa doctrine, la sentenza in commento ha delineato i seguenti cardini di questa fattispecie a matrice giurisprudenziale e dottrinale:

  • la chance da perdita della possibilità di conseguire un risultato migliore sul piano della salute o della sopravvivenza - fattispecie diversa dalla perdita di chance concepita quale danno-conseguenza alternativamente emergente o da lucro cessante - rileva non già come regola causale, bensì alla stregua di un evento di danno;
  • questa specifica chance, in particolare, si sostanzia «nell'incertezza del risultato, la cui “perdita”, ossia l'evento di danno, è il precipitato di una chimica di insuperabile incertezza, predicabile alla luce delle conoscenze scientifiche e delle metodologie di cura del tempo rapportate alle condizioni soggettive del danneggiato»;
  • tale incertezza del risultato incide non già, in termini qualitativi, sull'accertamento del nesso causale, ma sulla qualificazione/identificazione della sfera del danno risarcibile, costituendo, dunque, la chance in questione «un diminutivo astratto dell'illecito, inteso come sinonimo di possibilità priva di misura (ma non di contenuto), da risarcirsi equitativamente, e non necessariamente quale frazione eventualmente percentualistica del danno finale»;
  • pertanto, accertamento dell'elemento causale (ossia della relazione probabilistica tra fatti destinata a sfociare in un giudizio di accertamento sul piano processuale, ossia, più nello specifico, secondo il criterio della “preponderance of evidence”) ed accertamento di un siffatto evento di danno costituiscono verifiche nettamente distinte, con la conseguenza che i concetti di probabilità causale e di possibilità (e cioè di incertezza eventistica) del risultato realizzabile non vengono in nessun modo a sovrapporsi, elidersi o fondersi insieme («la dimostrazione di una apprezzabile possibilità di giungere al risultato migliore sul piano dell'evento di danno non equivale […] alla prova della probabilità che la condotta dell'agente abbia cagionato il danno da perdita di chance sul piano causale»; «viene in tal guisa scongiurato il rischio di confondere il grado di incertezza della chance perduta con il grado di incertezza sul nesso causale»);
  • per integrare gli estremi dell'evento dannoso risarcibile, il valore statistico/percentuale – se in concreto accertabile – può costituire al più un «criterio orientativo», in considerazione della infungibile specificità del caso concreto, onde distinguere la concreta possibilità dalla mera speranza;
  • questa prospettiva configura un autonomo petitum processuale, che può rilevare anche con riguardo al diritto all'autodeterminazioneinteso anche in termini di possibilità di “battersi” consapevolmente per un possibile esito più favorevole dell'evolversi della malattia») e, nei casi di privazione di chance di sopravvivenza, può essere fatta valere dai congiunti della vittima iure hereditario (danno da perdita di chance di sopravvivenza) o iure proprio (perdita di chance di godere del rapporto parentale);
  • questi ultimi scenari si distinguono dal danno da perdita anticipata del rapporto parentale, che, invece, rileva laddove sia «dimostrabile, sul piano eventistico, che la condotta illecita abbia cagionato l'anticipazione dell'evento fatale» (ossia «una significativa riduzione della durata della sua vita ed una peggiore qualità della stessa per tutta la sua minor durata»); in questa seconda fattispecie, infatti, l'evento di danno è costituito non già da una possibilità (sinonimo di incertezza del risultato sperato), bensì dal mancato risultato stesso, giacché l'evento in questione è «caratterizzato non dalla “possibilità di un risultato migliore”, bensì dalla certezza (o rilevante probabilità) di aver vissuto meno a lungo, patendo maggiori sofferenze fisiche e spirituali»;
  • rispetto a quest'ultima fattispecie può aversi anche il caso in cui la condotta colpevole del sanitario non ha avuto alcuna incidenza causale sullo sviluppo della malattia, sulla sua durata e sull'esito finale, ma rileva in pejus sulla sola (e diversa) qualità ed organizzazione della vita del paziente (anche sotto l'aspetto del mancato ricorso a cure palliative), in questa ipotesi l'evento di danno risarcibile risultando rappresentato da tale «(diversa e peggiore) qualità della vita (intesa altresì nel senso di mancata predisposizione e organizzazione materiale e spirituale del proprio tempo residuo), conseguente alla lesione del diritto di autodeterminazione».

Ribaditi così i principi cardine della doctrine della “causalità da perdita di chance”, la Cassazione ha avallato la sentenza impugnata, ritenendola coerente e logica nell'avere escluso la sussistenza di una privazione di chance a fronte di quanto delineato dalla CTU espletata in primo grado, la quale aveva concluso per la sussistenza di una possibilità di sopravvivenza della paziente «assolutamente generica ed ipotetica anche in considerazione dell'elevata mortalità di eventi astrattamente confrontabili con quello in esame» (peraltro, con una percentuale di mortalità del 15-20% in reparti ad altissima specializzazione). In particolare, per la Cassazione correttamente la Corte territoriale aveva ritenuto l'insussistenza di un qualsivoglia «margine di apprezzabilità» della possibilità per la paziente di sopravvivere alla situazione ingravescente: infatti, la possibilità che questa riuscisse a restare in vita anche se fosse stata curata con assistenza di specialisti diversi e differenti apparecchiature, tenuto pure conto delle sue condizioni generali assolutamente scadute ben prima che si verificassero i ritardi terapeutici, e dei rischi del trasferimento presso altra struttura sanitaria con procedura d'urgenza (con concreto pericolo di arresto cardiaco) era risultata «talmente labile e teorica da non poter essere determinata neppure in termini statistici e scientifici probabilistici e ancor meno, equitativamente quantificata».

Osservazioni

La sentenza in commento fotografa nitidamente lo stato dell'arte del modello teorico della “causalità da perdita di chance” (su cui G. Travaglino, La questione dei nessi di causa, Milanofiori Assago, 2012, e da ultimo M. Bona, Il nesso causale da perdita di chance, Milano, 2018), inserendosi così in un solco giurisprudenziale ormai solidissimo in seno alla Suprema corte e completo in tutti i suoi tasselli fondamentali.

Tra le prime pronunce di legittimità in questa direzione si era posta la sentenza Cass. civ., sez. III, 4 marzo 2004, n. 4400, la quale, seguita da altre importanti pronunce (Cass. civ., sez. III, 21 giugno 2004, n. 11488 e Cass. civ., sez. III, 16 ottobre 2007, n. 21619), aveva giustappunto delineato l'autonoma prospettiva della “causalità da perdita di chance”, poi richiamata, in senso adesivo, dalle Sezioni Unite civili nei precedenti dell'11 gennaio 2008, nn. 581, 582 e 584 e sensibilmente affinata ancora negli anni successivi (cfr. Cass. civ., sez. III, 21 luglio 2011, n. 15991, Cass. civ., sez. III, 29 novembre 2012, n. 21245, Cass. civ., sez. III, 17 settembre 2013, n. 21255 e Cass. civ., sez. III, 27 marzo 2014, n. 7195; Cass. civ., sez. III, ord. 15 febbraio 2018, n. 3691; Cass. civ., sez. III, 9 marzo 2018, n. 5641).

Ciò rilevato, la pronuncia in disamina, dunque, non reca particolari elementi di novità a livello di doctrine della perdita di chance, pur essendo apprezzabile per la rassegna operata.

Neppure può affermarsi che la stessa, escludendo la risarcibilità di privazioni di chance così labili e teoriche da non poter essere determinate neanche in termini statistici e scientifici probabilistici e ancor meno, equitativamente quantificate, segni una svolta in senso restrittivo di questa prospettiva risarcitoria. Infatti, la «necessaria dimensione di apprezzabilità, serietà, consistenza» (così Cass. civ., sez. III, 9 marzo 2018, n. 5641) delle chance sottratte ha sempre contraddistinto la doctrine in questione.

Va solo precisato come sì la Suprema corte, in seno al precedente qui in commento, si sia richiamata alla rilevanza dei valori statistici e scientifici probabilistici, ma al contempo abbia ribadito come il valore statistico/percentuale – se in concreto accertabile – possa costituire al più un «criterio orientativo», non potendosi prescindere dalla infungibile specificità del caso concreto.

Deve pure rilevarsi, onde scongiurare malintesi, come i precedenti richiamati dalla sentenza in commento abbiano già chiarito che non ha senso alcuno escludere la risarcibilità di chance minori del 50%, ovviamente posto che la loro occorrenza nel caso concreto sia “più probabile che non”. Come spiegato dalla Suprema corte (Cass. civ., sez. III, 27 marzo 2014, n. 7195), nella fase della causalità (materiale) da perdita di chance «il nesso causale della perdita di tale possibilità con la condotta riferita al responsabile» va indagato «in termini probabilistici» («con applicazione della detta regola c.d. del “più probabile che non”»), «prescindendo dalla maggiore o minore idoneità della chance a realizzare il risultato sperato». La misura delle chance andate perse riguarda, invece, la successiva determinazione dei singoli danni risarcibili, il che trova conferma anche nel quadro tratteggiato dalla decisione n. 28993/2019.

Forse l'unico punto “debole” o, comunque, discutibile della sentenza è laddove questa, dilungandosi sulla distinzione tra “chance patrimoniale” e “chance non patrimoniale da responsabilità sanitaria”, sostiene che la prima si associ ad una «preesistenza positiva» mentre la seconda ad una «preesistenza negativa».

Infatti, nella realtà fenomenologica le chance, a prescindere dal fatto che concernano beni patrimoniali o non patrimoniali, si reggono sempre su delle preesistenze positive del soggetto danneggiato: una persona affetta da una patologia può affermarsi privata, per effetto di una sequela di eventi imputabile a prestazioni sanitarie, di chance di sopravvivere, laddove presenti delle condizioni psicofisiche idonee a permettergli di rimanere in vita. Al contempo “preesistenze negative” possono associarsi anche alla perdita di “chance patrimoniali”: si pensi, per esempio, ad un imprenditore, il quale, già in piena crisi economica (dunque con una “preesistenza negativa”), sia vittima di un bando truccato oppure venga danneggiato dalla negligenza di un suo consulente, così perdendo la possibilità di risollevare le sue sorti.

Inoltre, la distinzione fra le diverse fattispecie di “perdite di chance”, alle quali allude la Suprema corte, può apprezzarsi più agevolmente laddove si consideri che fenomenologicamente e giuridicamente la privazione di chance può rilevare, a seconda dei casi, in termini di danno-evento (in questa ipotesi la sottrazione di possibilità di conseguire un finale positivo incide sull'inquadramento eventistico della causalità materiale) oppure alla stregua di un particolare “danno-conseguenza” che può essere patrimoniale e/o non patrimoniale (per esempio, un sinistro stradale può impedire al danneggiato di partecipare ad un concorso, con conseguenze apprezzabili sia patrimonialmente che non patrimonialmente).

Ciò illustrato, la sentenza n. 28993/2019, soprattutto per il suo collocarsi in un “pacchetto” finalizzato a fissare e promuovere i punti ritenuti fermi dalla Sezione III della Cassazione, chiude indubbiamente il cerchio sull'evoluzione giurisprudenziale della “causalità da perdita di chance”. La vera questione, che si pone sul piano pratico, riguarda il livello di comprensione di questa doctrine, così come elaborata dalla Suprema corte, non solo da parte di magistrati ed avvocati, ma anche in seno alla medicina legale, la quale è chiamata a giocare un ruolo importante nell'evidenziazione dei dati che possono supportare la sussistenza o meno di questa prospettiva causale. Recenti pubblicazioni risultano confermare come il modello delineato dalla Cassazione ed oggi riassunto dalla pronuncia n. 28993/2019 non sia stato ancora compiutamente compreso dalla medicina legale (cfr., per esempio, L. MASTROROBERTO e A. SERRA, Il danno da perdita di chances nella responsabilità sanitaria, Milano, 2019).

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