Definizione dell'avviso bonario entro 30 giorni: l'istanza di autotutela non sospende il termine

Francesco Brandi
07 Gennaio 2020

La definizione in via agevolata dell'avviso bonario deve sempre avvenire entro 30 giorni dal ricevimento dello stesso a nulla rilevando che l'Agenzia delle Entrate entro tale termine non abbia ancora dato riscontro alla richiesta di autotutela presentata dal contribuente. A nulla vale invocare il legittimo affidamento nel caso di esercizio del potere di autotutela dell'amministrazione finanziaria, trattandosi di atto discrezionale.
Massima

La definizione in via agevolata dell'avviso bonario deve sempre avvenire entro 30 giorni dal ricevimento dello stesso a nulla rilevando che l'Agenzia delle Entrate entro tale termine non abbia ancora dato riscontro alla richiesta di autotutela presentata dal contribuente. A nulla vale invocare il legittimo affidamento nel caso di esercizio del potere di autotutela dell'amministrazione finanziaria, trattandosi di atto discrezionale.

Quindi se il contribuente si attiva, il termine di 30 giorni per pagare con le sanzioni ridotte al 10% non si sospende mai.

Il caso

La vicenda parte dall'impugnazione di una cartella di pagamento recante l'iscrizione a ruolo delle maggiori sanzioni dovute al ritardato pagamento degli importi contenuti nella comunicazione di irregolarità di cui all'art. 36-bis del d.P.R. n. 600/1973. Nel caso di specie il contribuente aveva pagato in misura ridotta con un ritardo di cinque giorni rispetto ai 30 concessi per definire in via agevolata, con l'iscrizione delle sanzioni in misura piena (30%), decurtate dell'importo versato.

Il contribuente eccepiva, tra l'altro, che il ritardato pagamento (avvenuto cinque giorni dopo la scadenza del termine di trenta giorni prescritto dalla legge al fine di godere della riduzione delle sanzioni al 10%) era stato determinato dal comportamento dell'Amministrazione, la quale, in violazione del principio di leale collaborazione sancito dall'art. 10 della L. n. 212/2000, non aveva risposto ad una specifica istanza di autotutela presentata dal contribuente in relazione alla comunicazione di irregolarità.

Sia la CTP che la CTR Lombardia accoglievano le doglianze del contribuente ritenendo violato l'art. 10 dello Statuto in quanto l'Agenzia, in ossequio al principio di collaborazione e buona fede, avrebbe dovuto emettere un provvedimento, anche eventualmente negativo, in riscontro all'istanza di autotutela del contribuente.

Col ricorso in Cassazione l'Agenzia denunciava violazione di legge in quanto il giudice del gravame, pur riconoscendo che non vi è alcun obbligo da parte dell'amministrazione finanziaria di fornire una risposta alle istanze di autotutela, ha respinto il gravame ritenendo che nella specie il comportamento dell'Ufficio avrebbe comunque violato il principio di collaborazione e buona fede sancito dallo Statuto del contribuente.

Le questioni

La questione fondamentale trattata dalla pronuncia in commento riguarda gli effetti della presentazione dell'istanza di autotutela, soprattutto a seguito dell'invio dell'avviso bonario. La ricostruzione della Cassazione prende in considerazione anche i canoni di correttezza e buona fede che devono caratterizzare i comportamenti sia dell'Amministrazione finanziaria che del contribuente.

Le soluzioni giuridiche

Nell'accogliere il ricorso la Cassazione ricorda che il controllo automatizzato è strutturato in maniera tale da precedere un momento di confronto solo eventuale tra amministrazione finanziaria e contribuente che, una volta raggiunto dalla comunicazione di irregolarità, può attivarsi presso gli uffici competenti per fornire eventuali chiarimenti volti a dimostrare l'infondatezza totale o parziale della pretesa finanziaria.

Ove tale facoltà sia esercitata, tuttavia, non si realizza alcuna sospensione del termine di trenta giorni, decorrente dal ricevimento della comunicazione d'irregolarità, concesso al contribuente per effettuare il pagamento evitando l'iscrizione a ruolo ed usufruendo della riduzione ad un terzo dell'ammontare delle sanzioni. Solo nel caso in cui l'amministrazione finanziaria, a seguito dei chiarimenti forniti dal contribuente, ridetermini in sede di autotutela l'importo delle somme dovute, decorrerà un nuovo termine dalla relativa comunicazione.

Dunque, la mera presentazione di una istanza in autotutela da parte del contribuente, ove non seguita da una comunicazione di rideterminazione delle somme dovute, non esime quest'ultimo dall'onere di pagare entro il termine di legge, decorrente dalla comunicazione d'irregolarità, al fine di usufruire della riduzione della sanzione, attesa l'autonomia del procedimento di riscossione coattiva da quello introdotto dalla richiesta di provvedere in autotutela. D'altro canto, costituendo tale istanza una mera sollecitazione del potere di autotutela, il cui esercizio è discrezionale, la sua proposizione non era affatto idonea ad ingenerare nel contribuente il legittimo affidamento in una risposta, tantomeno in senso favorevole, a nulla rilevando a tal fine la soggettiva convinzione del contribuente medesimo nella fondatezza delle proprie rimostranze, e neppure la oggettiva fondatezza delle stesse.

La mancata risposta dell'Amministrazione all'istanza presentata in autotutela, conseguentemente, non incide sui termini di legge per il pagamento degli importi richiesti, né costituisce violazione del principio di collaborazione e buona fede sancito dall'art. 10 della 1. n. 212/2000.

Ad ogni modo, conclude la Cassazione, il dovere di collaborazione e buona fede grava anche sul contribuente che aveva l'onere di attivarsi prima e non di presentare l'istanza appena 2 giorni prima della scadenza del termine di 30 giorni.

Osservazioni

L'istituto dell'autotutela consiste nella potestà che l'ordinamento riconosce alla Pubblica Amministrazione di procedere all'annullamento o revoca totale o parziale, riforma o rettifica di un provvedimento illegittimo precedentemente adottato; tale potestà, in altre parole, al fine di garantire il rispetto dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento dei pubblici uffici di cui agli artt. 97 e 98 Cost. ed il perseguimento dell'interesse pubblico, consente di evitare conflitti potenziali o di risolvere controversie in corso con i soggetti destinatari di un atto di cui si ravvisi l'illegittimità, l'annullamento del quale avviene senza l'intervento degli organi giurisdizionali competenti eventualmente aditi.

Nell'ambito del diritto tributario, l'istituto dell'autotutela è stato disciplinato dapprima con l'art. 68 del d.P.R. 27 marzo 1992 n. 287, abrogato dall'art. 23, comma 1 lett. m) n. 7 del d.P.R. 26 marzo 2001 n. 107, in virtù del quale, a tutela dei diritti del contribuente e della trasparenza dell'azione amministrativa, gli Uffici dell'Amministrazione Finanziaria possono procedere all'annulamento totale o parziale di provvedimenti riconosciuti illegittimi o infondati con atto motivato da notificare al contribuente. L'attuale normativa di riferimento è da inquadrare nell'art. 2-quater della Legge 30 novembre 994 n. 656, di conversione del D.L. 30 settembre 1994 n. 564, e nel relativo regolamento di esecuzione adottato con il D.M. 11 febbraio 1997 n. 37. L'art. 2-quater della Legge n. 656/1994 prevede testualmente che “Con decreti del Ministro delle finanze sono indicati gli organi dell'Amministrazione finanziaria competenti per l'esercizio del potere di annullamento d'ufficio o di revoca, anche in pendenza di giudizio o in caso di non impugnabilità, degli atti illegittimi o infondati. Con gli stessi decreti sono definiti i criteri di economicità sulla base dei quali si inizia o si abbandona l'attività dell'amministrazione.”

Inoltre, la disposizione in esame prevede che nella potestà di autotutela è ricompreso, altresì, il potere di disporre la sospensione degli effetti dell'atto illegittimo oltre al fatto che l'istituto di cui trattasi viene riconosciuto esperibile anche da parte degli enti locali in riferimento ai tributi di rispettiva competenza.

Tuttavia il rimedio offerto dall'autotutela non deve essere confuso con quello derivante dall'esercizio della giurisdizione: a differenza dell'annullamento a seguito di ricorso, l'annullamento d'ufficio non ha funzione giustiziale, costituisce espressione di amministrazione attiva e comporta di regola valutazioni discrezionali, non esaurendosi il potere dell'autorità che lo adotta unicamente nella verifica della legittimità dell'atto e nel suo doveroso annullamento se ne riscontra l'illegittimità. In altri termini, è vero che l'annullamento d'ufficio di atti inoppugnabili tende a soddisfare l'interesse pubblico alla corretta esazione dei tributi, che si può considerare una sintesi tra l'interesse fiscale dello Stato-comunità e il principio della capacità contributiva ma è altrettanto vero che altri interessi possono e devono concorrere nella valutazione amministrativa, e fra essi certamente quello alla stabilità dei rapporti giuridici di diritto pubblico, inevitabilmente compromessa dall'annullamento di un atto inoppugnabile. Tale interesse richiede di essere bilanciato con gli interessi descritti secondo il meccanismo proprio della valutazione comparativa.

Ne deriva la ricostruzione dell'istituto come uno strumento espressione di discrezionalità amministrativa che non costituisce un mezzo di tutela del contribuente (cfr. ex multis Cass. Civ., n. 3442/2015).

La Corte Costituzionale con la recente sentenza n. 181 del 13 luglio 2017 ha risolto una questione assai dibattuta dichiarando non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 2-quater, comma 1, del D.L. 30 settembre 1994, n. 564 (Disposizioni urgenti in materia fiscale), convertito, con modificazioni, dalla L. 30 novembre 1994, n. 656, e dell'art. 19, comma 1, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della L. 30 dicembre 1991, n. 413), sollevate dalla Commissione tributaria provinciale di Chieti, in riferimento agli articoli 3, 23, 24, 53, 97 e 113 della Costituzione.

In relazione alla non manifesta infondatezza il giudice rimettente sottolinea il contrasto con gli art. 53 e 23 della Costituzione in relazione al principio di capacità contributiva rapportato all'interesse fiscale dello Stato.

La capacità contributiva rappresenterebbe un «principio fondamentale dell'ordinamento costituzionale», da bilanciare con l'interesse fiscale dello Stato in base al criterio di ragionevolezza. Non sarebbe «concepibile un interesse egoistico del Fisco a conservare atti impositivi, ancorché divenuti definitivi, palesemente illegittimi al fine di trarne un profitto sostanzialmente ingiustificato e del tutto svincolato dalla capacità contributiva del contribuente». L'«assoggettamento del contribuente, privo di mezzi di tutela, ad una ingiusta ed illegittima imposizione» si tradurrebbe dunque nella violazione degli articoli 53, 23 e 3 Cost.

Il giudice a quo lamenta poi la violazione «del diritto di azione in giudizio e del principio della tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi». Ribadisce che la Cassazione «ha ritenuto insussistente l'obbligo di pronuncia esplicita dell'A.F. sull'istanza di autotutela proposta dal contribuente, ed inoppugnabile la medesima omissione di pronuncia, non potendosi configurare un silenzio-rifiuto tacito o implicito ricorribile in sede giurisdizionale». Sarebbe dunque «palese il vuoto di tutela giurisdizionale del contribuente sottoposto ad un'imposizione fiscale ingiustificata e lesiva della capacità contributiva del medesimo», con conseguente violazione degli artt. 24 e 113 Cost., dato che il citato art. 2-quater, comma 1, del d.l. n. 564 del 1994 attribuirebbe al contribuente «una posizione giuridica soggettiva avente consistenza di diritto soggettivo o quanto meno di interesse legittimo».

La Corte costituzionale considera la questione infondata in quanto, nel valutare la ragionevolezza della disciplina legislativa dell'autotutela tributaria, il rimettente non considera l'interesse pubblico alla certezza dei rapporti giuridici. Infatti, affermare il dovere dell'amministrazione tributaria di pronunciarsi sull'istanza di autotutela, aprirebbe la porta (ammettendo l'esperibilità dell'azione contro il silenzio) alla possibile messa in discussione dell'obbligo tributario consolidato a seguito dell'atto impositivo definitivo. L'autotutela finirebbe quindi per offrire una generalizzata "seconda possibilità" di tutela, dopo la scadenza dei termini per il ricorso contro lo stesso atto impositivo.

A queste conclusioni era del resto giunta anche la Cassazione secondo cui avverso il provvedimento di diniego relativo ad un atto impositivo divenuto definitivo non è esperibile un'autonoma ed ulteriore tutela giurisdizionale, sia per la discrezionalità propria dell'autotutela, sia perché, diversamente opinando, si darebbe inammissibilmente ingresso ad una controversia su un atto impositivo ormai definitivo (Cass. SS.UU. nn. 2870/2009 e 3698/2009).

Non è apparso irragionevole quindi il bilanciamento degli opposti interessi effettuato dal legislatore tributario: le norme censurate - e più in generale la disciplina legislativa dell'annullamento d'ufficio tributario - operano dunque un bilanciamento non irragionevole tra l'interesse pubblico alla corretta esazione dei tributi e l'interesse alla stabilità dei rapporti giuridici di diritto pubblico (su cui recentemente sentenza n. 94 del 2017), che sarebbe inevitabilmente sacrificato da una scelta legislativa che imponesse all'amministrazione di pronunciarsi sull'istanza di autotutela del contribuente, creando a favore di quest'ultimo una nuova situazione giuridicamente protetta, per giunta azionabile sine die, non essendo previsto un termine entro cui si forma il silenzio.

Di conseguenza non sono violati neppure gli artt. 24 e 113 della Costituzione in relazione al diritto di idfesa del contribuente: dal momento che l'assenza del dovere di provvedere non è sotto altri profili costituzionalmente illegittima, e non sussiste dunque un interesse giuridicamente protetto a ottenere una decisione amministrativa espressa sull'istanza di autotutela, è escluso che vi sia un «vuoto di tutela».

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