Responsabilità del produttore dell'auto per difetto di sicurezza
17 Gennaio 2020
Massima
Stante il disposto del Decreto del Presidente della Repubblica n. 224 del 1988 art. 3, comma 3, non basta fare causa alla filiale italiana del produttore ubicato in altro stato UE, muovendo implicitamente dalla circostanza che la società distributrice in Italia sia equiparabile a quella produttrice, per avere essa il medesimo suo marchio. Atteso che a livello internazionale i marchi sono normalmente registrati dalla società capogruppo, venendo poi utilizzati da tutte le società che del gruppo fanno parte, va osservato come difetti nella specie la prova che la società distributrice abbia apposto sul prodotto de quo il proprio marchio e che il distributore sia dunque equiparabile al produttore. Il caso
A causa di un incidente stradale occorso nel 2003 per un violento urto contro il guard-rail di un'autostrada, gli occupanti dell'autovettura coinvolta, una Opel Tigra, promuovevano di fronte al Tribunale di Messina un'azione risarcitoria nei confronti della filiale italiana del produttore della stessa, lamentando difetti di costruzione dell'airbag e delle cinture di sicurezza, che avrebbero causato loro lesioni personali. La Corte d'Appello della provincia siciliana accoglieva parzialmente la loro richiesta e la società produttrice ricorreva in Cassazione. All'epoca del primo ricorso, la norma di riferimento per la responsabilità da prodotto difettoso (d.P.R. n. 224/1988, art. 3, comma 3) prevedeva che fosse considerato produttore chiunque apponesse il proprio marchio o altro segno distintivo sul prodotto stesso, o sulla sua confezione. La vettura era stata costruita all'interno dell'UE, dalla filiale spagnola del gruppo Opel, che era domiciliato al di fuori dell'Unione e deteneva il marchio di produzione. L'azione risarcitoria era stata dunque promossa dai danneggiati nei confronti della filiale italiana del gruppo, invocando l'art. 3 del già richiamato d.P.R. n. 224/1988, dal momento che la sua ragione sociale conteneva un espresso riferimento al marchio della casa straniera. La convenuta, che aveva solo curato l'importazione e la distribuzione delle vetture nel nostro paese, sosteneva invece che l'adozione del marchio Opel nella denominazione di una società consociata di un gruppo internazionale non era significativo della proprietà del marchio, giacché i marchi «sono registrati a livello internazionale dalla società che si pone al vertice del gruppo e vengono utilizzati da tutte le società del medesimo che trattano quel tipo di prodotti», come accade pure nell'uso che del marchio si fa nella documentazione commerciale. Veniva dunque invocata violazione e falsa applicazione del d.P.R. n. 224/1988 (art. 3, comma 3), nonché dell'art. 2697 c.c. (Onere della prova), dell'art. 115 c.p.c. (Disponibilità delle prove) e dell'art. 360 c.p.c. (Sentenze impugnabili con ricorso in Cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione e per violazione o falsa applicazione di norme di diritto). La questione
Nell'ambito della responsabilità da prodotto difettoso, è sufficiente promuovere un'azione risarcitoria nei confronti del distributore locale di una società che produce al di fuori dell'Italia, basandosi sul fatto che lo stesso appartenga al medesimo gruppo internazionale e condivida lo stesso nome e marchio del prodotto di cui si tratta? Le soluzioni giuridiche
Come già affermato nella sentenza n. 29327 del 7 dicembre 2017, la Suprema Corte ribadisce che il d.P.R. n. 224/1988 definisce quale produttore “anche chi si presenti come tale apponendo il proprio nome, marchio o altro segno distintivo sul prodotto o sulla sua confezione “. Tuttavia, la Cassazione rimprovera alla corte di merito di aver confuso il “diretto produttore” con l'”altro soggetto per il quale il primo fabbricava”, ovvero colui che si frapponeva nella catena dell'offerta del prodotto stesso al consumatore. L'autovettura in questione riportava infatti ben visibili le scritte “Opel” e modello “Tigra”, e ciò avrebbe erroneamente condotto il Tribunale di prima istanza e la Corte d'Appello ad accettare il corollario che il distributore avesse apposto il proprio nome al prodotto e sarebbe stato perciò equiparabile al produttore. Ma per la Corte di Cassazione, per considerare che la distributrice italiana avesse posto sull'autovettura il proprio nome o segno distintivo e risultasse pertanto quale società produttrice, non è sufficiente che le due società appartenessero allo stesso gruppo e prevedessero nelle rispettive ragioni sociali il medesimo marchio. Occorre andare oltre e dimostrare una contitolarità del marchio, oppure che il venditore avesse in qualche modo partecipato alla costruzione del prodotto ed all'apposizione del marchio su di esso: «L'utilizzazione da parte dell'odierna ricorrente della parola Opel nella propria denominazione si appalesa affatto diversa dalla marcatura con l'apposizione del proprio nome, marchio o altro segno distintivo del prodotto, richiesta dalla norma di cui al Dpr 224/1988, art. 3, comma 3, per univocamente identificarlo e caratterizzarlo sul mercato. Né d'altro canto in base all'impugnata sentenza risulta dato evincersi se ricorra nella specie un'ipotesi di contitolarità o di comunione del marchio, ovvero di marchio di gruppo (…). O se non debba piuttosto ravvisarsi quale mero indice di collegamento dell'impresa dell'odierna ricorrente a quella altrui». La Cassazione ha dunque considerato la mera utilizzazione del marchio “Opel” del prodotto “Opel Tigra” insufficiente ad integrare il requisito della norma, accogliendo il ricorso della società distributrice ed imponendo alla Corte d'Appello di Messina di procedere ad un nuovo esame del caso, facendo una più puntuale applicazione del disatteso principio indicato nel Decreto del Presidente della Repubblica.
Osservazioni
Questo provvedimento della Suprema Corte si inserisce in una questione assai delicata, oltre che molto comune. Com'è noto, infatti, i grandi gruppi internazionali che producono automobili (ma si potrebbe estendere il problema ad altri tipi di prodotti che abbiano le medesime modalità di costruzione e distribuzione), utilizzano assai frequentemente nell'UE, ed in Italia in particolare, dei meri importatori e venditori dei loro manufatti. Il soggetto che immette il prodotto in commercio, insomma, non è lo stesso che lo ha effettivamente costruito. In passato, la norma che consentiva ai danneggiati di far valere i propri diritti in ambito di responsabilità civile da prodotto difettoso verteva sul più volte citato d.P.R. n. 224/1988, che aveva recepito le disposizioni della Direttiva CEE n. 85/374 in materia di responsabilità dei produttori. La questione della vendita di manufatti provenienti da paesi al di fuori del proprio mercato veniva qui risolta all'art. 3, comma 3, che assimilava al produttore chiunque distribuisse il prodotto apponendovi il proprio marchio. Ma come abbiamo visto in occasione della sentenza in esame, ciò poteva determinare confusioni ed errori da parte dei legali dei danneggiati, che potevano far causa al soggetto sbagliato, e perfino da parte delle Corti di prima e seconda istanza. Ciò finiva per consentire ai produttori di sottrarsi alle proprie responsabilità, facendo leva su questioni puramente formali, inerenti la differenza tra società produttrici e società venditrici all'interno dello stesso gruppo. Il nuovo Codice del Consumo (d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206), che ha abrogato il d.P.R. n. 224/1988, e le sue successive modificazioni ed integrazioni (tra cui il d.lgs. 21 febbraio 2014 n. 21 in attuazione della direttiva 2011/83/UE sui diritti dei consumatori, fino alle leggi 12 aprile 2019 n. 31 e 3 maggio 2019 n. 37), hanno reso sempre più evidente e cogente la disposizione prevista dalla Suprema Corte nella sentenza in esame. Proprio con lo scopo di evitare malintesi, infatti, l'art. 103 del codice prevede che il venditore o distributore possa ancora risultare assimilabile al produttore, ma la sua definizione risulta assai meglio specificata. |