Valore probatorio dell'elenco clienti e delle presunzioni nell'ambito del sistema tributario, amministrativo e penale

10 Febbraio 2020

Le annotazioni rinvenute nell'elenco fornitori inviato dai clienti corrispondono a fatture regolarmente registrate in corrispondenza di prestazioni di servizi ricevute, o di beni acquistati dal soggetto emittente la corrispondente fattura, sulla quale il cliente, in quanto titolare di partita IVA, è legittimato a detrarre la relativa imposta. Le stesse hanno perciò valore probatorio in ordine all'acquisto di beni e legittimano la ricostruzione del volume di affari, corrispondente ai ricavi.
Massima

Le annotazioni rinvenute nell'elenco fornitori inviato dai clienti corrispondono a fatture regolarmente registrate in corrispondenza di prestazioni di servizi ricevute, o di beni acquistati dal soggetto emittente la corrispondente fattura, sulla quale il cliente, in quanto titolare di partita IVA, è legittimato a detrarre la relativa imposta. Le stesse hanno perciò valore probatorio in ordine all'acquisto di beni e legittimano la ricostruzione del volume di affari, corrispondente ai ricavi. Quanto poi alle presunzioni, in campo tributario queste valgono come strumento di accertamento semplificato nel contrasto all'evasione fiscale, che si fonda sulla riconducibilità al reddito di importi di incerta provenienza. Tale meccanismo non può invece trovare applicazione nel processo penale, dove, assumendo il valore di un dato di fatto, le presunzioni non possono costituire, di per sé, fonte di prova della commissione dell'illecito.

Il caso

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 230 del 08.01.2020, ha chiarito rilevanti aspetti in tema di valore probatorio dell'elenco clienti, con particolare focus sul più generale valore delle presunzioni, rispettivamente nell'ambito del sistema tributario e penale.

Nel caso di specie, la Corte di Appello di Roma aveva integralmente confermato la condanna alla pena di due anni di reclusione inflitta al contribuente, all'esito del giudizio di primo grado dal Tribunale, ritenendolo responsabile del reato di cui all'art. 5 del Dlgs. n. 74/2000, per omessa presentazione, in qualità di legale rappresentante di una società, delle dichiarazioni dei redditi e sul valore aggiunto relative all'anno di imposta 2006, con un'evasione IRES di € 576.166 ed IVA di € 349.192.

Avverso il suddetto provvedimento l'imputato aveva quindi proposto ricorso per cassazione, deducendo, con un primo motivo di impugnazione, l'omessa risposta alla specifica contestazione relativa alla limitata efficacia delle presunzioni nel processo penale, rilevando come non fosse emersa alcuna prova o elemento indiziario del reddito effettivamente percepito dalla società nell'anno di imposta in contestazione, atteso che le annotazioni figuranti nell'elenco dei fornitori trasmesso all'Amministrazione finanziaria erano costituite da mere autocertificazioni degli acquisti effettuate dagli stessi interessati, che, in quanto rese a loro esclusivo beneficio, non avrebbero potuto veicolare i dati necessari alla quantificazione del reddito effettivamente percepito dalla società amministrata dall'imputato.

Al contrario la Corte di Appello, avendo sostenuto che incombeva sulla difesa l'onere di dimostrare i costi sostenuti, aveva sostanzialmente affermato, in contrasto con l'univoco orientamento giurisprudenziale, la legittimità delle presunzioni tributarie, avallando l'erronea interpretazione del giudice di prime cure, che aveva quantificato l'evasione in proporzione al volume di affari presunto, anziché sul reddito effettivamente dichiarato.

Sosteneva inoltre il ricorrente che, ai fini della determinazione dell'imposta dovuta, occorreva peraltro quantificare non solo i ricavi concretamente realizzati, ovverosia il volume di affari presunto, ma altresì i costi strumentali sostenuti, che, andando a decurtare i ricavi complessivi, concorrono a pari titolo alla determinazione del reddito di impresa.

Con un secondo motivo di impugnazione la ricorrente contestava poi l'entità della pena inflitta, che, in quanto di gran lunga superiore alla media edittale, imponeva l'obbligo di un'adeguata motivazione, di certo non costituita dal riferimento ad un'eccessiva “disinvoltura” dell'imputato nella gestione dell'attività commerciale, di fatto contraddetta dall'omessa ricostruzione dell'imposta realmente evasa.

Il ricorrente censurava poi l'omessa motivazione sulla durata delle pene accessorie, che, in ragione della loro entità, avrebbero potuto essere giustificate solo in presenza di operazioni ascrivibili a strutture criminali dotate di una complessa organizzazione, cui non era riconducibile la società amministrata dall'imputato.

La questione

Il ricorrente contestava, in sostanza, la ricostruzione del reddito della società, affermando, da un lato, che le annotazioni contenute nell'elenco clienti-fornitori fossero mere autocertificazioni che consentivano agli interessati di effettuare le relative deduzioni sul reddito di impresa, essendo pertanto, quelle figuranti sul registro dei clienti, inidonee a dimostrare il reddito dell'azienda fornitrice e, dall'altro, che nel silenzio tenuto dalla società fornitrice in relazione ai costi sostenuti le presunzioni non potevano comunque ritenersi legittime. Tanto meno in sede penale.

Le soluzioni giuridiche

Secondo la Suprema Corte le prime due censure erano infondate.

Evidenziano i giudici di legittimità che quelle rinvenute nell'elenco fornitori inviato dai clienti dell'imputato all'Agenzia delle Entrate non costituivano mere annotazioni, ma corrispondevano a fatture regolarmente registrate in corrispondenza di prestazioni di servizi ricevute, o di beni acquistati dal soggetto emittente la corrispondente fattura, sulla quale il cliente, in quanto titolare di partita IVA, era legittimato a detrarre la relativa imposta.

Le stesse avevano quindi valore probatorio in ordine all'acquisto di beni, nella specie auto, ceduti dalla società.

Attraverso questo sistema era stato pertanto correttamente ricostruito il volume di affari, corrispondente ai ricavi, della suddetta società.

Ciò detto, secondo la Cassazione, del tutto inconferenti risultavano le contestazioni relative all'inapplicabilità, in generale, delle presunzioni tributarie, dato che, in campo tributario, la presunzione vale come strumento di accertamento semplificato nel contrasto all'evasione fiscale, che si fonda sulla riconducibilità al reddito, inteso come frutto dell'attività produttiva, e segnatamente ai ricavi, di importi di incerta provenienza (come, in via meramente esemplificativa, accade per gli accrediti registrati sul conto corrente e considerati, in base a presunzione tributaria, ricavi dell'azienda).

Vero è, rileva la Corte, che tale principio non può invece trovare applicazione nel processo penale, dove, assumendo il valore di un dato di fatto, la mera presunzione non può costituire, di per sé, fonte di prova della commissione dell'illecito.

Ma tale evenienza non ricorreva nella fattispecie in esame, dove la riconducibilità delle fatture emesse dall'imputato, ricostruite sulla base di quelle ricevute dai clienti e regolarmente registrate, al volume di affari della società dal medesimo amministrata non costituiva alcuna presunzione, ma piuttosto il frutto “esatto” di un accertamento fiscale effettuato dalla Polizia tributaria, che, avendo ricostruito, sulla base di quanto figurante dall'elenco fornitori, le cessioni di beni da costui effettuate, si era limitata al calcolo matematico degli importi riportati sui singoli documenti, al fine di quantificarne il volume di affari dell'anno di imposta in contestazione.

Quanto poi alla considerazione delle componenti negative, la Corte di Cassazione rileva come seppur sia vero che alla ricostruzione del reddito dell'impresa nell'esercizio di competenza concorrono anche le spese e gli altri componenti negativi, questi, tuttavia, per poter essere considerati, devono essere certi, o comunque determinabili in modo obiettivo (art. 109, comma1, Dpr. 22 dicembre 1986, n. 917), non potendo essere puramente e semplicemente presunti.

Sicché, ove a fronte dell'accertamento di ricavi non dichiarati l'imputato lamenti la mancata deduzione dei costi ad essi inerenti, deve provarne l'esistenza (artt. 187 e 190, cod. proc. pen.), o comunque allegare i dati dai quali l'esistenza di tali costi possa essere desunta, non essendo legittimo, nemmeno in sede penale, presumere l'esistenza di costi deducibili, in assenza quantomeno di allegazioni fattuali che rendano almeno legittimo il dubbio in ordine alla loro sussistenza (cfr., sul punto, Cass., Sez. 3, n. 37131 del 09/04/2013).

A fronte quindi del silenzio serbato dall'imputato, il giudice di merito aveva correttamente quantificato l'imposta evasa contabilizzando i maggiori ricavi conseguiti, senza detrarre i costi.

Secondo la Suprema Corte era invece, infine, fondato il motivo di impugnazione relativo alle pene accessorie.

Evidenziano infatti a tal proposito i giudici di legittimità che, pur avendo il ricorrente lamentato nell'atto di appello la durata delle sanzioni inflittegli dal Tribunale, ai sensi dell'art. 12 del Dlgs. 74/2000, ritenute eccessivamente afflittive rispetto all'effettivo disvalore del fatto, la relativa contestazione era stata integralmente tralasciata dalla Corte di appello, che, sul punto, non aveva reso alcuna motivazione, con dunque necessità di rinvio sul punto.

Osservazioni

Al di là dello specifico caso processuale, la questione, di grande rilevanza sistematica, su cui è opportuno appuntare l'attenzione è quella della valenza delle presunzioni tributarie, rispettivamente, nell'ambito del processo tributario e di quello penale.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12561 del 17.06.2016, ha chiarito, in modo molto esauriente, i termini di applicazione ed efficacia delle presunzioni nel processo tributario, rilevando come, a norma dell'art. 2729 c.c., il giudice, nel processo tributario, non deve ammettere che presunzioni gravi precise e concordanti.

È vero che in materia tributaria (benché l'art. 2729 c.c., comma 1, il Dpr. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4 e il Dpr. n. 633 del 1972, art. 54, si esprimano al plurale), la giurisprudenza della stessa Suprema Corte ha ripetutamente affermato che il convincimento del giudice può fondarsi anche su un elemento unico, ma è vero anche che lo stesso giudice ha sempre ribadito che tale elemento deve in ogni caso essere preciso e grave e che la valutazione in proposito del giudice di merito non è censurabile in sede di legittimità, ove sorretta da motivazione adeguata e logicamente non contraddittoria (v. tra le altre Cass. n. 656/2014, e n. 14068/2014).

L'esistenza di "elementi presuntivi" (cioè indizi idonei a fondare una presunzione), forniti dall'Amministrazione a sostegno dell'accertamento induttivo, comporta quindi l'inversione dell'onere della prova solo laddove i suddetti elementi siano effettivamente tali (ossia idonei a fondare una presunzione), non potendo ovviamente ammettersi che l'Amministrazione possa fondare un accertamento su qualunque elemento, anche privo di qualsivoglia valore indiziario, determinando perciò solo l'inversione dell'onere probatorio.

Nell'ambito del processo penale, però, il valore probatorio di tali elementi indiziari è ben diverso.

A tal proposito, ad esempio, la Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 26746 del 23/10/2018, ha ben chiarito quali sono i rapporti tra processo penale e processo tributario, sia nell'uno che nell'altro verso.

I giudici di legittimità evidenziavano infatti, in quell'occasione, che nel processo tributario la sentenza penale irrevocabile di assoluzione dal reato tributario, emessa con la formula "perchè il fatto non sussiste", non spiega automaticamente efficacia di giudicato, ancorchè i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l'Amministrazione finanziaria ha promosso l'accertamento nei confronti del contribuente, ma può essere presa in considerazione come possibile fonte di prova dal giudice tributario, il quale, nell'esercizio dei propri poteri di valutazione, deve verificarne la rilevanza “nell'ambito specifico in cui detta sentenza è destinata ad operare.”

La sentenza penale irrevocabile intervenuta per reati attinenti ai medesimi fatti su cui si fonda l'accertamento degli uffici finanziari rappresenta quindi un semplice elemento di prova, liberamente valutabile in rapporto alle ulteriori risultanze istruttorie, anche di natura presuntiva, anche considerato che nel processo tributario vigono i limiti in materia di prova, posti dall'art. 7, comma 4, del Dlgs. 31 dicembre 1992, n. 546, “e trovano ingresso, invece, anche presunzioni semplici, di per sé inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna”.

Ne consegue che l'imputato assolto in sede penale, anche con formula piena, per non aver commesso il fatto, o perché il fatto non sussiste, può essere comunque ritenuto responsabile fiscalmente, qualora l'atto impositivo risulti fondato su validi indizi, insufficienti per un giudizio di responsabilità penale, ma adeguati, fino a prova contraria, nel giudizio tributario.

E viceversa.

I due sistemi processuali sono infatti ben diversi, in primis perché, il parametro di valutazione del giudice penale non è, a ben vedere, l'innocenza dell'imputato, ma l'impossibilità di sostenere l'accusa in giudizio per insufficienza di elementi in grado di sostenere in dibattimento l'accusa (penale).

E anche laddove il procedimento penale e quello tributario attengano alla medesima fattispecie, peraltro, gli stessi fatti sono destinati ad assumere connotati differenti nei diversi ambiti, penale ed amministrativo, attesi i differenti principi posti a presidio dell'elemento psicologico nei richiamati contesti, dato che, come detto, in sede tributaria, non si guarda alla certezza dell'evento contestato, ma piuttosto alla sua probabilità o verosimiglianza.

E soprattutto, come visto, processualmente, vi è una diversa ripartizione dell'onere della prova nell'ambito dei due procedimenti.

Per questo motivo, del resto, il Legislatore ha avvertito l'esigenza di coordinare il rapporto tra i due sistemi sanzionatori, penale e amministrativo, laddove, ai sensi degli artt. 20 e 21 del Dlgs 74/2000, risulta confermato il principio della completa autonomia reciproca delle due sfere di azione, escludendosi qualsiasi pregiudizialità o vincolo sospensivo tra i diversi contesti.

Ne consegue quindi che, sia l'attività di accertamento degli Uffici finanziari, sia i processi avanti alle Commissioni tributarie si svilupperanno in parallelo ed indipendentemente dal processo penale vertente sui medesimi fatti ed a prescindere dalle vicende relative all'altro, ciascuno, appunto, sul proprio binario.

Tutto ciò si traduce, processualmente, in una diversa ripartizione dell'onere della prova nell'ambito dei due tipi di procedimenti, a partire, appunto, dal valore probatorio delle presunzioni.

E infatti la stessa Cassazione (Cass., Sent., n. 6823, del 17.02.2015), aveva già avuto modo di affermare (in linea con quanto ribadito dalla pronuncia in commento) che in caso di accertamenti presuntivi non vi possono essere conseguenze penali.

Le presunzioni e i criteri di valutazione induttivi, usati ai fini fiscali, non possono infatti valere, dice la Corte, ai fini della contestazione del reato, laddove, in quel caso, al contribuente era stata contestata un'evasione di oltre un milione di euro, ben al di sopra delle soglie di punibilità.

Il medesimo contribuente, condannato sia in primo che in secondo grado, ricorreva allora in Cassazione, sostenendo che l'imposta era stata quantificata, in sede tributaria, solo in via presuntiva, con la conseguenza che il giudice penale aveva omesso di accertare l'effettivo superamento della soglia di punibilità, ponendo anzi a carico del contribuente l'onere della prova contraria.

La Suprema Corte, accogliendo il ricorso, riteneva dunque in quell'occasione che il giudice penale non avesse in effetti verificato, con specifiche indagini, la sussistenza della violazione, laddove solo a questi spetta il compito di procedere all'accertamento dell'imposta evasa, attraverso una verifica che può anche contraddire quella svolta ai fini tributari, non potendo, peraltro, in sede penale, applicarsi le presunzioni legali, o i criteri di valutazione validi ai fini fiscali.

Insomma, due processi indipendenti l'uno dall'altro, soprattutto sotto il profilo probatorio e soprattutto in riferimento alla valenza, nell'uno e nell'altro settore, delle presunzioni.

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