La ripartizione dell'onere probatorio in caso di frode IVA fondata su operazioni soggettivamente inesistenti
05 Marzo 2020
Massima
In tema di IVA, l'Amministrazione finanziaria, se contesta che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell'ambito di una frode carosello, ha l'onere di provare non solo l'oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l'operazione si inseriva in un'evasione dell'imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l'ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l'Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, spetta al contribuente dimostrare di avere adoperato, per non essere coinvolto in un'operazione volta ad evadere l'imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi.
Il caso
In seguito ad una verifica effettuata dalla Guardia di Finanza nei confronti di un'impresa emiliana: Beta Immobiliare srl, l'Agenzia delle Entrate emetteva un avviso di accertamento in cui contestava, tra l'altro, che la società si era fornita dalla Eurogoup srl, a sua volta apparentemente approvvigionata da società risultate, all'esito dei controlli dei militari, prive di struttura amministrativa/operativa e, quindi, considerate società c.d. “cartiere”. Pertanto, secondo l'Ade, la società contabilizzava una parte delle fatture fittizie di acquisto emesse da tali aziende unicamente al fine di avvantaggiarsi nei confronti dell'erario attraverso indebite deduzioni/detrazioni (rispettivamente ai fini delle II.DD. e dell'IVA). La contribuente, d'altro canto, dichiaratasi estranea rispetto alla vicenda, adiva la Commissione Tributaria Provinciale per far valer le sue ragioni che, in risposta, accoglieva il ricorso proposto. Tuttavia, l'Ufficio otteneva la riforma della decisione di primo grado all'esito del procedimento di appello innanzi la Commissione Tributaria Regionale dell'Emilia Romagna. In dettaglio, la CTR emiliana, nel dichiarare la legittimità degli avvisi di accertamento impugnati, poggiava la propria decisione su talune considerazioni, ossia: a) i “fornitori” di Eurogroup: V.G. e Z.L.B. dovevano considerarsi titolari di società/imprese “cartiere”, non esistenti/non operative, in quanto il primo non risultava avvalersi di alcuna struttura aziendale idonea a realizzare gli scambi di merce fatturati alla Eurogroup, peraltro sua unica cliente e, inoltre, non aveva fornito alcuna valida spiegazione del mancato rinvenimento, in sede ispettiva, della gran parte della contabilità delle sue imprese, mentre il secondo aveva addirittura dichiarato di essere un mero prestanome; b) che altri pretesi “fornitori” di Eurogroup avevano negato di avere mai avuto rapporti con la medesima.
Pertanto, secondo la CTR, essendo la gran parte delle fatture annotate dalla Eurogroup relative ad operazioni soggettivamente inesistenti, nonostante l'accertata sussistenza di una sua struttura operativa, essa doveva essere ritenuta -nella sostanza ed in larga misura- una “società cartiera” ossia meramente interposta nella cessione delle merci de quibus. Ciò anche alla luce della circostanza per cui vi era una elevata coincidenza quantitativa tra gli acquisti fatturati da Eurogroup e le vendite dalla stessa fatturate alle società del “Gruppo T.”, tra le quali la ricorrente, sicchè risultava fondata la presunzione che si trattasse delle stesse merce. Dunque, secondo i giudici era fondata la presunzione dell'Ade che le fatture emesse da Eurogroup fossero relative ad operazioni inesistenti, almeno “soggettivamente”, come contestato a quest'ultima dall'agenzia fiscale e, quindi, si doveva ritenere che l'appellata in parte utilizzasse le fatture di acquisto fittizie per proprie indebite deduzioni/detrazioni ai fini delle imposte dirette ed indirette. La questione
La questione affrontata dalla Suprema Corte ha origine dal ricorso per Cassazione prodotto dalla società contribuente con cui sono state sollevate talune censure di legittimità alla sentenza emessa dalla CTR dell'Emilia Romagna, al cui esito è stato ritenuto legittimo l'avviso di accertamento emesso dall'Ade che ha valutato talune operazioni contabilizzate quali inesistenti. Dunque, oggetto essenziale della lite in esame è la contestazione da parte dell'Agenzia delle entrate dell'inesistenza soggettiva delle fatture emesse da Eurogroup nei confronti della ricorrente negli anni d'imposta 2004-2005. La CTR emiliana, per ciò che qui interessa, ha ritenuto fondata la pretesa erariale traendo convincimento dal complessivo quadro indiziario (ut supra meglio specificato) e motivando che l'appellante si era apparentemente approvvigionata da società facenti capo a V.G. che erano però risultate prive di struttura amministrativa/operativa, sicchè potevano essere considerate società c.d. “cartiere”; che un fornitore della società aveva dichiarato di essere mero prestanome, mentre altri “fornitori” indicati nelle fatture avevano dichiarato di non aver mai avuto rapporti con la società; che vi era una sostanziale coincidenza tra i materiali che l'appellante aveva contabilizzato in acquisto dalle imprese presunte fornitrici e quelli che aveva poi fatturato in vendita alle società del “Gruppo T” (di cui pacificamente faceva parte l'appellata), per cui si doveva presumere che si trattasse degli stessi materiali. La soluzione giuridica
Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione nel motivare la propria decisione oggetto ha seguito un ragionamento giuridico partendo da precedenti giurisprudenziali interpretativi in ordine all'eccezione sollevata dalla società contribuente relativa alla violazione/falsa applicazione del d.P.R. n. 633/1972, artt. 19, 21, artt. 2697, 2729, c.c., poichè la CTR non avrebbe compiutamente riscontrato l'adeguato assolvimento da parte dell'Agenzia delle entrate dell'onere di provare la consapevolezza della ricorrente dell'”inesistenza soggettiva” delle operazioni di cui alle fatture contestate. Orbene, la ripartizione dell'onere della prova in caso di accertamento su operazioni soggettivamente inesistenti non può prescindere dalla delimitazione del concetto di buona fede che rappresenta uno stato soggettivo del contribuente che si realizza nell'adozione di comportamenti adeguati a standard di accortezza e diligenza volti ad accertare l'assenza di coinvolgimento in operazioni in cui si compiono evasioni IVA, il cui verificarsi esonera il contribuente da qualsiasi responsabilità in caso di frodi IVA, permettendogli di esercitare legittimamente il diritto alla detrazione dell'imposta.
Occorre, tuttavia, chiarire se, in presenza di accertati comportamenti illeciti commessi da alcuni operatori, si debba presumere la buona o la mala fede dei loro clienti che hanno da essi acquisito documentazione, sia fiscale che commerciale, formalmente regolare. Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale (da ultimo, Cass., Sez. trib., 31 luglio 2018, n. 20298) una regolare fattura, conforme ai requisiti di forma e contenuto di cui agli artt. 21 e seguenti del D.P.R. n. 633/1972, fa presumere la veridicità di quanto in essa rappresentato e costituisce, pertanto, valido titolo per il contribuente - in ossequio al principio comunitario di neutralità - per esercitare la detrazione dell'IVA. Sulla base di tale assunto, pertanto, spetta all'Amministrazione finanziaria provare l'illecito fiscale e la collusione del soggetto cessionario o, almeno, la sua carenza di diligenza professionale. Orbene, benché sia la Corte di cassazione che la Corte di Giustizia condividano tale conclusione, le interpretazioni dei due giudici, in merito alle conseguenze del riparto dell'onere probatorio, non sembrerebbero perfettamente sovrapponibili. I giudici comunitari, infatti, ritengono pacificamente che sia compito dell'Ufficio dimostrare, attraverso elementi oggettivi, che il cessionario era (o avrebbe dovuto essere) consapevole della frode, giacché l'Amministrazione finanziaria non può esigere che il contribuente verifichi che il proprio fornitore abbia la natura di soggetto passivo, disponga di una struttura idonea all'attività che svolge e sia rispettoso degli obblighi fiscali che l'ordinamento impone (CGE, 22 ottobre 2015, causa C-277/14). In sostanza, l'operatore economico deve poter fare affidamento sulla liceità dell'operazione che intraprende, senza rischiare di essere privato del proprio diritto alla detrazione. In ambito nazionale, invece, la Suprema Corte, pur ritenendo gravante sull'Amministrazione finanziaria l'onere probatorio, afferma che tale prova possa essere fornita anche attraverso presunzioni semplici, dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza (Cass., Sez. trib., 28 giugno 2018, n. 1716). Inoltre, nel caso in cui l'Ufficio assolva al proprio obbligo, si assiste a un'inversione dell'onere della prova che ricade sul contribuente, il quale, per esercitare la detrazione dell'IVA, deve dimostrare l'incolpevole affidamento sulla regolarità fiscale dell'operazione, ingenerato dal comportamento del cedente (Cass., Sez. VI, 27 ottobre 2017, nn. 25538 e 25545). L'Amministrazione deve, pertanto, provare che la transazione fatturata non è stata posta in essere tra i soggetti indicati nella fattura, evidenziando gli elementi, pur indiziari, sui quali si fonda la contestazione, anche in merito alla conoscenza ovvero alla conoscibilità della fittizietà delle operazioni da parte del cessionario che richiede la detrazione (Cass., Sez. trib., 18 marzo 2016, n. 5406). Il contribuente deve, a sua volta, dimostrare la mancanza della consapevolezza di partecipare a un'operazione fraudolenta, non essendo sufficiente, a tal fine, la regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, trattandosi di dati e circostanze facilmente falsificabili (Cass., Sez. trib., 10 giugno 2011, n. 12802). Occorre, dunque, che il cessionario dimostri una buona fede di tipo oggettivo, ossia propria di un operatore che ha agito diligentemente e basata su elementi reali che indurrebbero qualsiasi imprenditore a ritenere l'operazione priva di intenti frodatori. Nel caso in cui emergano circostanze sospette, tali da far dubitare della liceità dell'operazione - sempre che tali indizi siano provati dall'Ufficio in base a elementi oggettivi, anche presuntivi - è ritenuto corretto addossare all'acquirente l'onere di provare la propria buona fede. Ai fini probatori, quindi, è opportuno che il contribuente compia controlli preventivi volti a verificare, per quanto possibile, la regolarità del soggetto con cui intrattiene rapporti commerciali. Così, ad esempio, sarebbe utile accertare l'esistenza del soggetto cedente attraverso, ad esempio, visure camerali, siti internet, appurando l'operatività dell'impresa e la regolare iscrizione nei pubblici registri. È certamente utile, inoltre, conservare tutta la documentazione extracontabile relativa all'operazione e consistente in contratti, documenti di trasporto, mail e fax relativi agli accordi intrapresi, dimostrando che l'acquirente non ha ottenuto alcun beneficio economico dall'eventuale frode cui ha partecipato il venditore[21]. Appare, tuttavia, evidente, che un'inversione dell'onere della prova, attuato a posteriori, può risultare difficilmente superabile dal contribuente, il quale, come sancito dalla Corte di Giustizia, dovrebbe poter riporre affidamento sulla certezza dei rapporti commerciali che pone in essere, senza attuare una preliminare attività investigativa che non gli è propria. Nella fattispecie in esame, la Suprema Corte ha ribadito e dato seguito al principio di diritto che “in tema di IVA, l'Amministrazione finanziaria, se contesta che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell'ambito di una frode carosello, ha l'onere di provare non solo l'oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l'operazione si inseriva in una evasione dell'imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l'ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l'Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un'operazione volta ad evadere l'imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, nè la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi”. In applicazione di siffatto principio di diritto, i Supremi Giudici hanno verificato se la sentenza impugnata si uniformi a tale arresto giurisprudenziale, sinteticamente rappresentativo della corretta interpretazione delle evocate disposizioni legislative in ordine alla detraibilità/indetraibilità dell'IVA e della correlata giurisprudenza unionale ed interna di legittimità. Quindi, alla stregua di tale verifica hanno ritenuto che la CTR emiliana non ha chiaramente indicato le ragioni per le quali gli amministratori della società contribuente “sapevano o avrebbero dovuto sapere”, secondo la specifica diligenza richiesta dalla loro qualifica professionale, che si trattava di fatture per operazioni “soggettivamente” inesistenti.
Osservazioni
Intervenendo in tale complesso quadro di ripartizione dell'onere probatorio con la sentenza in esame, la Corte di Cassazione ha ribadito che, nel caso in cui voglia dimostrare una frode fondata su operazioni soggettivamente inesistenti, l'Amministrazione finanziaria deve provare il coinvolgimento del soggetto acquirente nel meccanismo illecito attuato dal fornitore. Siffatta pronuncia va ulteriormente a consolidare l'impostazione in base alla quale l'Amministrazione finanziaria, al fine di poter disconoscere un diritto “generale” quale è quello alla detrazione dell'IVA, deve provare non solo la sussistenza di un'operazione fraudolenta ma anche l'apporto “soggettivo” del cessionario, ossia il fatto che lo stesso fosse consapevole o avrebbe dovuto sapere che la cessione si inseriva in una fattispecie fraudolenta. La corretta valutazione dell'elemento soggettivo, infatti, appare dirimente per poter giustificare l'eventuale compressione di un diritto generale quale è quello alla detrazione dell'imposta. La mera sussistenza di una fattispecie fraudolenta non potrebbe comportare ex se la perdita del diritto di detrazione; ciò, evidentemente, a tutela della buona fede del soggetto passivo che può essere sanzionato solo e nella misura in cui sapeva (o avrebbe dovuto sapere) di partecipare ad una operazione volta ad evadere le imposte. Tuttavia, anche la pronuncia in commento, come del resto gli altri precedenti giurisprudenziali, si manifesta carente da un punto di vista di puntuale definizione in positivo di quegli “elementi obiettivi” idonei a dimostrare che il soggetto conosceva o avrebbe dovuto conoscere la frode giacché si limita ad offrire criteri generali in ordine a ciò che l'Amministrazione finanziaria sia tenuta a provare.
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