Il diniego alla transazione fiscale è impugnabile avanti al giudice tributario
13 Marzo 2020
Massima
Il provvedimento con il quale l'Agenzia delle Entrate esprime il proprio diniego ad una proposta di transazione fiscale in ambito di procedura di concordato preventivo è impugnabile avanti alla Commissione tributaria, quale atto amministrativo avente ad oggetto profili che attengono all'obbligazione tributaria. L'atto di diniego alla proposta di transazione fiscale deve essere compiutamente motivato, dovendo indicare sia i presupposti di fatto, sia le ragioni giuridiche che abbiano determinato la decisione dell'Amministrazione finanziaria, con onere di allegazione dell'atto richiamato in caso di motivazione per relationem. Il caso
Una società presentava domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo avanti al Tribunale di Milano, proponendo all'Agenzia delle Entrate il pagamento in misura “falcidiata” del credito tributario, ex art. 182-ter l. fall. L'Amministrazione finanziaria manifestava di non aderire alla proposta, esprimendo, al contempo, voto contrario alla parte “degradata” in chirografo del credito tributario, ex art. 177-178 l. fall. La proponente adiva la Commissione tributaria provinciale di Milano al fine di ottenere l'annullamento del provvedimento di diniego, per difetto di motivazione. Si costituiva l'Agenzia delle Entrate, eccependo in sostanza il solo profilo di inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione del foro tributario. La Commissione territoriale respingeva l'eccezione circa il difetto di cognizione del giudice tributario, ritenendo che ogni questione attinente all'an ed al quantum dell'obbligazione fiscale ricada nell'ambito della giurisdizione del foro tributario. Quanto al merito del rilievo sul difetto di motivazione del diniego, i giudici milanesi rilevavano come ogni atto amministrativo, anche tributario, debba essere compiutamente motivato, con l'indicazione dei relativi presupposti di fatto e delle sottese ragioni giuridiche. Fra l'altro, qualora – come nel caso in esame – le ragioni della decisione derivino da un diverso provvedimento, richiamato per relationem, quest'ultimo deve essere reso disponibile alla parte, mediante idonea produzione assieme al primo atto.
Nella fattispecie, l'Ufficio aveva basato la mancata adesione alla proposta limitandosi a richiamare il parere della competente Direzione Regionale della Lombardia-Servizio Riscossione, ma non aveva allegato tale parere al provvedimento di diniego. Né l'Agenzia delle Entrate aveva depositato il suddetto parere agli atti del procedimento tributario, nonostante l'espresso invito in tal senso, con decreto, da parte del Presidente della Commissione. I giudici territoriali, rilevato l'assoggettamento al foro tributario dell'atto di diniego, accertatone il difetto di motivazione, annullavano il provvedimento, compensando peraltro le spese “attese la novità e la peculiarità delle questioni dedotte in giudizio”. La Commissione tributaria provinciale di Milano, da ultimo, nell'accogliere il ricorso, rimarcava il potere/dovere da parte dell'Amministrazione finanziaria di determinarsi nuovamente, in modo questa volta motivato, sulla proposta di transazione fiscale formulata dalla società debitrice.
Le questioni
Due sono le questioni di diritto sottoposte al vaglio della Commissione tributaria provinciale di Milano:
1) se l'atto con il quale l'Amministrazione finanziaria manifesti di non accettare la proposta di transazione fiscale ricada nella giurisdizione del giudice tributario; 2) se il provvedimento di diniego debba essere motivato, come previsto dalle norme sul procedimento amministrativo e sull'ordinamento tributario.
Le soluzioni giuridiche
In relazione al primo punto, la Commissione territoriale, sul presupposto che il diniego alla transazione fiscale sia un atto correlato a profili che attengono all'an e/o al quantum della pretesa fiscale, ha riconosciuto la giurisdizione del foro tributario. I giudici milanesi hanno richiamato, al riguardo, la sentenza delle Sezioni unite della Corte di Cassazione n. 7805 del 4 aprile 2006. Tale decisione traeva origine da un contenzioso tributario promosso da una società assuntrice di un concordato fallimentare omologato avverso un avviso di liquidazione notificatole in relazione a tributi sorti in occasione di un precedente concordato, anch'esso omologato, ma successivamente risolto per inadempimento del proponente. Nel procedimento fiscale, l'Amministrazione finanziaria aveva eccepito la mancata giurisdizione del foro tributario circa la decisione se l'assuntore del secondo concordato fosse qualificabile come soggetto passivo d'imposta in relazione ad un'obbligazione tributaria riconducibile alla prima procedura concordataria. In tale occasione, le Sezioni unite hanno riconosciuto la giurisdizione del foro tributario.
L'individuazione del soggetto tenuto all'assolvimento dell'obbligazione fiscale, ovvero dei limiti entro cui lo stesso vi sia tenuto quale soggetto passivo d'imposta, riguarda infatti un profilo che attiene all'an (il primo caso) ed al quantum (il secondo caso) della pretesa tributaria (in senso conforme, Cass. civ., sez. un., 15 aprile 2005, n. 7792). Secondo la Suprema Corte spettava quindi al giudice tributario stabilire se l'assuntore del secondo concordato fosse tenuto, ed in quale misura, all'assolvimento dei tributi sorti per effetto delle operazioni poste in essere in esecuzione del primo concordato. Sulla scorta di tale insegnamento, la Commissione tributaria provinciale di Milano, con la sentenza in esame, ha statuito che la decisione sul provvedimento erariale di diniego, avendo natura sostanzialmente impositiva, rientra nella cognizione del giudice tributario.
In relazione al secondo punto – difetto di motivazione –, i giudici territoriali hanno rilevato, sotto un profilo generale, che qualsiasi provvedimento emanato da un organo della pubblica amministrazione, compresa quella tributaria, debba essere compiutamente motivato. Devono esservi cioè espressamente indicati sia i presupposti di fatto, sia le ragioni giuridiche che abbiano condotto all'emanazione dell'atto amministrativo. E qualora tali motivi traggano fondamento – per relationem – da un atto amministrativo “esterno”, quest'ultimo deve essere prodotto assieme al primo provvedimento, di modo che la parte interessata ne sia compiutamente edotta. La Commissione tributaria provinciale di Milano ha richiamato, sul punto, i principi generali che informano l'azione amministrativa. In primo luogo, per quanto attiene all'ordinamento tributario, l'art. 7, comma 1, L. n. 212/2000 (Statuto del contribuente). Secondo tale norma, gli atti dell'Amministrazione finanziaria devono essere motivati, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che abbiano determinato ogni relativa decisione. Ove nella motivazione dell'atto si faccia riferimento ad un altro provvedimento, quest'ultimo deve essere allegato al primo atto (art. 7, comma 1, ultimo periodo, L. n. 212/2000). In secondo luogo, con riferimento al procedimento amministrativo, rileva l'art. 3, comma 1, L. n. 241/1990. In base a tale disposizione normativa, ogni “provvedimento amministrativo […] deve essere motivato […]. La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione, in relazione alle risultanze dell'istruttoria”. Fra l'altro, l'art. 3, comma 1, L. n. 241/1990 ha portata generale, applicandosi anche al procedimento tributario. In questo senso, l'art. 13, comma 2, L. n. 241/1990, nell'individuare le disposizioni che non si applicano all'ordinamento fiscale, richiama solo le norme che regolano la partecipazione al procedimento amministrativo, ovvero gli artt. 7-12, e non anche il citato art. 3. Su quale sia il foro deputato alla cognizione circa il provvedimento di diniego alla transazione fiscale si è espresso il Consiglio di Stato, con sentenza n. 4021/2016. L'organo supremo della giustizia amministrativa, con tale pronunzia, ha preso posizione su un provvedimento del TAR Puglia, con il quale era stato dichiarato il difetto di giurisdizione del foro amministrativo circa la mancata adesione erariale ad una proposta transattiva, formulata peraltro in ambito di accordo di ristrutturazione ex art. 182-bis l. fall. Il Consiglio di Stato ha preliminarmente rilevato come la transazione fiscale abbia ad oggetto la possibilità di assolvimento in misura ridotta e/o in modo dilazionato del credito tributario privilegiato, oltreché di quello chirografario. La scelta di aderire alla proposta deve discendere da valutazioni legate al miglior soddisfacimento della pretesa fiscale, attraverso una comparazione con il grado di soddisfacimento che il credito troverebbe attraverso le alternative ipotesi concorsuali. Ciò implica una serie di valutazioni in ordine al merito della pretesa impositiva e, dunque, sul grado di “esigibilità” del credito tributario, tali da non consentire l'esercizio di alcun sindacato da parte del giudice amministrativo. In questo senso, la discrezionalità erariale di disporre del proprio credito non è connessa “all'esercizio di un potere pubblico autoritativo nel senso tradizionale del termine, quanto alla valutazione, del tutto economica, inerente alla pretesa tributaria e alla modalità di soddisfazione della medesima” (Cons. St., sez. IV, 28 settembre 2016, n. 4021). L'ente titolare del diritto al tributo non è dunque tenuto ad accettare la proposta transattiva qualora la stessa non appaia funzionale, né utile alla miglior tutela della posizione creditoria erariale. Sulla base delle considerazioni sopra esposte, il Consiglio di Stato ha confermato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, sancendo, al contempo, la giurisdizione del foro tributario.
Osservazioni
La Commissione tributaria provinciale di Milano, con la sentenza in oggetto, ha operato un “parallelismo” fra il caso ad essa devoluto e la fattispecie dedotta nell'ambito del giudizio conclusosi con la richiamata sentenza n. 7805/2006 delle Sezioni Unite. Nel caso trattato dalla Suprema Corte, oggetto d'impugnazione avanti al giudice tributario era stato un avviso di liquidazione emesso nei confronti dell'assuntore di un concordato fallimentare omologato, per quanto la sottostante pretesa tributaria fosse sorta con riferimento ad un precedente concordato, poi andato risolto. Si verteva, in altre parole, sui profili legati alla soggettività passiva nell'ambito di un configurabile rapporto giuridico d'imposta e, dunque, sulla possibile esistenza dell'obbligazione tributaria. Nel secondo caso, il provvedimento oggetto d'impugnazione avanti ai giudici milanesi non assumerebbe valenza impositiva in senso stretto, configurandosi piuttosto come esercizio di una prerogativa – il voto nell'ambito del concorso – riconducibile ad una presupposta posizione creditoria in capo all'Amministrazione finanziaria. Com'è noto, ricadono nella giurisdizione del foro tributario tutte le controversie di natura fiscale, ovvero le controversie correlate ad atti amministrativi aventi carattere impositivo. Quanto sopra, al di là della formale qualificazione/denominazione del provvedimento amministrativo, dovendosi dunque prescindere dal numerus clausus di cui all'art. 19, D.Lgs. n. 546/1992.
In questo senso, il contribuente deve poter adire il foro tributario avverso “tutti gli atti adottati dall'ente impositore che, con l'esplicazione delle concrete ragioni (fattuali e giuridiche) che la sorreggono, porti comunque a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, senza necessità di attendere che la stessa […] si vesta della forma autoritativa propria di uno degli atti dichiarati espressamente impugnabili dall'art. 19” (così, Cass. civ., sez. un., 27 marzo 2007, n. 7388). Quanto premesso, si discute se il provvedimento con il quale l'Amministrazione finanziaria manifesti le proprie determinazioni circa una proposta di transazione fiscale ex art. 182-ter l. fall., possa qualificarsi come atto impositivo.
L'Ufficio non emetterebbe alcun atto di natura procedimentale che incida sulla sfera patrimoniale del debitore; né, da tale determinazione, deriverebbe un “incremento” della posizione debitoria del contribuente rispetto a quella esistente al momento della proposizione della proposta. Si discute anche se il diniego alla transazione fiscale sia equiparabile al provvedimento di rigetto/revoca di agevolazioni fiscali, ex art. 19, comma 1, lett. h), D.Lgs. n. 546/1992 (in questo senso, Comm. trib. prov. Milano, 14 febbraio 2014, n. 1541). In questo caso, l'ente impositore emette un atto avente natura procedimentale, dal carattere impositivo, contestando la sussistenza dei presupposti di legge i quali, ove integrati, darebbero diritto ad usufruire di un determinato “beneficio” fiscale previsto dalla norma. Il diniego alla transazione fiscale avrebbe invece natura di atto “discrezionale”, non incidente, in senso stretto, né sull'an, né sul quantum della pretesa fiscale. La natura non impositiva del diniego è stata accolta dall'orientamento giurisprudenziale che riconduce la questione in esame nell'ambito della cognizione del foro amministrativo (v. TAR Calabria, sez. I, ord. del 27 luglio 2012, n. 424).
Secondo altro orientamento, sul presupposto che la transazione fiscale non assurge ad accordo autonomo, rappresentando piuttosto una fase endoconcorsuale che si chiude con il voto erariale, la decisione sarebbe devolvibile al giudice ordinario (cfr. App. L'Aquila, 16 marzo 2011; Trib. Roma, 20 aprile 2010; Trib. Milano, 13 dicembre 2007). In realtà, l'attuale struttura dell'art. 182-ter l. fall., così come modificato dall'art. 1, comma 81, L. n. 232/2016, ha ridimensionato la portata “negoziale” dell'istituto, con l'effetto, da un lato, di avere attenuato il carattere “discrezionale” della scelta erariale, dall'altro, di avere reso “obbligatoria” la transazione fiscale all'interno della proposta concordataria.
Sotto il primo profilo, l'Amministrazione finanziaria è tenuta ad effettuare una rigorosa valutazione comparativa rispetto al prevedibile soddisfacimento della pretesa tributaria nella prospettiva dell'alternativa ipotesi liquidatoria. Sotto il secondo profilo, la transazione fiscale non rappresenta più un sub-procedimento autonomo rispetto all'iter concordatario: l'ente erariale è così tenuto a partecipare al voto secondo le regole generali del concorso, ex art. 174 ss. l. fall. Venuto meno il tratto “negoziale” della transazione fiscale (così ancora definendola, per semplicità, per quanto, correttamente: “trattamento dei crediti tributari e contributivi”), la scelta di aderire o meno all'accordo da parte dell'Amministrazione finanziaria assume una valenza strettamente procedimentale.
In altre parole, al verificarsi delle condizioni di legge – maggiore convenienza per l'ente pubblico della soluzione “conciliativa” rispetto all'alternativa ipotesi liquidatoria, come attestata dal professionista ex art. 182-ter, comma 1, l. fall. – la scelta di aderire all'accordo si configura in sostanza come un atto dovuto, atteso il dovere d'agire conformemente ai criteri che informano l'azione erariale. E dunque, sotto questo profilo, l'atto di diniego – ovvero la determinazione di non esprimere alcun voto (silenzio-rifiuto) – appare idoneo ad incidere sul rapporto giuridico d'imposta ed in particolare sul quantum dell'obbligazione tributaria. Da qui – ad avviso di chi scrive – la cognizione del foro tributario. D'altra parte, la giurisprudenza di legittimità ha sensibilmente ampliato l'ambito della giurisdizione tributaria, facendovi di fatto rientrare ogni aspetto legato al rapporto giuridico d'imposta (cfr. Cass. civ., sez. V, 11 maggio 2012, n. 7344; Cass. civ., sez. un., 5 agosto 2009, n. 17943; Cass. civ., sez. un., 10 agosto 2005. n. 16776). Un tema rilevante attiene poi alla decorrenza del termine per la proposizione del ricorso tributario avverso il diniego alla proposta di transazione fiscale. Qualora l'Amministrazione finanziaria si esprima attraverso un voto contrario, i sessanta giorni ex art. 21, comma 1, D.Lgs. n. 546/1992 decorrono dalla data della comunicazione del diniego. Ove l'ente erariale non eserciti il voto – silenzio-rifiuto – si pone il problema della decorrenza del dies a quo ai fini della proposizione del ricorso. Il criterio generale ex art. 21, comma 1, D.Lgs. n. 546/1992 prevede che il ricorso sia proposto, a pena d'inammissibilità, nei sessanta giorni dalla notificazione dell'atto. Tale norma presuppone che vi sia un provvedimento espresso da parte dell'ente erariale e dunque, in prima battuta, la disposizione di cui sopra non parrebbe applicabile al caso in esame. Potrebbe soccorrere il secondo comma dell'art. 21, D.Lgs. n. 546/1992. Esso prevede che il ricorso contro il rifiuto tacito relativo alla restituzione di crediti tributari sia proposto dopo il novantesimo giorno dalla domanda di restituzione. Tale disposizione non pare però applicabile al nostro caso, trattandosi di fattispecie legata ad una presupposta domanda di restituzione di tributi versati ma ritenuti non dovuti, al di là della più generale considerazione che sarebbero oltremodo dilatati i tempi del gravame. Ed allora, la soluzione per accedere alla regola generale ex art. 21, comma 1, D.Lgs. n. 546/1992, appare quella di assumere il silenzio erariale quale diniego “decisorio”, con valenza dunque – ai fini della proponibilità del ricorso – di provvedimento espresso. Il gravame potrebbe così essere introdotto nei sessanta giorni decorrenti dal ventesimo giorno post adunanza dei creditori, ex art. 178, comma 4. L. fall. Nel merito, il giudice tributario ha sulla controversia una cognizione a tutto tondo (così, Comm. trib. prov. Roma, 1° dicembre 2017, n. 26135).
La censura potrà pertanto riguardare non solo i profili attinenti al difetto di motivazione del diniego, ma anche l'erronea valutazione da parte dell'ente erariale circa la convenienza della proposta, avuto riguardo al ricordato giudizio comparativo rispetto a quanto realizzabile in caso di alternativa liquidazione. Considerati i tempi serrati del concorso, particolare rilevanza assumerà la proponibile domanda cautelare ex art. 47, D.Lgs. n. 546/1992, la quale potrebbe portare alla sospensione degli effetti del diniego, in attesa della definitiva pronunzia del giudice tributario in ordine al merito della controversia. All'eventuale accoglimento della domanda cautelare da parte del giudice tributario, la procedura concorsuale potrebbe essere sospesa, ex art. 295 c.p.c., in attesa dell'esito del contenzioso fiscale di primo grado, dalla cui definizione dipende la decisione del procedimento concorsuale.
Sullo sfondo resta peraltro l'incertezza circa la compatibilità fra i tempi del giudizio tributario ed i tempi scanditi dalla norma concorsuale. Rimane al contempo l'auspicio che la possibilità di gravame avverso il diniego induca gli uffici ad una rigorosa valutazione della concreta convenienza della proposta, rilevabile in particolare dalle attestazioni che accompagnano il piano e che hanno lo scopo di garantire un trattamento non pregiudizievole degli interessi erariali rispetto alle alternative liquidatorie. |