Risarcimento del danno e concorso di colpa del minore: valutazione oggettiva della condotta, non rileva la culpa in vigilando dei genitori
14 Aprile 2020
Massima
Ai fini della riduzione del risarcimento del danno in applicazione del comma primo dell'art. 1227 c.c., deve valutarsi esclusivamente se il danneggiato abbia tenuto o meno un comportamento oggettivamente in contrasto con una regola di condotta, stabilita da norme positive ovvero dettata dalla comune prudenza, a prescindere dalla sua età e dal suo stato di incapacità naturale, ed a prescindere altresì dalla condotta del soggetto che ne aveva la sorveglianza.
Il caso
Un bambino annega facendo il bagno nel lago Santa Croce.
La madre e i nonni agiscono nei confronti del Comune, proprietario del bacino, e di Enel produzione s.p.a., quale gestore dei relativi impianti idroelettrici, chiedendo il risarcimento del danno non patrimoniale. Il Tribunale di Roma accorda il risarcimento per intero, escludendo la ricorrenza dei presupposti per la riduzione ex art. 1227, comma 1 , c.c. invocata dai convenuti. La Corte d'appello è di diverso avviso, e riduce del 20% l'importo del risarcimento ritenendo la sussistenza di culpa in vigilando da parte della madre. I familiari del bambino ricorrono per cassazione e deducono, in primo luogo, l'errore della Corte d'appello nel ridurre il risarcimento per culpa in vigilando poiché ai fini dell'applicazione dell' art. 1227 , comma 1 c.c. deve valutarsi oggettivamente la condotta del danneggiato, anche se incapace, e non quella del soggetto tenuto alla sorveglianza sul medesimo; in secondo luogo, lamentano il mancato riconoscimento del danno catastrofale, richiesto jure hereditatis. La questione
Di particolare interesse è la questione che riguarda l'applicazione al caso di specie del primo comma dell' art. 1227 c.c.
(concorso del fatto colposo del creditore): la norma impone di diminuire il risarcimento «secondo la gravità della colpa e le conseguenze che ne sono derivate» nel caso in cui il fatto del creditore abbia concorso a cagionare il danno, così rispondendo all'esigenza che il debitore non si faccia carico del danno per le conseguenze che non sono a lui causalmente imputabili. Quid iuris però se il creditore, danneggiato da un evento che egli ha in parte provocato, è incapace?
La rubrica della norma parla di fatto “colposo” e nel testo vi è uno specifico rifermento alla “gravità” della colpa, e ciò sembrerebbe indirizzare verso la ricerca di un prerequisito di capacità di intendere e di volere del soggetto che ha posto in essere il fatto avente incidenza causale sull'evento; da qui la conclusione, in conformità alla quale si è regolata la Corte d'appello, che se il danneggiato non è imputabile, si valuta la colpa di chi era tenuto alla sua sorveglianza. Di contro, i ricorrenti deducono che la condotta del danneggiato deve valutarsi oggettivamente, nella sua idoneità ad essere concausa di danno e non sotto il profilo della condotta imputabile all'agente.
La seconda questione, quella del risarcimento del danno catastrofale, o da lucida agonia, riguarda la risarcibilità della sofferenza provata dalla vittima nell'avvertire l'approssimarsi della propria fine: è indiscutibile che si tratti di una sofferenza elevatissima, ma è da vedere se la morte immediata o con uno spazio di tempo ridottissimo tra l'evento e la conseguenza escluda il diritto al risarcimento.
La Corte di Cassazione risolve la prima questione in senso opposto alla soluzione adottata dalla Corte d'appello di Roma, non mancando di fare notare che il contrasto sul punto è stato risolto sin dal 1964, quando le sezioni unite della Corte affermarono che «quando un soggetto incapace d'intendere e di volere, per minore età o per altra causa, subisca un evento di danno, in conseguenza del fatto illecito altrui in concorso causale con il proprio fatto colposo, l'indagine deve essere limitata all'esistenza della causa concorrente alla produzione dell'evento dannoso, prescindendo dall'imputabilità del fatto all'incapace e dalla responsabilità di chi era tenuto a sorvegliarlo»
L'art. 1227 c.c, infatti, prevede due diverse ipotesi di “fatto colposo” del creditore: al primo comma si considera -al fine di ridurre il risarcimento del danno- la condotta del danneggiato che ha contribuito a cagionare la lesione iniziale ovvero ha inciso sul rapporto di causalità materiale con il danno-evento. Qui il giudice deve operare un giudizio di imputazione causale, in termini oggettivi. Il comma 2 considera invece la omissione di una condotta diligente da parte del creditore, che avrebbe potuto evitare taluni pregiudizi; vale a dire un comportamento dello stesso danneggiato che produce l'aggravamento del danno ma senza contribuire alla sua causazione. In questo ultimo caso viene in rilievo la violazione del dovere di correttezza che impone al danneggiato di comportarsi in modo diligente, pena la esclusione del risarcimento per quei pregiudizi che avrebbero potuto essere evitati. Data questa differenza, tra condotta che causa il danno e condotta che aggrava le conseguenze del danno, la giurisprudenza della Corte di legittimità ha nel tempo costantemente affermato, quanto all'applicazione del comma primo, la irrilevanza della condotta dei genitori e in genere di chi è tenuto alla sorveglianza dell'incapace il cui comportamento ha contribuito a causare il danno (Cass. civ., 15 giugno 1973 n. 1753; Cass. civ., 16 aprile 1992 n. 4691; Cass. civ. , 05 maggio 1994 n. 4332; Cass. civ., 1 aprile 1995, n. 3829; Cass. civ., 29 aprile 1993, n. 5024). È stato affermato, in particolare, che l'espressione "fatto colposo" non va intesa come riferita all'elemento psicologico della colpa, che ha rilevanza esclusivamente ai fini di una affermazione di responsabilità la quale presuppone l'imputabilità, ma deve intendersi come sinonimo di comportamento oggettivamente in contrasto con una regola di condotta, stabilita da norme positive e/o dettata dalla comune prudenza(Cass. civ., 1 febbraio 2018 n. 2483).
Sulla base di queste premesse, nella sentenza in esame si afferma che la condotta della vittima, anche se incapace, deve essere valutata alla stregua dello standard ordinario di comportamento diligente dell'uomo medio, senza tener conto della sua incapacità di intendere e di volere. Di conseguenza resta assorbita e superata la questione di una eventuale culpa in vigilando o in educando da parte dei genitori, perché la valutazione è operata solo sul piano oggettivo e materiale e ciò sia nel caso in cui l'azione è proposta direttamente dall'incapace (tramite i suoi legali rappresentanti), sia nel caso in cui l'azione è proposta iure proprio dai genitori o dagli eredi dell'incapace. Qui la sentenza sembra discostarsi, qualificandola tuttavia come un precisazione, da un orientamento precedente, secondo il quale la culpa in vigilando viene in rilievo quando il genitore agisca iure proprio e non come legale rappresentante del minore (Cass. civ., 18 luglio 2003 n. 12241). Secondo il Collegio che ha giudicato sul caso odierno, la condotta dei danneggiati ulteriori rispetto alla vittima primaria (e cioè la condotta negligente dei genitori o dei sorveglianti), può avere rilievo, ma solo eventualmente ai fini del giudizio relativo alla possibilità di limitare i danni conseguenti all'evento lesivo, cioè sul piano del c.d. nesso di causalità giuridica di cui all'art. 1227, comma 2, c.c. Vale qui la pena di precisare che “limitazione” del risarcimento, nel caso previsto dal secondo comma dell'art. 1227 c.c. non significa riduzione percentuale, secondo l'incidenza del fatto posto in essere dal creditore- danneggiato, ma esclusione del risarcimento per quei pregiudizi che potevano evitarsi con l'ordinaria diligenza.
Queste distinzioni possono invero attenuarsi nel risultato pratico: ed infatti la Corte, pur cassando con rinvio la sentenza impugnata, avverte che le conseguenze dell'esame potrebbero non essere diverse rispetto alla conclusioni cui è giunto il giudice d'appello ove si valuti la condotta della vittima in termini oggettivi, prescindendo cioè dalla considerazione della minore età: fare il bagno in un lago pericoloso, non sapendo nuotare, può essere considerata obiettivamente un condotta idonea a concorrere a causare il danno e ciò a prescindere dalla “colpa” della madre consistente nel non avere vietato (o impedito) al bambino di fare il bagno.
La seconda questione e cioè il risarcimento del danno catastrofale (o catastrofico) è risolta dai giudici di legittimità dando prevalenza non già al criterio temporale, secondo il quale sarebbe necessario un lasso di tempo apprezzabile tra il fatto lesivo e la morte, criterio che viene in applicazione invece quando si chiede il risarcimento del danno biologico terminale, bensì alla lucidità della vittima, che avverte l'approssimarsi della fine, ed alla intensità della sofferenza. L'esperienza del povero bambino è stata infatti «terrificante, dal momento in cui aveva cominciato a sprofondare sott'acqua, cercando inutilmente di aggrapparsi al suo amico», circostanza che sul piano logico è stata ritenuta non compatibile con l'assenza di coscienza dell'approssimarsi della fine. Viene così ribadito il principio che detto danno consiste «nel pregiudizio subito dalla vittima in ragione della sofferenza provata nel consapevolmente avvertire l'ineluttabile approssimarsi della propria fine ed è risarcibile a prescindere dall'apprezzabilità dell'intervallo di tempo intercorso tra le lesioni e il decesso, rilevando soltanto l'intensità della sofferenza medesima» (cfr. Cass. civ., 30 agosto 2019 n. 21837; Cass. civ., 20 giugno 2019 n. 16592). Osservazioni
Ai fini della valutazione del concorso di colpa del danneggiato rileva dunque il fatto obiettivamente colposo, quale inosservanza del modello di condotta normalmente diligente, a prescindere dall'incapacità del danneggiato o da altre esimenti personali di responsabilità. Ciò tuttavia non significa che il diverso grado di (obiettiva) imprudenza o negligenza non abbia rilievo: la norma impone specificamente di tenere conto della “gravità della colpa”. In che termini allora si valuta la minore o maggiore violazione delle regole di diligenza e prudenza? Secondo autorevole dottrina (Bianca C.M. in Comm. Scialoja- Branca, 1988), la colpa e la sua gravità vanno intese non in senso psicologico, ma come entità della diligenza violata, ai fini di verificare in concreto il quantum della riduzione del risarcimento; così ad esempio la colpa lieve dovrebbe ridurre il risarcimento in una misura minima. In questi stessi termini la giurisprudenza della Suprema Corte ha affermato che la condotta del danneggiato, che entri in interazione con la cosa, si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull'evento dannoso, in applicazione - anche ufficiosa - dell' art. 1227, comma 1, c.c. , richiedendo una valutazione che tenga conto del dovere generale di ragionevole cautela, riconducibile al principio di solidarietà espresso dall' art. 2 Cost. ; di conseguenza, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l'adozione da parte del danneggiato delle «cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze», tanto più incidente deve considerarsi l'efficienza causale del comportamento imprudente nel dinamismo causale del danno. In ipotesi ciò potrebbe portare -in casi limite- anche a ritenere la interruzione del nesso causale tra fatto ed evento dannoso, quando il comportamento ha avuto esclusiva efficienza causale nel causare l'evento ( Cass. civ. , 3 aprile 2019 n. 9315 ).
Qualche osservazione anche sull'altra questione affrontata dalla sentenza, quella del risarcimento del danno catastrofale o da lucida agonia.
Da tempo la giurisprudenza di legittimità (da ultimo v. Cass. civ., sez. III., 11 novembre 2019 nn. 28985 e n. 28896) costantemente afferma che, ai fini del risarcimento del danno, è necessario che la vittima alleghi e provi, seppure con tutti i mezzi, comprese le presunzioni e le nozioni di comune esperienza, che quell'evento dannoso ha causato un pregiudizio, descrivendolo accuratamente; più è accurata la descrizione delle conseguenze che la vittima ha subito, più facilmente si potrà ricorrere alle presunzioni e alle nozioni di comune esperienza. E' quindi importante distinguere, ai fini descrittivi e di una corretta allegazione del pregiudizio sofferto, quelle conseguenze dell'evento dannoso che vengono comunemente etichettate, per ragioni pratiche, come “danno catastrofale”, “danno biologico terminale” e “danno tanatologico” tutte voci della pur sempre unitaria categoria del danno non patrimoniale ( Cass. civ. 13/2/2019 n. 4151
).
Il termine danno biologico terminale è usato per descrivere la lesione del diritto alla salute in quel lasso di tempo, che deve essere apprezzabile, che intercorre tra le lesioni e l'evento e quindi il subire, pur in assenza di coscienza, una gravissima lesione dell'integrità personale della vittima nella fase terminale della sua vita, da cui discende il diritto al risarcimento trasmissibile iure hereditatis ( Cass. civ. , 30 agosto 2019 n. 21837 ; Cass. civ. , 29 agosto 2007 n. 18163 ; Cass. civ. , 23 febbraio 2005 n. 3766
). Con il termine danno catastrofale si vuole indicare la sofferenza della persona che, anche per un breve arco di tempo tra la lesione e la morte, attende lucidamente e consapevolmente il sopraggiungere del decesso; in questo caso assume rilievo il criterio dell'intensità della sofferenza provata ( Cass. civ. , 20 agosto 2015 n. 16993 ; Cass. civ. , 8 aprile 2010 n. 8360
). Infine, il termine danno tanatologico è nato per indicare la privazione del bene vita in sé, quando il decesso è immediatamente causato da una lesione fatale e manchi il c.d. spatium vivendi, o quando la vittima seppur rimasta in vita per un breve lasso di tempo dopo l'evento lesivo, si sia trovata in una condizione di incoscienza. Le sezioni unite della Corte di cassazione hanno precisato che in questo caso non vi è diritto al risarcimento per l'assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene, o comunque per la mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo ( Cass. civ.,
S ez . Un., 22 luglio 2015, n. 15350 ).
Il diritto al risarcimento non è quindi necessariamente condizionato dal decorso di un tempo minimo, perché il tempo non sempre misura l'intervallo tra le lesioni e le morte, perché talora serve a misurare l'intervallo tra la acquisita consapevolezza dell'approssimarsi dell'evento fatale e il decesso. In altre parole, è diverso il caso di chi viene colpito con una arma da fuoco e decede immediatamente o quasi, chi comprende che nel giro di pochi minuti morirà, come è il caso del bambino che sta per annegare. Nel primo caso, si tratta di una lesione che non si ha il tempo di apprezzare nella sua intrinseca consistenza perché si fonde con l'evento morte, nel secondo caso si tratta di uno stato d'animo soggettivo -e cioè la paura della morte che si avvicina ineluttabilmente- e che può ben distinguersi dall'evento morte.
La sentenza in esame, sotto questo profilo, si inscrive nella serie di pronunce che mirano a fare chiarezza sulla rilevanza del fattore tempo. In materia, altri spunti utili si rinvengono in Cass. civ. , 5 luglio 2019 n. 18056 , ove, avvertendo che i termini normalmente usati (danno terminale, catastrofico, tanatologico) sono solo descrittivi, non hanno dignità scientifica e possono talora ingenerare confusione; si precisa che se la vittima non muore immediatamente può acquistare e trasmettere agli eredi il diritto al risarcimento di due pregiudizi. Il primo è il danno biologico temporaneo (spesso chiamato danno biologico terminale), che di norma sussiste solo se la sopravvivenza è superiore alle 24 ore (tale essendo la durata minima, per convenzione medico-legale, di apprezzabilità dell'invalidità temporanea), e che andrà accertato senza riguardo alla circostanza se la vittima sia rimasta cosciente. Il secondo è il danno non patrimoniale consistente nella “formido mortis” (paura della morte, danno catastrofale) che andrà accertato caso per caso, e potrà sussistere solo nel caso in cui la vittima abbia avuto la consapevolezza della propria sorte e della morte imminente e provato per questa ragione sofferenza; qui non è necessario che la sopravvivenza abbia una durata minima ma è fondamentale la conservazione della lucidità da parte della vittima. Anche una sopravvivenza di pochi minuti, infatti, può consentire alla vittima di percepire la propria fine imminente, mentre - al contrario- una lunga sopravvivenza in totale stato di incoscienza non consentirebbe di affermare che la vittima abbia avuto consapevolezza della propria morte ( Cass. civ. , 13 dicembre 2018 n. 32372).
La perdita della vita in sé considerata non è invece risarcibile iure hereditatis, ma in caso di morte della vittima i familiari potranno invocare iure proprio il danno da perdita del rapporto parentale, in ragione del venir meno della relazione familiare che li legava al defunto ( Cass. civ. , 30 agosto 2019 n. 21837 ). |