La prova della sofferenza interiore da perdita del familiare può essere data anche in via presuntiva ex art. 2727 c.c.

Giovanni Gea
29 Aprile 2020

L'uccisione di una persona può far presumere da sola, ex art. 2727 c.c., una conseguente sofferenza morale in capo ai genitori, al coniuge, ai figli ed ai fratelli della vittima?
Massima

La prova del danno non patrimoniale da sofferenza interiore per la perdita del familiare può essere fornita mediante presunzione fondata sull'esistenza dello stretto legame di parentela riconducibile all'interno della famiglia nucleare, superabile dalla prova contraria, gravante sul danneggiante, imperniata non sulla mera mancanza di convivenza (che, in tali casi, può rilevare al solo fine di ridurre il risarcimento rispetto a quello spettante secondo gli ordinari criteri di liquidazione), bensì sull'assenza di un legame affettivo tra i superstiti e la vittima nonostante il rapporto di stretta parentela.

Il caso

Gli stretti congiunti di due giovani, deceduti nell'infortunio sul lavoro avvenuto in Egitto mentre svolgevano la loro attività di animatori turistici, ottenevano dal Tribunale di Bologna la condanna, in via solidale, delle società turistiche datrici di lavoro, al risarcimento del danno da sofferenza interiore per la perdita del familiare.

La sentenza del Tribunale, impugnata dalle società turistiche, veniva confermata dalla Corte d'Appello di Bologna.

Avverso la sentenza della

Corte territoriale

, una delle due società turistiche proponeva ricorso per cassazione.

La questione

L'uccisione di una persona può far presumere da sola, ex art. 2727 c.c., una conseguente sofferenza morale in capo ai genitori, al coniuge, ai figli ed ai fratelli della vittima?

Le soluzioni giuridiche

La S.C., per quanto qui di interesse, a fronte della doglianza della ricorrente per aver la Corte d'Appello confermato la decisione del Tribunale che aveva ritenuto sussistenti i danni patiti dai congiunti dei due giovani ricorrendo alla prova per presunzioni ex art. 2727 c.c., ribadisce il principio a mente del quale, secondo un criterio di normalità, tra i più stretti congiunti e la vittima, esiste, oltre al legame di parentela, un profondo legame affettivo, sul quale il fatto luttuoso va ad incidere, determinando un grave perturbamento dell'animo.

In virtù di detto principio, dunque, la Corte territoriale, correttamente, ha respinto l'appello precisando che la prova specifica e rigorosa è richiesta solo quando, oltre al danno non patrimoniale da sofferenza morale indotta dall'evento luttuoso, siano dedotte ulteriori, diverse ed autonome voci di danno, quali ad esempio il danno biologico o il danno correlato ad altre perdite di ordine morale soggettive, richieste non avanzate dai congiunti dei due giovani.

Pertanto, ad avviso della S.C., nel giudizio risarcitorio instaurato dagli eredi, nonché prossimi congiunti della vittima, la prova del danno non patrimoniale da sofferenza interiore per la perdita del familiare può essere fornita mediante presunzione fondata sull'esistenza dello stretto legame di parentela riconducibile all'interno della famiglia nucleare, superabile dalla prova contraria, gravante sul danneggiante, imperniata non sulla mera mancanza di convivenza, bensì sull'assenza di un legame affettivo nonostante il rapporto di parentela.

Nondimeno, anche nel caso di persona lesa in modo non lieve, la sussistenza del danno non patrimoniale, consistente nella sofferenza morale patita dal prossimo congiunto, può essere dimostrata con ricorso alla prova presuntiva, che deve essere cercata anche d'ufficio, se la parte abbia dedotto e provato i fatti noti dai quali il giudice, sulla base di un ragionamento logico-deduttivo, può trarre le conseguenze per risalire al fatto ignorato.

Nel contesto di tale indirizzo, deve ritenersi ormai pacifico che l'uccisione di una persona fa presumere da sola, ex art. 2727 c.c., una conseguente sofferenza morale in capo ai genitori, al coniuge, ai figli ed ai fratelli della vittima, a nulla rilevando né che la vittima ed il superstite non convivessero, né che fossero distanti (circostanze, queste ultime, le quali potranno essere valutate ai fini del quantum debeatur).

Nei casi suddetti è, pertanto, onere del danneggiante provare che vittima e superstite fossero tra loro indifferenti o in odio, e che di conseguenza la morte della prima non abbia causato pregiudizi non patrimoniali di sorta al secondo.

A fondamento di tale orientamento sta la considerazione che se, in linea generale, spetta alla vittima d'un fatto illecito dimostrare i fatti costitutivi della sua pretesa, e di conseguenza l'esistenza del danno, tuttavia, tale prova può essere fornita anche attraverso presunzioni semplici, ovvero invocando massime di esperienza e l'id quod plerumque accidit.

Del resto, nel caso di morte di un prossimo congiunto, l'esistenza stessa del rapporto di parentela deve far presumere, secondo l'id quod plerumque accidit, la sofferenza del familiare superstite, giacché tale conseguenza è per comune esperienza e, di norma, connaturale all'essere umano.

Naturalmente, si tratterà pur sempre d'una praesumptio hominis, con la conseguente possibilità per il danneggiante di dedurre e provare l'esistenza di circostanze concrete dimostrative dell'assenza di un legame affettivo tra la vittima ed il superstite.

In conclusione, ad avviso della S.C., non spettava ai congiunti delle due giovani vittime provare di avere sofferto per la morte dei rispettivi figli e fratelli, ma sarebbe stato onere di parte convenuta fornire la prova, in alcun modo offerta e neppure allegata, che, nonostante il rapporto di parentela, fosse insussistente un legame affettivo.

La S.C. rigetta, dunque, il ricorso con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

Osservazioni

Con la pronuncia in commento, la Suprema Corte conferma il proprio orientamento secondo cui l'uccisione di una persona fa presumere da sola, ex art. 2727 c.c., una conseguente sofferenza morale, intesa quale dolore intimo, in capo ai parenti più stretti (genitori, coniuge, figli e fratelli) della vittima a nulla rilevando, se non ai soli fini della valutazione del quantum debeatur, che la vittima ed il superstite non convivessero, nè che fossero distanti.

Ciò in quanto, per comune esperienza, la morte di un prossimo congiunto, legato da uno stretto rapporto di parentela, causa, normalmente, una sofferenza nel familiare superstite.

In tale caso, pertanto, sarà onere del danneggiante provare che la vittima ed i superstiti fossero tra loro indifferenti o in odio e che, di conseguenza, la morte della prima non abbia causato alcun turbamento dell'animo ai secondi.

Di converso, affinché possa ritenersi sussistente, in via presuntiva, una sofferenza morale nei soggetti al di fuori dello stretto nucleo familiare (es. nonni, nipoti, genero, nuora) sarà necessaria la prova della convivenza, quale connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l'intimità dei rapporti parentali, anche allargati.

Infatti, in questo caso, la presenza di un dato esteriore certo quale la convivenza, che elimina le incertezze in termini di prevedibilità della prova di un rapporto affettivo intenso, si sostituisce al dato rilevante della parentela stretta all'interno della famiglia nucleare e, parificandola a quest'ultima, consente di usufruire dello stesso regime probatorio, per presumere una particolare intensità degli affetti, che la giurisprudenza di legittimità ammette per i parenti stretti.

Pertanto, la morte di un prossimo congiunto costituisce di per sé un fatto noto dal quale il giudice può desumere, ex art. 2727 c.c., che i familiari stretti dello scomparso abbiano patito una sofferenza interiore sicché incombe al danneggiante dimostrare l'inesistenza di tale pregiudizio.

Prova che, evidentemente, non potrà consistere, nel caso di legame parentale stretto, nella mera mancanza di convivenza, atteso che il pregiudizio presunto, proprio per tale legame e le indubbie sofferenze patite dai parenti, prescinde già, in sé, dalla convivenza.

La mancanza di quest'ultima, quindi, non può rilevare al fine di escludere o limitare il pregiudizio, bensì al solo fine di ridurre il risarcimento rispetto a quello spettante secondo gli ordinari criteri di liquidazione, tenuto conto di ogni ulteriore elemento utile e così, ad esempio, della consistenza più o meno ampia del nucleo familiare, delle abitudini di vita, dell'età della vittima, di quella dei singoli superstiti, ecc.

Anche la semplice lontananza non è una circostanza di per sé idonea a far presumere l'indifferenza dei familiari - madre, padre, fratelli - alla morte del congiunto - figlio, fratello - trattandosi di elemento “neutro”, in quanto interpretabile, anche, quale rafforzativo dei vincoli affettivi poiché, di norma, la mancanza della persona cara acuisce il desiderio di vederla.

E', pertanto, il danneggiante che deve dedurre e provare l'esistenza di circostanze serie, concrete e non meramente ipotetiche, dimostrative dell'assenza di un legame affettivo tra la vittima ed il superstite nonostante il rapporto di parentela stretta.

Sicché, non è conforme a diritto negare rilievo ad un fatto di per sé sufficiente a dimostrare l'esistenza del danno (il rapporto di filiazione e di fratellanza) al contempo attribuendo alla mancanza di convivenza ed alla lontananza la valenza di elementi idonei a superare tale presunzione.

Diverso ed ulteriore rispetto alla sofferenza morale è, invece, il danno da perdita delle abitudini quotidiane per il quale è necessaria la dimostrazione di fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita.

Infatti, nell'ambito del danno non patrimoniale da perdita del congiunto può esservi, anche, un particolare profilo costituito dal danno da perdita del rapporto parentale, danno che va al di là del crudo dolore che la morte in sé di una persona cara provoca nei prossimi congiunti che le sopravvivono, concretandosi esso nel vuoto costituito dal non potere più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e, perciò, nell'irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sulla condivisione nell'ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2, 29 e 30 Cost., nonché nell'alterazione che una scomparsa del genere produce nei superstiti alterandone le abitudini di vita e gli assetti relazionali che erano loro propri, sconvolgendo la loro quotidianità e privandoli di occasioni per la espressione e la realizzazione della loro personalità nel mondo esterno.

Tale danno, che si fonda sulla natura non meramente emotiva ed ulteriore rispetto alla sofferenza dell'animo, dovrà, invece, essere accertato attraverso la prova di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l'evento dannoso.

Pertanto, solo nel caso in cui, in aggiunta al risarcimento del danno morale (sfera interiore) per la perdita in sé del familiare, sia richiesto un risarcimento ulteriore per l'asserita alterazione delle abitudini e delle scelte di vita (sfera esteriore), incomberà agli stretti congiunti fornire idonea allegazione e prova.

Ciò in quanto, la sofferenza umana, nella sua realtà naturalistica, si può connotare sia di un aspetto interiore (danno morale) che di un aspetto esteriore (danno alla vita di relazione) costituenti danni diversi e, perciò, autonomamente risarcibili, ma solo se provati, caso per caso, con tutti i mezzi di prova normativamente previsti.

In conclusione, laddove gli stretti congiunti non chiedano nuove, diverse e autonome poste di danno (danno alla vita di relazione), ma solo il danno da sofferenza morale per la perdita del familiare, la relativa prova potrà essere fornita anche per presunzioni.