Accertamento da studi di settore: la Cassazione conferma nuovamente la teoria degli atti antieconomici

03 Giugno 2020

La mancata remunerazione del capitale investito da parte di una società commerciale è una condotta antieconomica che, se non razionalmente giustificata da parte del contribuente, legittima l'accertamento in base agli studi di settore.
Massima

La mancata remunerazione del capitale investito da parte di una società commerciale è una condotta antieconomica che, se non razionalmente giustificata da parte del contribuente, legittima l'accertamento in base agli studi di settore.

Il caso

La vicenda analizzata dalla Suprema Corte si riferisce all'impugnazione di un avviso di accertamento Ires, Irap e Iva per l'anno 2006, proposta da una società di capitali che, per l'anno verificato, aveva indicato ricavi inferiori rispetto a quelli indicati nello studio di settore (studio di settore relativo all'attività di trasporto su strada per conto terzi).

La società contribuente, secondo l'Ufficio, aveva tenuto una condotta antieconomica perché, nonostante versasse in perdita dall'esercizio 2003, aveva aumentato il costo per il personale dipendente, ridotto ad una cifra esigua il compenso dell'amministratore e, in definitiva, non aveva remunerato il capitale investito ma solo i fattori della produzione.

La C.T.P. di Latina accoglieva il ricorso e la C.T.R. Lazio confermava la sentenza di primo grado, ritenendola condivisibile per aver ragionevolmente bilanciato gli interessi contrapposti, sulla base degli elementi disponibili.

Avverso la decisione di appello, dunque, l'Ufficio proponeva ricorso per cassazione articolando la difesa in due motivi: i) nullità della sentenza per grave carenza motivazionale, per non aver la C.T.R. pronunciato in ordine alla condotta antieconomica tenuta negli anni dal 2003 al 2006; ii) per violazione di legge, con riferimento all'art. 39, d.P.R. n. 600/1973, per non aver valutato, come avrebbe dovuto, l'antieconomicità dell'attività svolta dalla contribuente nell'anno oggetto di accertamento.

La Cassazione ha accolto il secondo motivo di ricorso dell'Avvocatura dello Stato ed ha cassato con rinvio la sentenza di secondo grado.

La questione

La questione analizzata, puramente “di merito”, è stata affrontata in chiave processuale, perché il giudice dell'appello non aveva, secondo l'Ufficio ricorrente, valutato correttamente l'antieconomicità dell'attività svolta dalla società verificata.

Nel dettaglio, la C.T.R. aveva confermato la sentenza di primo grado ritenendola condivisibile, perché aveva ragionevolmente bilanciato gli interessi contrapposti sulla base degli elementi disponibili, quando per l'Ufficio la condotta era da considerare antieconomica perché la società avrebbe dovuto, per sua natura, perseguire uno scopo di lucro e tendere a risultati economici positivi, mentre aveva continuato ad investire sul lavoro dipendente- pur essendo la sua attività economica in perdita- ed aveva anche sensibilmente ridotto l'ammontare del compenso dell'amministratore.

Alla luce di ciò, cioè considerando le reiterate perdite conseguite per gli esercizi dal 2003 al 2006, la contribuente risultava onerata di fornire logiche giustificazioni sul perché avesse continuato a remunerare unicamente i fattori della produzione (cioè aumentare i compensi ai lavoratori dipendenti) e non già il capitale investito; in altri termini, vista la situazione in cui versava la contribuente, era questa che doveva fornire la giustificazione razionale delle motivazioni sottese alle scelte “antieconomiche” perpetrate, pena la ricostruzione induttiva del reddito per l'anno accertato.

Le soluzioni giuridiche

Secondo la Suprema Corte, che ha cassato con rinvio la sentenza di appello per violazione e falsa applicazione dell'art. 39, d.P.R. n. 600/1973, risulta legittimo l'accertamento analitico-induttivo nel caso in cui:

  1. il contribuente non sia congruo con lo studio di settore;
  2. abbia tenuto una condotta antieconomica consistente, da un lato, nell'aver remunerato i fattori produttivi e non il capitale investito, nonostante le perdite reiterate negli anni; dall'altro, l'aver sensibilmente ridotto il compenso dell'amministratore;
  3. non abbia fornito opportuna giustificazione sulla regolarità delle operazioni svolte sotto il profilo della congruità e della validità economica delle scelte perseguite.

In chiave processuale, quindi, la C.T.R. si è limitata a confermare la sentenza di primo grado rilevandone la condivisibilità e la ragionevolezza, quando però l'avviso di accertamento aveva fatto riferimento a ricavi stimati sulla base degli studi di settore ed aveva rilevato che, per il 2006, non sussistevano validi elementi per giustificare un reddito significativamente al di sotto di quello minimo, proprio dello studio di settore.

Per la Cassazione, il giudice di merito ha omesso di pronunciarsi sull'antieconomicità del comportamento tenuto dalla contribuente, poiché assolutamente contrario ai canoni di gestione delle società commerciali, per loro natura finalizzate al conseguimento di profitti, atteso che, pur essendosi il suo fatturato del 2006 allineato ai valori del 2002, qualificato dalla società contribuente come anno “normale”, la stessa non aveva remunerato, nell'anno di riferimento, il capitale investito, ma solo i fattori della produzione; incombeva pertanto sulla contribuente l'onere di fornire al riguardo le necessarie giustificazioni, essendo in difetto da ritenere pienamente legittimo il ricorso all'accertamento induttivo fatto dall'ufficio, ai sensi del D.P.R. n. 600/1973, art. 39 e del D.P.R. n. 633/1972, art. 54.

In definitiva, secondo la Cassazione, qualora il contribuente dichiari un reddito non in linea con quello stimato dallo studio di settore e compia atti apparentemente antieconomici- nella specie aumento per le spese di lavoro dipendente e riduzione del compenso dell'amministratore- dovrà fornire una giustificazione razionale del perché di tali scelte, altrimenti sarà legittimo, nei suoi confronti, un accertamento induttivo di maggior reddito.

Osservazioni

La teoria dei c.d. atti antieconomici è nata in seno alla giurisprudenza e si basa sull'assunto per cui un comportamento imprenditoriale contrario ai parametri di buon senso e di razionalità può, in realtà, celare il sospetto che l'incongruenza sia solo apparente e che dietro di essa si nasconda una diversa realtà, con facoltà dell'Ufficio di rideterminare presuntivamente il reddito di quel contribuente che non riesca a giustificare, in termini razionali, il perché di tali scelte imprenditoriali.

La teoria degli atti antieconomici è stata elaborata, inizialmente, per il disconoscimento di quei costi che apparivano irragionevoli rispetto alla produzione dei ricavi.

Successivamente, la teoria ha trovato un'applicazione più estesa ed è stata utilizzata per rettificare tutto il risultato dell'esercizio, cioè il reddito.

È solo con un ulteriore sviluppo concettuale che l'antieconomicità ha avuto una nuova veste, a maglie estremamente larghe, in grado di assurgere a parametro per la valutazione di ogni singolo atto di gestione aziendale: l'assunzione di un onere, l'indebitamento eccessivo nei confronti delle banche, la deduzione di un costo, la chiusura di un esercizio in perdita o con l'esposizione di un utile esiguo rispetto agli investimenti, la mancata remunerazione di un particolare fattore, compresa la scelta di non prevedere un compenso per l'amministratore di società, ecc, sono tutti stati considerati comportamenti antieconomici che, in quanto tali, sono ammissibili solo se giustificati razionalmente.

In buona sostanza, sotto il postulato per cui sarebbe legittimo l'accertamento induttivo ogni volta che il contribuente ponga in essere comportamenti commerciali anomali, l'Ufficio è stato investito del potere di rettificare il reddito indicato nella dichiarazione del contribuente prescindendo dall'analisi contabile o dall'indagine sulla realtà aziendale, semplicemente ritenendo che, a fronte di un comportamento illogico e irrazionale, è il contribuente che deve fornire una giustificazione della scelta perseguita, pena la rettifica- in aumento- di quanto dichiarato.

La teoria degli atti antieconomici- rectius, l'incondizionata applicazione della stessa al sindacato erariale della scelta imprenditoriale- è già stata oggetto di critiche da parte della dottrina maggioritaria, per la quale- tendenzialmente- è preferibile che ogni argomento presuntivo sia fondato su dati certi ed incontrovertibili, che traggano origine da indagini effettuate sulla singola realtà economica e non già su astratte considerazioni di irragionevolezza o non conformità a regole di comune esperienza (C. Pino, Le scritture contabili e il controllo sul reddito di impresa, Cedam, 2012, pag. 212, ss).

Con riguardo al caso di specie, però, v'è da ricordare che l'accertamento, per quanto motivato in base all'asserita antieconomicità della mancata remunerazione del capitale investito, era pur sempre un accertamento fondato sugli studi di settore, quindi un accertamento “misto”, come definito da Cass., n. 7584/2020, per la quale, qualora lo scostamento dagli indici parametrici sia soltanto uno degli elementi probatori che basano la pretesa creditoria fiscale, perché l'elemento di maggior rilievo è quello dell'antieconomicità della gestione aziendale, è il contribuente che deve fornire adeguata giustificazione alle scelte imprenditoriali, non trovando applicazione l'art. 10, c. 3-bis, legge n. 146/1998 (che prevede l'obbligo di contraddittorio preventivo in caso di accertamenti in base agli studi di settore) ma solo la disciplina generale in materia di contraddittorio endoprocedimentale di cui all'art. 12, Statuto del contribuente (in senso conforme, Cass., n. 568/2020 con nota di G. Palumbo del 9 marzo 2020).

Ed allora, è corretto l'accertamento dell'Ufficio? È corretta la cassazione con rinvio al giudice di merito per la valutazione dell'antieconomicità della condotta tenuta dalla contribuente?

La risposta risulta essere negativa.

Anzitutto, l'accertamento basato sugli studi di settore è, come noto, un accertamento che prescinde dalla verifica contabile e che non tiene conto, se non dopo l'obbligatoria attivazione del contraddittorio col contribuente verificato, dell'effettiva realtà aziendale (o professionale).

Da ciò consegue, evidentemente, la non assimilabilità degli istituti “condotta antieconomica” e “scostamento da studio di settore” all'interno dello stesso accertamento, perché di fronte ad una condotta antieconomica, delle due l'una: o l'antieconomicità viene valutata come un mero indizio in grado di far scattare una verifica fattuale sulla realtà aziendale, dalla quale può scaturire un accertamento c.d. analitico-induttivo, cioè basato su presunzioni gravi, precise e concordanti (in tal senso si veda Cass., n. 21869/2016 con nota di A. Scalera del 22 dicembre 2016), oppure la condotta antieconomica deve essere letta in chiave puramente analitica, cioè con rettifica della singola voce positiva o negativa di reddito, valutando in primis la ricorrenza di un'eventuale violazione delle regole di determinazione del reddito d'impresa e, in secundis, andando a correggere solo quell'antieconomicità che sottintenda una capacità contributiva occultata, rettificando così il singolo componente di reddito e non già l'intero risultato dell'esercizio.

In altre parole, antieconomicità della gestione aziendale e induttività dell'accertamento sembra che non possano coesistere nella ricostruzione del reddito, perché l'antieconomicità è un contenitore che deve essere riempito di un contenuto analitico e non “induttivo”, perché non tutte le scelte apparentemente irrazionali sono in grado, in assenza di ulteriori verifiche in fatto, di denotare una condotta evasiva.

Del resto, come già evidenziato in dottrina (A. Panizzolo, Il principio di insindacabilità delle scelte imprenditoriali in diritto tributario: conferme e limiti, in GT – Rivista di giurisprudenza tributaria, n. 8/2001, pag. 1033), il principio di ragionevolezza è stato elaborato negli studi di diritto pubblico allo scopo di assoggettare a controllo, in termini generali, l'azione complessiva dei pubblici poteri e, pertanto, risulta “da escludere che la tutela degli interessi erariali possa giustificare il controllo dell'attività imprenditoriale alla luce dello “standard” di ragionevolezza”.

In conclusione, non risulta condivisibile l'accertamento dell'Ufficio e, di conseguenza, la posizione espressa dalla Suprema Corte, perché confermare un accertamento “induttivo” laddove il contribuente non abbia remunerato il “capitale investito” ma solo i “fattori della produzione”, rischia di relegare le regole di determinazione della base imponibile ad un ruolo marginale, dove la ragione fiscale la fa da padrona e l'imprenditore, oltre alla perdita derivante dalla scelta strategica sbagliata, dalle condizioni economiche avverse o da eventi eccezionali, potrebbe trovarsi costretto alla difesa da una ricostruzione che potrebbe divenire fantasiosa.

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