Estinzione del reato tributario: non è necessario il pagamento integrale del debito fiscale
12 Giugno 2020
Massima
In tema di sospensione del processo con messa alla prova per delitti tributari, l'ammissione dell'imputato all'istituto non è subordinata all'integrale pagamento del debito fiscale poiché l'art. 168-bis, comma 2, c.p. prevede il risarcimento del danno solo «ove possibile». (Fattispecie relativa al reato di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi in cui la S.C. ha annullato, con rinvio, l'ordinanza ammissiva del tribunale che, disponendo l'integrazione del programma di trattamento senza previo consenso dell'imputato, aveva subordinato l'ammissione al procedimento di messa alla prova all'integrale pagamento del debito tributario in difetto, altresì, di richiesta di informazioni a norma dell'art. 464, comma 5, c.p.p.). Il caso
Una contribuente era imputata del reato di omessa presentazione della dichiarazione sui redditi e sul valore aggiunto (art. 5 D.Lgs. n. 74/2000, nel testo pro tempore vigente, anteriore alle modifiche operate dall'art. 39, comma 1, lett. h, del D.L. n. 124/2019, convertito, con modificazioni, in L. n. 157/2019, che ha elevato il massimo edittale da quattro, a cinque anni di reclusione).
Nel corso del giudizio di primo grado, avanzava istanza di sospensione del procedimento con messa alla prova a norma dell'art. 168-bis c.p. e art. 464-bis c.p.p. Il tribunale accoglieva l'istanza con contestuale sospensione del procedimento (e dei termini prescrizionali) per anni due ma disponeva l'integrazione del programma di trattamento senza prima aver acquisito il consenso dell'interessata, vincolando così l'ammissione al beneficio all'integrale pagamento del debito tributario, come quantificato dall'agente della riscossione. Avverso siffatta ordinanza ammissiva l'imputata ricorreva per Cassazione lamentando la violazione e falsa applicazione:
La Terza sezione penale della Suprema Corte, con la sentenza annotata, ha accolto il ricorso annullando con rinvio l'impugnata ordinanza con riguardo ad entrambi i motivi di censura. La questione
La decisione in commento, seppur succintamente, affronta la questione della necessità - oggi chiaramente esclusa dalla Suprema corte - dell'integrale pagamento del debito tributario ai fini dell'ammissione alla messa alla prova: modalità alternativa di definizione del processo introdotta con L. n. 64/2014 applicabile ai reati puniti con pena fino a quattro anni di reclusione (art. 168-bis, comma 1, c.p.). Trattasi di limite edittale che, per quanto concerne i delitti penal-tributari, è divenuto particolarmente stringente per effetto del generalizzato innalzamento delle cornici di pena operato dall'art. 39, comma 1, del D.L. n. 124/2019, convertito con modificazioni in L. n. 157/2019. Mentre, infatti, prima del “giro di vite” dell'ultimo decreto fiscale, anche l'infedele e l'omessa dichiarazione (come nel caso di specie) consentivano l'accesso all'istituto processuale in esame, per effetto delle nuove comminatorie, a partire dal 25 dicembre 2019 la sospensione del procedimento con messa alla prova può essere richiesta solo in relazione ai reati (non connotati da fraudolenza) di:
Le questioni giuridiche
La Suprema Corte con la sentenza in commento esclude la necessità del risarcimento integrale del danno ai fini dell'accesso all'istituto della messa alla prova: principio di diritto che - declinato ai delitti tributari (pro futuro, limitatamente a quelli sopra elencati) - significa annettere l'effetto estintivo del reato contestato anche in difetto del pagamento del debito fiscale da parte del contribuente-imputato (ferma restando la sottoposizione a lavoro di pubblica utilità, consistente in una prestazione non retribuita, affidata tenendo conto anche delle specifiche professionalità e attitudini lavorative dell'imputato, di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, in favore della collettività: art. 168-bis, comma 3, c.p.).
Invero, la cd. probation – trapiantata nel codice di rito sulla falsariga dell'analogo modello minorile (artt. 28 e 29 del d.P.R. n. 448/1998) e dimostratasi, dalle statistiche giudiziarie, un istituto particolarmente “appetibile” – ha rilevanti effetti sostanziali, perché l'esito positivo della prova ex art. 464-septies c.p.p. dà luogo all'estinzione del reato, ma ha anche un'intrinseca dimensione processuale, consistendo in un nuovo procedimento speciale, alternativo al giudizio (così da ultimo Corte Costituzionale n. 19/2020).
L'odierna decisione censura anzitutto l'illegittimità della modifica officiosa, ad opera del primo giudice, del programma di trattamento elaborato ai sensi dell'art. 464-bis, comma 2, c.p. in difetto della previa consultazione delle parti (Cass. pen., sez. III, n. 16711/2018; Cass. pen., sez. III, n. 5784/2018; Cass. pen., sez. V, n. 7429/2014): il tenore inequivoco dell'art. 464-quater, comma 4, c.p.p. attribuisce sì al giudice la facoltà di integrare o modificare il programma di trattamento, ma detta facoltà - scandiscono gli “ermellini” di Piazza Cavour - è comunque subordinata al consenso dell'imputato, ossia dell'unico soggetto legittimato a formulare la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova (arg. art. 464-bis, comma 1, c.p.p.). In altri termini, seppure il giudice sia chiamato ad una valutazione discrezionale sull'adeguatezza del programma trattamentale concordato con l'Ufficio per l'esecuzione penale esterna (Uepe) - da indagarsi anche sotto il profilo dell'essere espressione dell'apprezzabilità dello sforzo sostenuto dall'imputato per elidere le conseguenze dannose o pericolose del reato e risarcire il danno «ove possibile» (così Cass. pen., sez. II, n. 34878/2019) - non può pervenire a statuizioni che snaturino la natura “personalissima” dell'istanza di sospensione del procedimento con messa alla prova.
In secondo luogo i Supremi giudici - ed è questo il profilo di maggior interesse del dictum in disamina - valorizzano l'indicazione testuale contenuta nell'art. 168-bis, comma 2, c.p., laddove prevede che la messa alla prova comporti, [solo] «ove possibile», il risarcimento del danno, in tal modo escludendo «che ex se vi sia necessaria subordinazione della messa alla prova all'integrale risarcimento del danno». Osservazioni
La sentenza in commento offre un'importante apertura esegetica in favore di quei contribuenti che intendano accedere all'istituto processuale in esame senza avere la possibilità di estinguere integralmente il loro debito con il Fisco.
La decisione in epigrafe è condivisibile perché aderente alla littera legis dell'art. 168-bis, comma 2, c.p., avente natura prescrittiva ma non assoluta, come chiaramente evidenziato dalla locuzione «ove possibile», da leggersi nel senso che il risarcimento del danno deve corrispondere - tendenzialmente - al pregiudizio patrimoniale arrecato alla parte offesa (nel caso dei reati fiscali: l'Erario) sicché, ove esso non sia tale, deve comunque essere l'espressione dello sforzo “massimo” pretendibile dall'imputato alla luce delle condizioni economiche in cui versa, che possono essere verificate dal giudice ex art. 464-bis, comma 5, c.p.p. attivando i propri poteri officiosi (Cass. pen., sez. II, n. 34878/2019). In questo senso, il citato art. 168-bis impone semplicemente la valutazione delle condotte riparatorie poste in essere dall'imputato ma non prevede alcuna inammissibilità della richiesta di messa alla prova in caso di mancato risarcimento del danno: sarebbe, anzi, del tutto ingiustificato ritenere la sospensione del procedimento con messa alla prova necessariamente subordinata all'integrale risarcimento del danno (così già Cass. pen., sez. V, n. 4610/2016). |